Il servizio sanitario nazionale è morto ammazzato

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Che la tutela sanitaria in Italia non goda di buona salute è sotto gli occhi di tutti. Sta talmente male che nel febbraio 2016 l’Istat ha certificato addirittura una diminuzione nell’aspettativa di vita e un aumento della mortalità. Fatti di una portata gravissima che ci confermano che oramai il servizio sanitario nazionale universalistico e pubblico è morto. Negli ultimi mesi, poi, è stata definita la nuova lista di prestazioni che dovranno essere erogate per garantire i Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria alla popolazione (Lea). Un grande inganno, che ci conferma che non siamo di fronte ad una morte naturale ma ad un vero e proprio omicidio. E d’altronde, che occorresse un “sistema sanitario sempre più selettivo” basato su “un modello di assistenza finalizzato a garantire prestazioni non incondizionate” era già scritto nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza del 20 settembre 2013 (ma cercando sicuramente si troverebbero indicazioni simili già prima).

I sicari e i loro complici, dunque, sono talmente tanti che è impossibile nominarli tutti: governi nazionali e regionali, grand commis laici (burocrati) e togati (medici), burocrazie sindacali corrotte e corporative. Più agevole, invece, è l’identificazione del movente, delle modalità utilizzate per compiere il delitto e dei mandanti.

Il movente è rappresentato dalla necessità di abbattere la quota di salario c.d. indiretta – quella che i lavoratori percepiscono consumando gratuitamente, o quasi, beni e servizi di prima necessità, in cui rientrano anche le prestazioni sanitarie – e dal bisogno incontenibile di profitto da accumulare, che spinge ad aprire quanti più ambiti dell’esistente allo sfruttamento capitalistico (di imprese possibilmente private). Un movente che ha a che fare con la ragion d’essere di questa società e si ritrova anche negli altri delitti consumati ai danni della scuola pubblica, delle pensioni, dell’assistenza sociale, ecc.

Le modalità utilizzate per compiere il delitto, invece, sono specifiche e seppur molteplici, possono ragionevolmente raggrupparsi in tre categorie: l’aziendalizzazione, la sussidiarietà, la subordinazione del fine (sanitario) da perseguire alle risorse (economiche) disponibili.

L’aziendalizzazione consiste nell’introduzione e nella passiva accettazione di logiche privatistiche per quanto riguarda il rapporto con la cittadinanza, l’organizzazione delle strutture sanitarie, dei loro bilanci e dei rapporti lavorativi. Il cittadino bisognoso di cure è ormai diventato un cliente che sempre più spesso, per ottenere farmaci e prestazioni, deve pagare oltre alle tasse anche un biglietto [1] ad aziende che sono tali di nome(aziende sanitarie locali, aziende ospedaliere) ma anche di fatto, visto che vengonogestite attraverso budget redatti seguendo i criteri contabili propri del settore privato (la contabilità economico-patrimoniale in luogo della contabilità finanziaria ancora largamente predominante nella pubblica amministrazione), in cui quasi la metà dei medici curanti sono in perenne conflitto di interessi essendo contemporaneamente dipendenti pubblici e liberi professionisti.

Questo quarto aspetto del processo di aziendalizzazione è particolarmente grave in quanto i maggiori guadagni conseguiti dai lavoratori derivano dall’erogazione di prestazioni equivalenti a quelle fornite quando si opera in qualità di pubblici dipendenti che però vengono lautamente pagate dal paziente (cifra su cui l’azienda pubblica fa prima la cresta). Questi guadagni, per tanto, sono direttamente proporzionali alla capacità di spesa dei cittadini (e non ai loro bisogni o agli esiti delle prestazioni) e al degrado in cui versa il servizio pubblico che spinge, chi può permetterselo, a ricorrere al privato pur di essere assistito in tempi utili. Degrado a cui gli stessi dottori contribuiscono fattivamente in ragione delle enormi ed esclusive responsabilità medico-gestionali loro proprie che gli consentono in piena legalità di organizzare il lavoro durante le ore in cui operano come dipendenti pubblici per massimizzare gli introiti che ottengono quando operano in regime libero-professionale.

La sussidiarietà, invece, riguarda tutti quei provvedimenti che, da un lato, hanno consentito il passaggio dal decentramento amministrativo alla devoluzione dei poteri alle regioni (sussidiarietà verticale) e, dall’altro, hanno permesso ad una selva di privati di convenzionarsi col SSN, ricevendo soldi pubblici in cambio della fornitura ai cittadini di beni o prestazioni ‘equivalenti’ a quelle direttamente erogate dalle strutture pubbliche (sussidiarietà orizzontale).

La prima classe di trasferimenti è all’origine dell’incremento della differenziazione territoriale nei costi e negli esiti delle prestazioni, dal momento che le singole regioni divergono per quanto riguarda la capacità di attrarre e mantenere capacità economica legale (alias fiscale) sul proprio territorio. E non a caso la mobilità sanitaria aumenta costantemente ogni anno. Questa disomogeneità è talmente evidente da spingere Renzi a promettere che la sua riforma costituzionale porterà a trattamenti uniformi su tutto il territorio nazionale. Purtroppo per lui (e soprattutto per noi), se ciò dovesse condurre effettivamente ad una equiparazione dei trattamenti, sarà solo ed unicamente perché il ritorno neo-costituzionale al decentramento amministrativo, in luogo della devoluzione, consentirà di generalizzare lo schiacciamento verso il basso della qualità e quantità delle prestazioni offerte, mentre la divergenza dei prezzi per analoghe tipologie di beni e servizi acquistati dagli enti del SSN rimarrà, per lo stesso motivo per cui, mutatis mutandis, 1kg di pomodori non costano la stessa cifra in Puglia e in Lombardia, nella grande città e nel piccolo centro, dall’ambulante e al supermercato, al dettaglio e ai mercati generali.

Ma i danni prodotti dalla devoluzione sono niente rispetto a quelli prodotti dalla sussidiarietà orizzontale. Questa ha a che fare principalmente col convenzionamento delle strutture private. Come detto, a dover essere ‘equivalenti’ sono le prestazioni, non la loro erogazione e men che meno i loro esiti; e dal momento che il finanziamento del SSN è incentrato sulle prime e non sulle seconde o sui terzi, si producono due importanti conseguenze. La prima è che le strutture private possono riservarsi il diritto di scegliere quali servizi offrire, prediligendo quelli con un basso rapporto costi/benefici. La seconda è la concentrazione dei controlli pubblici sull’avvenuta erogazione della prestazione e non sulla sua reale utilità e appropriatezza, con grande guadagno per gli avvocati. E grande e crescente dispendio di soldi pubblici visto che gli acquisti di prestazioni ospedaliere, specialistiche, riabilitative, integrative, protesiche, psichiatriche e altre prestazioni da operatori privati in convenzione con il SSN rappresentano il 22% della spesa sanitaria (anno 2015) tre punti in più rispetto al 2000 [2]. Oltre alle cliniche private però, giova ricordare che anche i medici di base in realtà sono dei liberi professionisti convenzionati col SSN che gli affida, in via quasi esclusiva, una competenza a dir poco cruciale a fronte di un pagamento che è calcolato in ragione del numero di pazienti assistiti e non dell’esito del servizio loro offerto.

La terza modalità utilizzata per compiere l’assassinio del SSN è rappresentata dalla sussunzione del fine sanitario (e fitosanitario) che il SSN deve perseguire ai soldi pubblici che gli vengono messi a disposizione. Ciò si evince chiaramente dalle modalità di riparto delle risorse per finanziare i sistemi sanitari regionali (delibera del Consiglio dei Ministri dell’11 dicembre 2012). Sintetizzando, il sistema si basa sull’individuazione delle regioni che possono assurgere a punto di riferimento per le altre. Per sedere in poltronissima è necessario: (a) ottenere un punteggio nell’erogazione dei Lea pari o superiore a quello mediano; (b) avere un bilancio sanitario in equilibrio economico; (c) non essere soggetti a piano di rientro e (d) vedersi valutare positivamente dal tavolo di verifica degli adempimenti regionali (adempimenti per la maggior parte di tipo economico-finanziario). Come si vede, quindi, tre indicatori su quattro non sono di carattere sanitario. Tra le regioni ‘migliori’ è poi necessario sceglierne cinque da cui la Conferenza Stato-Regioni caperà le tre che andranno a costituire il punto di riferimento per tutte le altre. E questo viene fatto attraverso l’utilizzo di diciannove indicatori non pesati, ben undici dei quali di tipo finanziario.

Una volta individuate le tre regioni di riferimento, il terzo passaggio consiste nell’applicare a tutte le altre regioni i loro valori di costo pesando unicamente: la popolazione, la quota di spesa finanziata dalle maggiori entrate proprie regionali, la quota di spesa che finanzia livelli di assistenza superiori ai livelli essenziali e le quote di ammortamento che trovano copertura ulteriore rispetto al finanziamento ordinario del SSN. Per tanto non solo rimangono escluse le particolari condizioni ambientali e socio-economiche che influiscono sui bisogni sanitari della popolazione (si pensi alla salute di chi vive nel quartiere Tamburi a Taranto o di chi non riesce ad arrivare alla fine del mese rispetto a quella di chi fa una vita agiata), ma l’erogazione dei Lea o di altre buone pratiche sanitarie è obiettivamente marginale rispetto alla sostenibilità economica. Inoltre, i finanziamenti alle strutture convenzionate (e il peso della sanità privata pura) sono esclusi, dal momento che nessun indicatore ne tiene conto, favorendo in tal modo il ricorso al rimborso delle prestazioni fornite dai privati in luogo della gestione pubblica diretta.

A questo punto, l’identificazione dei mandanti dell’omicidio è piuttosto agevole. Ai privati suddetti che lucrano sulla mercificazione della salute, però, vanno aggiunti i veri dominus del settore: le industrie farmaceutiche (e quelle dei macchinari) i cui brevetti sono lautamente e pienamente remunerati dai cittadini tramite acquisti sempre meno rimborsabili e ticket crescenti e dal servizio sanitario nazionale, ai cui boiardi, laici e togati, dette industrie non mancano di regalare viaggi, finanziare congressi, sponsorizzare carriere. Per tanto, suonano quantomeno tardive le preoccupazioni espresse da più parti riguardo la super-concentrazione di poteri in capo al ministero dell’economia e delle finanze che si produrrebbe se la riforma costituzionale andasse in porto. Se il 4 dicembre dovesse vincere il sì non si produrrebbe il passaggio “dalla salute alla sostenibilità finanziaria” (Ivan Cavicchi, Il Manifesto 18 ottobre) semplicemente perché questo passaggio è già avvenuto e per tanto si tratta ora di governarlo al meglio. Oramai, infatti, non si tratta più di vedere, a parità di tecnologia, quanto costa fornire un certo livello di assistenza e prestazioni (e dunque ricercare le risorse necessarie, eventualmente producendone di aggiuntive) ma di vedere che prestazioni e assistenza è possibile erogare avendo a disposizione un budget predeterminato sulla base di considerazioni riguardanti la stabilità dei conti pubblici. Per tanto, al momento è inutile continuare ad agire come se fosse ancora possibile salvare il SSN pubblico e universalistico nato con la legge n. 833 del 23 dicembre 1978. Un cadavere non può essere resuscitato. E poi, si tratta pur sempre di un ambito di intervento e dominio dello stato a-sociale borghese, e compito dei comunisti non è neanche quello di rimpiangerlo.

Note:

[1] La spesa sanitaria in Italia può essere totalmente a carico del SSN, totalmente a carico del cittadino o una via di mezzo. Il ticket si riferisce a beni e servizi il cui costo è parzialmente a carico dei cittadini. Da quando è stata introdotta (1989) questa forma di compartecipazione alla spesa si conferma la voce principale di entrate proprie delle regioni, con una crescita del 26% dal 2008 al 2014 (incremento tratto dal rapporto intitolato “Andamento spesa sanitaria nazionale e regionale 2008-2014” condotto dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali).

[2] I dati sono tratti dal “Monitoraggio della spesa sanitaria” del 2016 condotto dal ministero dell’economia e delle finanze. Le percentuali si riferiscono alla “spesa sanitaria corrente di contabilità nazionale” impiegata nei documenti ufficiali di finanza pubblica ed elaborata dall’Istat secondo i principi del Sistema Europeo delle Statistiche Integrate della Protezione Sociale in accordo ai criteri del Sistema Europeo di Contabilità. Il giudizio non cambia se si prende in considerazione la spesa rilevata mediante i modelli di Conto Economico degli Enti Sanitari Locali. Per le differenze metodologiche si rimanda al citato monitoraggio del Mef.

Alessandro Bartolini

5/11/2016 www.lacittafutura.it

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