Il sessismo nei libri delle elementari
di Dacia Maraini
Vado spesso nelle scuole e incontro ragazzi di tutte le età. So che questi sono gli anni importanti per la formazione di un individuo, mi piace discutere con loro di idee e progetti culturali. Si pensa alla scuola come a una realtà omogenea e invece ci sono tantissime differenze fra scuola e scuola.
Quando gli insegnanti sono appassionati e danno il buon esempio nella pratica della lettura e nella curiosità verso il mondo delle idee, i ragazzi rispondono benissimo. Quando invece i docenti sono distratti e pensano ad altro, lasciando i ragazzi soli, questi cadono nei trabocchetti del feticismo tecnologico. In questi casi capita di trovarsi di fronte a stereotipi dalle radici profonde, che sfiorano il razzismo, nati evidentemente in famiglia e nell’ambiente circostante, ma ribaditi da educatori insensibili e incapaci.
Gli stereotipi di genere sono purtroppo ancora troppo presenti e a volte rinascono e si diffondono con nuovo vigore, grazie ai luoghi comuni a cui indulgono le immagini che riempiono le nostre case e le nostre immaginazioni: Internet, televisione, cinema, fumetti, pubblicità.
I più piccoli, apparentemente più ingenui, hanno un criterio di giustizia molto meno convenzionale di quanto si possa immaginare, ma vengono presto trascinati nella “norma” da tutto quello che sta loro intorno, a partire dalla famiglia dove ancora, nella stragrande maggioranza dei casi, resistono marcate diseguaglianze tra uomini e donne Soprattutto nel Meridione d’Italia alla domanda «Cosa fa tua madre?» ci si può sentire rispondere: «Niente, sta a casa», frase che non ha bisogno di commenti. Il lavoro casalingo è gravoso ma mai remunerato, e quindi viene inteso spesso dai bambini come un dovere biologico della donna-madre-moglie.
D’altro canto è naturale che crescendo aumentino gli stimoli esterni, ma il mondo che li circonda è pieno di pessimi modelli che influenzano negativamente la loro capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è. La convenzione vuole che gli uomini possano anche essere brutti, purché dispongano di potere e denaro, mentre le donne devono inseguire la bellezza e mostrarsi disponibili, perché solo così anche per loro arriverà il successo, bene primario e indispensabile.
Senza contare che le donne continuano a essere stuprate, violentate, uccise perché ritenute una proprietà maschile, mentre agli aggressori viene spesso giustificata la violenza in quanto “colti da un raptus” perché troppo innamorati, come scrivono spesso le cronache. Ma dov’è l’amore quando si picchia, si umilia, si sfigura, si ammazza?
Indispensabile dunque il lavoro di analisi dell’autrice di questo libro che indaga proprio nel mondo dei libri di testo e di lettura per le scuole.
Un lavoro lungo e difficile, anche perché, tra telefonini e computer la dicotomia tra scuola e mondo reale si allarga a macchia d’olio. Per questo è importante dare ai ragazzi quegli strumenti critici che spesso mancano nel lungo e difficile processo di acculturazione. La lingua italiana, come ricorda giustamente l’autrice, è basata su un principio androcentrico: l’uomo è il parametro attorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico. Esempio paradigmatico: la stessa parola “uomo” che ha una doppia valenza perché́ può̀ riferirsi sia al “maschio della specie” sia alla “specie stessa”, mentre la parola “donna” si riferisce soltanto alla “femmina della specie”.
L’autrice, sfogliando le pagine dei libri scolastici, scopre mille piccole, a volte mascherate disparità etiche e linguistiche, che denuncia ripetendo: «Non si dovrebbero definire le donne mediante attributi fisici quando gli uomini vengono descritti attraverso attributi intellettuali o posizioni professionali».
Senza la presunzione di poter dare immediate e facili soluzioni per risolvere gli stereotipi di genere di cui sono infarciti i testi scolastici, l’autrice li ha prima di tutto analizzati con cura mettendo in evidenza le discrepanze, per quantità e qualità, tra la rappresentazione dei modelli maschili e di quelli femminili.
«I maschi, come dimostra l’analisi quantitativa, sono i padroni della scena: la loro importanza è sottolineata dal fatto che si parla continuamente di “loro”. Nei brani vengono descritte come naturali le loro azioni decisive, le loro gesta eroiche e avventurose, i loro viaggi, i loro mestieri, le loro caratteristiche di forza e coraggio, la loro cultura, la loro intelligenza». Le donne, invece, sono rappresentate come timide, indifese, poco determinate, piagnucolose e, nella maggioranza dei casi descritte solo fisicamente: belle, regali, eleganti, docili, e quando si accenna alla bruttezza di qualcuna, si prende un tono denigratorio, quasi che la bruttezza fosse una colpa.
«Il tema del lavoro eè quello che presenta la maggiore discriminazione nei confronti delle donne: mentre ai maschi viene associata un’ampia gamma di tipologie professionali, le donne si vedono attribuire un ristretto numero di possibilità lavorative, peraltro economicamente e socialmente poco appetibili. La maggior parte delle donne viene infatti indicata come casalinga o al massimo come insegnante».
In questa lunga e accurata analisi Irene Biemmi inoltre chiarisce, a quanti non lo conoscono (e sono ancora molti), il vero significato del concetto di “parità di genere”, che non coinvolge solo le donne.
«…mentre i testi analizzati relegano e condannano la donna ai lavori domestici, relegano e condannano tutti i maschi a pesanti impegni e responsabilitàà di lavoro che non tutti sono disposti o capaci di accettare e fare propri. Sarebbe opportuno, pertanto, che la rottura degli stereotipi sessuali avvenisse da entrambe le direzioni: il modello femminile dovrebbe avvicinarsi e fondersi con quello maschile tanto quanto il modello maschile dovrebbe imparare a rapportarsi e integrarsi con caratteristiche (sensibilità, dolcezza) e ruoli (cura dei figli) considerati finora “femminili”».
Un libro serio e approfondito, che si dovrebbe leggere nelle scuole. Un libro che non si nasconde dietro teorie astratte, ma analizza le pagine dei testi, facendo il nome degli autori e delle case editrici. L’analisi capillare fa capire quanto poco si rifletta sulle influenze a lungo termine di un sistema di insegnamento basato spesso su luoghi comuni che riguardano i generi.
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POSTFAZIONE
Tutto cambia, ma non i libri di testo
Umberto Eco, I pampini bugiardi
Nel 1972 Umberto Eco pubblica I pampini bugiardi. Indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari, l’anno successivo Elena Gianini Belotti dà alle stampe Dalla parte delle bambine (1973). È passato quasi mezzo secolo dall’uscita di questi due libri che, da diverse angolature e con accenti differenti, hanno denunciato la miserrima qualità dei testi scolastici e dei libri per l’infanzia diffusi nell’Italia degli anni Settanta.
Libri edulcorati, anacronistici e conformisti, incapaci di rappresentare la complessità e la conflittualità dei cambiamenti sociali in atto in quegli anni febbrili. Libri pervasi da evidenti tracce di sessismo, razzismo e da un latente autoritarismo, che però risultano refrattari ad una lettura critica perché sono stati essi stessi la fonte di un immaginario – sessista, razzista, autoritario – che ha nutrito e permeato il substrato culturale in cui gli italiani sono cresciuti e si sono formati, e dal quale è dunque difficile prendere le distanze. Questa sorta di corto circuito attivato dai libri di testo, che li rende impermeabili al cambiamento, è descritto nitidamente da Umberto Eco, in un passo che merita di essere citato con ampiezza:
Alle soglie della loro vita culturale, iniziando l’esperienza difficile ed esaltante della lettura, i nostri figli si trovano a dover affrontare i libri di testo delle scuole elementari. Educati noi stessi su libri pressoché analoghi, con la memoria ancora affollata di ricordi necessariamente cari e tenerissimi, legati alle illustrazioni e alle frasi di quelle pagine, ci è difficile fare un processo al libro di lettura. E ci è difficile farlo perché probabilmente molti dei nostri crampi morali e intellettuali, delle nostre idee correnti più contorte e banali (e difficili a morire) nascono proprio da quella fonte. Allora la fiducia che proviamo, di istinto, per il libro di lettura, non è dovuta ai meriti di quest’ultimo, ma alle nostre debolezze, che i libri di lettura hanno creato e alimentato.
Fare un processo al libro di lettura implica uno sforzo di straniamento: richiede che si legga e rilegga una pagina in cui si diffondono idee che siamo abituati a considerare «normali» e «buone» e che ci chiediamo: ma è proprio così? condizionati come siamo dai nostri antichi libri di lettura, leggere i nuovi significa aver la capacità e il coraggio di dire: «il re è nudo». Un atto di chiarezza che, diversamente che nella fiaba di Andersen, il bambino non può fare. Dobbiamo dunque farlo noi. (Eco, 1972, p. 7)
Eppure gli adulti – insegnanti, genitori, autori e autrici dei libri di testo, editori scolastici – non sono assolutamente capaci di fare questo “sforzo di straniamento” e continuano a replicare all’infinito idee e rappresentazioni del mondo ritenute – appunto – “normali” e “buone”. Idee che tendono a convergere in un modello-unico che mette d’accordo scuola e famiglia, e che viene trasmesso senza soluzione di continuità alle nuove generazioni.
Scrive Elena Gianini Belotti: «Gli autori di libri per bambini si limitano puntualmente a offrire loro gli stessi modelli già proposti in precedenza dalla famiglia e dall’ambiente sociale. La letteratura infantile ha quindi puramente la funzione di conferma dei modelli già interiorizzati dai bambini. La trasmissione dei valori culturali diventa un potente coro senza voci dissenzienti» (1973, p. 106).
È passato mezzo secolo da quando Eco e Belotti hanno tratteggiato questo scenario a tinte fosche e nel frattempo qualcosa è cambiato, ma non quanto si sarebbe potuto sperare. Quando anni fa mi sono affacciata a questa area di studi, oggi variamente nominata come “Educazione di genere”, “Pedagogia di genere”, “Pedagogia della (o delle) differenze di genere” (Gamberi, Maio, Selmi, 2010; Leonelli, 2010), non potevo immaginare che puntando lo sguardo sui libri di testo avrei toccato un nervo scoperto del nostro sistema scolastico in relazione alla questione della parità. Il quadro che emerse dalla ricerca fu infatti decisamente sconfortante, e al tempo stesso sorprendente: chi poteva immaginare che agli inizi del Duemila i libri delle elementari veicolassero impunemente, e in maniera martellante, immagini di mamme congelate nel modello della casalinga anni Cinquanta e di papà capifamiglia, dai modi vagamente autoritari, dediti al lavoro e alla gestione economica della famiglia? Non avrei potuto prevederlo, a maggior ragione perché avevo deciso di analizzare libri pubblicati negli anni seguenti al progetto Polite, un progetto voluto e sopportato in maniera capillare dall’Associazione Italiana Editori, che – ipotizzavo – avrebbe apportato grandi rinnovamenti. Mi sbagliavo.
Sono state fatte varie ipotesi sulle ragioni di questo fallimento del Polite e una delle più accreditate è che il clima politico all’epoca non fosse favorevole e il contesto socio-culturale non fosse ancora “pronto” per comprendere e per supportare un progetto così innovativo. Da allora sono passati quindici anni (il Polite si è concluso nel 2002) e molte cose sono cambiate, ma non i nostri libri di testo. Da un recente studio di Corsini e Scierri (2016) emerge infatti che la rappresentazione dei generi non solo non è migliorata, ma è leggermente peggiorata. Nei libri di lettura per la scuola primaria attualmente in uso ritroviamo, in maniera acuita, tutte le questioni già sollevate diversi anni fa dalla mia ricerca: i protagonisti maschili hanno una presenza schiacciante rispetto a quelli femminili (sono numericamente quasi il doppio) e la loro presenza aumenta ancor di più nel caso in cui la storia sia ambientata in spazi aperti, oppure nel passato o, ancora, nel caso dei racconti d’avventura; il mondo delle professioni è appannaggio degli uomini (nel campione di testi analizzati da Corsini e Scierri vengono conteggiate ben novantadue tipologie professionali per gli uomini e tredici per le donne, queste ultime riconducibili perlopiù ai lavori educativi e di cura); i bambini maschi hanno un’ampia possibilità di scelta dei giochi (videogame, costruzioni e altri giochi da montare, treno elettrico, biglie etc.) mentre per le bambine giocare con le bambole è ancora l’attività prevalente. E ancora, tra le attività preferite dei maschi troviamo “andare in bicicletta e suonare uno strumento musicale” mentre i passatempi prediletti dalle bambine risultano essere “raccontare storie e cucire/ricamare”.
Come possiamo consentire che nel 2017 i bambini e le bambine della primaria, nel momento cruciale in cui si approcciano alla lettura e ai saperi, siano costretti a rapportarsi con una cultura scolastica così discriminante, anacronistica, congelata nel tempo, non rispondente minimamente ai cambiamenti avvenuti a livello sociale?
Pur dando per vero che agli inizi del Duemila il clima non fosse favorevole, la situazione attuale sembrerebbe più incline al cambiamento.
Nonostante alcune fronde reazionarie che si sono compattate nel cosiddetto “movimento no-gender” (Marzano, 2015), possiamo convenire su alcuni importanti passi avanti fatti dalla società civile in questi ultimissimi anni.
Un primo ambito in cui si registra un aumento di consapevolezza sul tema del sessismo è quello della comunicazione massmediatica (Leonelli, Selmi, 2013). Gran parte di questo cambiamento è avvenuto grazie ad un incessante lavoro portato avanti da attiviste, blogger, giornaliste che hanno innescato una discussione “dal basso”, diffondendola sul web. Tra i contributi più incisivi segnalo il prezioso lavoro di Lorella Zanardo (2010, 2012) che da anni ha attivato una campagna di sensibilizzazione sull’oggettivazione del corpo femminile nei mass media italiani e sulla necessità di introdurre un’educazione ad un uso consapevole dei media nelle scuole; altra voce fondamentale è quella di Loredana Lipperini che sul blog “Lipperatura” ci ricorda continuamente perché è così importante collocarsi “ancora dalla parte delle bambine” (Lipperini, 2007) e tenere sempre vigile l’attenzione sulle varie forme di sessismo veicolate dai mezzi di comunicazione di massa.
E poi ci sono i movimenti collettivi (SNOQ – Se non ora quando; Non una di meno) che lottano per riaffermare una consapevolezza diffusa sulle varie forme di discriminazione e violenza di genere (sfruttamento, sessismo, razzismo, omofobia), attraverso un fondamentale lavoro diffuso sul territorio.
In questo quadro anche la scuola italiana apre spiragli di attenzione alle questioni relative alla lotta al sessismo e alla promozione di una cultura di parità, incentivati anche dal punto di vista istituzionale (basti citare la legge 107/2015 sulla “Buona Scuola” che prevede «l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori» contro femminicidio, omofobia, transfobia). Parallelamente nel mondo accademico assistiamo alla nascita di centri di ricerche dedicate ai gender studies, anche all’interno di corsi di studio finalizzati a formare le future leve di maestri/maestre, insegnanti, educatori/educatrici. Il tema dell’educazione alla parità tra i generi, collegato ad un progetto politico di prevenzione culturale della violenza di genere, comincia dunque ad attecchire anche in Italia, sebbene in maniera non omogenea sul territorio nazionale.
La narrativa per l’infanzia rappresenta una cartina al tornasole delle trasformazioni sociali in atto. Se, come denunciava Elena Gianini Belotti (1973, 1978), la letteratura per l’infanzia si è fatta tradizionalmente portatrice di una visione sessista e tradizionalista della famiglia e dei ruoli di genere, dobbiamo constatare che negli ultimi anni in Italia si assiste ad un notevole rinnovamento dell’immaginario di genere veicolato dai libri per bambini, in particolar modo dagli albi illustrati. La produzione editoriale rivolta all’infanzia è in pieno fermento: sono nate case editrici (Settenove, Lo Stampatello) e collane (“Sottosopra”, edizioni Giralangolo) interamente dedicate all’abbattimento degli stereotipi sessisti, alla promozione della cultura della parità, all’estirpazione delle radici culturali della violenza di genere, alla presentazione di nuovi modelli di famiglia (Contini, Ulivieri, 2010; Gigli, 2011; Crespi, 2015). Leggendo questi libri bambine e bambine si interfacciano con personaggi fuori dagli schemi dettati dalla tradizione, ma forse proprio per questo più aderenti alla realtà e più autentici.
Viene da domandarsi: perché questa ondata di rinnovamento non ha ancora contaminato l’editoria scolastica? Forse perché gli editori non vogliono correre il rischio di perdere una fetta del mercato floridissimo delle adozioni per cui cercano di accontentare “la media degli insegnanti”. Questa è la conclusione alla quale giunge Umberto Eco ne I pampini bugiardi: «Si deve quindi ritenere che, per accontentare la maggioranza media, per non suscitare dissensi, per non urtare suscettibilità, per piacere a tutti, si cerchi di mantenere il testo al livello dell’ovvietà, del qualunquismo, della acriticità, della idiozia rispettabile» (Eco, 1972, p. 10).
Ma questo, a parere di chi scrive, è l’esatto contrario di ciò che dovremmo aspettarci dalla scuola. Se la scuola è – o dovrebbe aspirare ad essere – luogo di democrazia e di promozione di uguaglianza sociale, non solo è tenuta a registrare prontamente i cambiamenti più innovativi provenienti dalla società dandone la massima risonanza, ma è chiamata essa stessa a promuovere e incentivare le novità culturali. I libri di testo possono e devono diventare in questo senso il motore di un cambiamento sociale che persegue principi di uguaglianza e non discriminazione. Due principi chiave della Costituzione italiana e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
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