IL SINDACATO DI STRADA fra vecchie e nuove suggestioni, sogno e realtà

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Leggendo in aprile l’intervista rilasciata da Landini alla Castellina al Manifesto sono rimasto colpito dall’ampio utilizzo di vecchi slogan per reinterpretare uno scomodo mondo nuovo che avanza.
Questa è più un dialogo che un’intervista, un confronto fra due generazioni sconfitte, una più nobile, l’altra più sfigata (quella degli anni 60), entrambe accomunate dal ricordo di grandi battaglie e il peso di molte sconfitte, ancora desiderose di di intravedere nell’oscura lettura di processi globali l’autunno definitivo del proprio nemico, con l’approssimarsi del classico e vetusto “cambio di fase”.

Non ci si risparmia nulla, come nei discorsi fra vecchi compagni: i cambiamenti climatici nel pianeta, l’economia globale che polarizza le distanze e il contrasto fra i più ricchi e i sempre più poveri, il sindacato che deve sempre cambiare, la democrazia economica e la nuova società da costruire non da sfruttati ma da protagonisti.
Diciamo che i sogni e i desideri fanno bene allo spirito, ma non dovrebbero annebbiare lo sguardo sulla triste realtà.

Le nuove sfide derivate da un mondo in continua trasformazione a tutti livelli (ambientale, economico, sociale, geopolitico), accellerata dai cambiamenti climatici e dalla pandemia, trovano l’intera umanità completamente disorientata e impreparata. Non c’è istituzione economica, politica, professionale, sociale che a livello mondiale, continentale e nazionale, che non manifesti tale difficoltà.
Le stesse autorità scientiche ancor oggi non sono in grado di prevedere quello che accadrà fra un anno o sei mesi, figuriamoci i più prosaici stati, partiti o… sindacati.
E’ abbastanza normale che di fronte ai soliti cambiamenti “epocali” sia più semplice inforcare vecchi occhiali piuttosto che fabbricarne dei nuovi.
Su tutti gli argomenti toccati nell’intervista – ambiente, economia, società, sindacato, democrazia- Landini cala delle vecchie carte estratte dal patrimonio novecentesco della Cgil e del Movimento Operaio.
Le urgenze e novità poste sul piatto dalla Castellina trovano in Landini risposte imbastite con slogan antichi e le conseguenti chiavi di lettura, legati agli ultimi periodi di radicalità del conflitto sociale nel nostro paese. Giusto adesso, quando i linguaggi e nuove analisi sottotraccia sono altre: da Greta ai rider, dai lavoratori schiacciati dagli algoritmi ai logistici alienati dal modello Amazon, dalle nuove battaglie di genere nel lavoro ai migranti sfruttati nei circuiti delle nuove schiavitù nelle produzioni più sporche del manifatturiero a quelle agricole.

Senza dimenticare i giovani del movimento global “antifa” che contrastano il ritorno dei movimenti sovranisti e razzisti nell’Occidente offuscato da un irreversibile declino.Ma non sempre le nostre vecchie parole spiegano il nuovo, a volte rischiano di nasconderlo.

Di fronte alla portata devastante e irreversibile dei cambiamenti climatici parlare ancora di un “nuovo modello di sviluppo” come fa Landini significa non aver colto che dovremmo velocemente abbandonare l’idea di “sviluppo” tipico delle tre rivoluzioni industriali passate , per parlare più di benessere da redistribuire, qualità della vita, superamento del consumismo superfluo.
Ormai i cambiamenti climatici in atto sono irreversibili e in via di accelerazione. Gli esseri viventi consumano nello stesso tempo più risorse di quanto la terra riesca a riprodurne. La data del 2050 a emissioni zero è troppo vicina per tollerare compromessi. Credere che nei prossimi dieci-20 anni basterà cambiare il sistema della mobilità e risparmiare sui consumi energetici in generale (come emerge dal PNRR di Draghi), senza trasformare radicalmente le produzioni manifatturiere e senza eliminare tutte le emissioni domestiche da riscaldamento, è come voler far finta di nulla. Per capire il peso del problema basterebbe considerare che nella pianura Padana deteniamo i più alti tassi d’Europa di emissione di CO2 e di polveri sottili, derivati dai consumi energetici industriali e domestici.
In Cgil non c’è ancora questo livello di consapevolezza, quando si difendono ancora i piani di transizone energetica di Enel basati sui “gas naturali” come il metano.

E’ difficile pensare che l’attuale sistema globale delle diseguaglianze e dello sfruttamento trainato dalle gig economy sia contrastabile ritornando alle origini delle Camere del Lavoro, senza considerare un livello di alleanze e unità globale dei lavoratori. Non vedendo per altro che in molte sedi periferiche della CGIL, nei territori delle provincie, è più facile trovare degli uffici di servizi (sicuramente utili e necessari) che dei veri luoghi di incontro e aggregazione di delegati, lavoratori, precari. E’ più facile trovare persone nei quartieri confondano le sedi Cgil con un CAF qualsiasi che sappiano cosa sia il sindacato.

Sia chiaro: l’idea di aprire le Camere del Lavoro per cercare di “mettere in rete” i diversi soggetti del lavoro è cosa giusta e sacrosanta. Bisognerebbe però cambiare prima gli orari delle sedi con le disponibilità, per aprirle, trasformandone gli usi e costumi, costruendo una vera e propria socialità “del tempo libero” fondata sulla condivisione di idee, valori ma soprattutto di pratiche e battaglie comuni.
In tal senso, riprendendo Trentin, Landini sostiene l’idea di una maggiore apertura al confronto e scambio di idee con il mondo diffuso dell’associazionismo, condividendo obietti, programmi e battaglie comuni.

Ma nella pratica siamo ancora ai primi passi.
All’interno del ragionamento di Landini l’idea nuova del “Sindacato di Strada” somiglia più una scatola vuota da riempire con “x” idee, se non ad un lapsus freudiano, dove ai “posti di lavoro” si è sostituita la “strada”, volendo con ciò esprimere “erroneamente” le difficoltà del momento nel rappresentare un mondo produttivo sempre più frantumato e disperso.

Percepito il problema, ci vorrebbero delle idee, che vengono demandate – come sempre – alla buona volontà delle singole sedi confederali o delle diverse federazioni.
Qui ne emerge una doppia difficoltà dell’organizzazione legato al conservatorismo del corpo intermedio dei quadri sindacali e alla gelosia corporativa delle categorie.
Il primo ostacolo deriva da un modo di pensare generato da vecchie prassi consolidate in epoca concertativa ed oggi fortemente messe in mora dalla tendenza delle controparti istituzionali a marginalizzare, a tutti i livelli, un sindacato oggettivamente sempre meno rappresentativo e aggregativo.

Il secondo è frutto del processo di polverizzazione contrattuale prodotta all’interno delle filiere produttive, portato dalla proliferazione del sistema degli appalti, delle esternalizzazioni, delocalizzazioni e dalle diverse forme di lavoro precario. A questo lento processo quarantennale le categorie si sono adattate nel tempo, rinchiudendosi sempre più nella tutela corporativa dei propri iscritti tradizionali, senza guardare la proliferazione sotto lo stesso tetto o nell’edificio accanto degli “altri” lavoratori con “altri” contratti “più economici”.
L’invenzione concettuale dei delegati di “filiera” o di “sito” non è stata risolutiva mancando il riconoscimento e la titolarità contrattuale dalle controparti. Ma questo riconoscimento può nascere solo dalla solidarietà fra le categorie e dall’uso della forza, laddove serve ed è necessario, senza falsi alibi o remore.
Purtroppo la collaborazione si ha solo quando si ha una debolezza da condividere senza pruriti o problemi di ruolo, potere, visibilità, tipici in qualsiasi organizzazione complessa umana.
Per ora i delegati di sito o di filiera li troviamo annidati nelle carte congressuali, rimandando la soluzione del rebus allo spirito volontarista delle minoranza di delegati e lavoratori che si ritrovano insieme ad agire, pur possedendo contratti nazionali diversi.
A questo quadro di difficolà vanno aggiunte le rivalità, incomprensioni e ostilità portate dalle altre organizzazioni sindacali, come Cisl e Uil, soprattutto quando occorrerebbe muoversi a un livello più generale, allargato e unitario.
Il superamento delle divisioni e imbalsamature interne potrà avvenire solo con il cambiamento dell’organizzazione unita ad un ricambio generazionale e di genere, che rischia di essere problematico se non si abbassa l’età media degli iscritti.

Di fronte ad una evidente mancanza di consape-volezza del peso reale della Cgil nella nostra società, riscontrabile in parecchi quadri e dirigenti, Landini rilancia la vecchia idea di Sabattini sulla “coodetermi-nazione” (una attualizza-zione del vecchio “controllo operaio” degli anni ‘20 e ‘70), che nella versione di Maurizio sembra oltrepas-sare il confine culturale proibito fino a poco tempo fa in Italia, della “cogestione” alla tedesca.

In un periodo come l’attuale in cui il movimento sindacale vive ancora sulla difensiva su mille fronti, dal lavoro precario al mantenimento delle coperture collettive sulle nuove forme di lavoro, con i sempre più rarefatti contratti integrativi, rinnovati con il welfare aziendale (a vantaggio del welfare privato contro quello pubblico), diventa difficile anche solo immaginare dove si possa sperimentare nuovi livelli di “partecipazione” dei lavoratori nella gestione delle aziende in Italia. Partecipazione nobilitata come “democrazia economica”, non si sa bene in quale salsa (socialdemocratica o comunistoide alla Porto Alegre?). Ma non siamo in Germania, non abbiamo la grande e innovativa manifattura tedesca.
In Italia abbiamo a che fare con una trama di imprese prevalentemente piccole con le grandi ridotte a piccola minoranza, dove evasione e contenuto “costo del lavoro” sono uno fra i maggiori fattori di competitività del paese. La cogestione è una concreta utopia romagnola, che non ne supera i confini. La “partecipazione” in questa struttura nazionale delle imprese rischia di essere più un elemento elitario, osteggiato anche dalle grandi aziende, difficile da realizzare finché si rimane su un terreno difensivo del conflitto sindacale.

L’idea che accompagna a questo obiettivo della partecipazione è quella di poter arrivare ad incidere attualmente sulle scelte industriali ed economiche del paese.
Ma basterebbe leggere quello che si firma a livello nazionale con questo governo e le associazioni datoriali, per cogliere una tendenza opposta.
L’accordo sul pubblico impiego come quello sulle vaccinazioni nei luoghi di lavoro (vero schiaffo morale al rispetto dei criteri di priorità stabiliti dal piano nazionale di vaccinazione, affossato per fortuna dai vincoli del piano nazionale di vaccinazione) non rientrano ancora in una strategia di coodeterminazione offensiva, semmai di affannosa risposta all’offensiva confindustriale e di difficoltà a riaprire una nuova stagione contrattuale in un settore importante come quello dei dipendenti pubblici. Ancor più la coodeterminazione è scomparsa di fronte al PNRR, completamente calato dall’alto, seguendo maggiormente i consigli dei grandi centri decisionali di imprenditori e banche, che quelli provenienti dalle rappresentanze sociali del mondo salariato.

Così il tentativo di riscatto sulle pensioni, sulla proroga del blocco dei licenziamenti, e sul sistema penalizzante degli ammortizzatori sociali (ad oggi del tutto insufficienti a far fronte alla crisi attuale e a quelle che verranno) vede profilarsi per le tre organizzazioni principali del mondo del lavoro l’ultima occasione per mobilitare il proprio popolo contro una direzione politica ed economica che sembra guardare più a Bruxelless e Francoforte che a questo paese.
Persa questa possibilità, di cambiamenti fondamentali su temi importanti che riguardano il futuro del lavoro, in questo anno, possono rimanere solo “fiumi di parole”.

Marco Prina

CGIL Moncalieri (TO)

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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