Il sionismo ha esaurito gli argomenti?

Un libro appena uscito negli Usa sull’orrore del 7 ottobre, e sulle vite intrecciate delle vittime, fornisce l’occasione per discutere di come le argomentazioni di chi sostiene a tutti i costi Israele siano fallaci quando non inesatte

Un anno dopo gli attacchi del 7 ottobre a Israele, hasbara, parola ebraica della propaganda sionista che si traduce approssimativamente in spiegare, è in crisi. Sebbene hasbara abbia storicamente eccelso nell’auto-mitizzazione necessaria a Israele per rafforzare il sostegno internazionale, in particolare dagli Stati uniti, sono finiti i giorni in cui quel sostegno era praticamente incontrastato.

Mentre i manifestanti di tutto il mondo scendevano in piazza per condannare la guerra genocida di Israele a Gaza e mentre gli utenti di TikTok e altri social media inondavano Internet di immagini di palestinesi mutilati e affamati, hasbara ha iniziato ad assumere una sfumatura disperata, passando da affermazioni poco convincenti secondo cui le Forze di difesa israeliane (Idf) non stavano prendendo di mira i civili a un appello più emotivo, che ricorda i falchi della guerra in Iraq che invocavano l’11 settembre: «Sappiamo che quello che stiamo facendo sembra orribile, ma vi ricordate del 7 ottobre?».

Lee Yaron, una reporter del quotidiano israeliano Haaretz, si è lanciata nella nella mischia con la pubblicazione negli Stati uniti di 10/7: 100 Human Stories. Non è la sola. Da quando il 24 aprile è stata pubblicata in Francia una traduzione del suo libro in commemorazione delle vittime del 7 ottobre, per i suoi sostenitori è diventato obbligatorio tornare a concentrarsi sulla vittimizzazione di Israele. A fine aprile, The Nova Exhibition ha aperto a Wall Street, ricreando la scena del festival musicale del 7 ottobre con tanto di oggetti personali lasciati dai partecipanti. A settembre, il Los Angeles Times ha annunciato che nell’anniversario dell’attacco l’Università della California di Los Angeles avrebbe ospitato un’opera teatrale tratta dalla testimonianza dei sopravvissuti del 7 ottobre («ora hanno lo Shen Yun sionista», ha ironizzato un utente di X). E il 24 settembre 2024, lo stesso giorno in cui 10/7 è uscito negli Stati uniti, Paramount+ ha pubblicato il documentario We Will Dance Again, che racconta il Nova Music Festival dal punto di vista dei partecipanti.

L’obiettivo del libro di Yaron, come quello dell’opera teatrale e del documentario, è quello di dare voce alle vittime dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. È un obiettivo con diverse complicazioni. Innanzitutto, il libro viene pubblicato in un momento in cui la risposta militare israeliana a quel giorno ha sminuito quella carneficina di un fattore di oltre trenta a uno in termini di vittime (al momento in cui scrivo questa recensione, il bilancio delle vittime a Gaza ha superato le 40.000, oltre 16.000 delle quali bambini), senza contare la quasi totale distruzione fisica delle infrastrutture civili di Gaza, e ha comportato oltre 17.000 attacchi in cinque diversi paesi, tra cui l’inizio di un’invasione di terra del Libano solo pochi giorni dopo l’uscita del libro.

In secondo luogo, alcuni dei testimoni su cui Yaron fa affidamento, che sono già stati ascoltati sui media negli Stati uniti e altrove nei giorni e nelle settimane successive al 7 ottobre, hanno fornito resoconti che in seguito si sono rivelati disonesti (ne parleremo più avanti). Infine, alcuni recenti articoli di Haaretz rivelano che alcune delle uccisioni di quel giorno erano dovute alla direttiva Annibale, modalità controversa che obbliga i soldati dell’Idf a uccidere i loro connazionali israeliani piuttosto che lasciarli prendere in ostaggio.

Anche se alcune parti delle testimonianze dei testimoni fossero esagerate e anche se alcune delle morti fossero dovute al fuoco amico, non ci sono dubbi che i militanti di Hamas e della Jihad islamica abbiano commesso atti orribili il 7 ottobre, scatenandosi lungo il confine di Israele con Gaza e uccidendo 695 civili israeliani, tra cui donne e bambini, insieme a settantuno cittadini stranieri e 373 membri delle forze di sicurezza israeliane. Queste vittime innocenti della violenza meritano di essere compiante, come qualsiasi altra, e il modo in cui Yaron rende omaggio alle vite dei residenti del kibbutz può essere toccante nella sua specificità.

Quando mette in scena le storie intrecciate delle famiglie che vivono nel kibbutz Be’eri o le vite dei beduini israeliani che vivono nel deserto, il libro è quasi romanzesco nella sua capacità di far emergere l’umanità delle persone che abitano questi luoghi. Ma se vi aspettate di ricevere nuovi resoconti sul campo o di ottenere chiarezza sul curioso mix di fatti e finzione trasmesso da fonti filo-israeliane subito dopo quel tragico giorno, rimarrete delusi. Il registro voluto è il lutto, ma il tono involontario, il sottotesto dell’empatia selettiva di Yaron, è la nostalgia per un tempo in cui l’egemonia della sua prospettiva sionista liberal era quasi piena.

Storia revisionista

Nell’introduzione, Yaron dichiara la sua fede «nel sogno di due stati per due popoli, che garantiscano democrazia e diritti umani per ebrei e arabi, israeliani e palestinesi». Questa dichiarazione serve da avvertimento per tutto ciò che verrà dopo, un resoconto caratterizzato da un ostinato rifiuto di riconoscere i palestinesi come qualcosa di diverso da terroristi ingenui, che lei giustifica con una sola ragione: «Condivido il dolore dei palestinesi e porto il peso delle nostre storie intricate, ma so che le storie palestinesi, soprattutto ora, non sono storie che devo raccontare».

Questa cancellazione può assumere forme sottili. Prendiamo la descrizione di Yaron della città israeliana di Sderot, dove un giovane di nome Yanon Azougi diede rifugio a delle ragazze separate dalla loro famiglia il 7 ottobre: «Fondata nel 1951, a poche miglia dal villaggio agricolo arabo in rovina di Najd, Sderot iniziò come un ma’abara (campo di transito) di circa settanta tende». Chi non ha familiarità con la Nakba potrebbe sorprendersi nello scoprire che Najd non fu mandata in rovina dai suoi arretrati abitanti palestinesi, ma ripulita etnicamente nel 1948 dalla Brigata del Negev, una milizia sionista che divenne parte dell’Idf. La Brigata del Negev espulse oltre quattrocento contadini musulmani, trasformandoli in rifugiati e deportandoli a Gaza.

Le brusche digressioni storiche di Yaron non aggiungono contesto agli attacchi del 7 ottobre, piuttosto li riformulano come parte della storia ebraica, il capitolo più recente di un pogrom senza fine (Nella sua pubblicità di 10/7, la firma del New Yorker Adam Gopnik esclama con entusiasmo: «In questa opera straordinaria e straordinariamente attuale, Lee Yaron fornisce nomi, volti e storie alle vittime del pogrom del 10/7… [un] capolavoro di giornalismo e di ciò che può essere definito solo umanesimo»). Yaron vuole che voi sappiate, ad esempio, dell’antisemitismo che ha spinto gli ebrei dall’Iraq alla Palestina, ma non di quanto fossero profondamente integrati nella società irachena all’inizio del ventesimo secolo. Vuole che capiate che il gran mufti insediato dagli inglesi collaborò con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale, ma non che anche i sionisti collaborarono con loro quando co-firmarono l’accordo di Haavara, rompendo un boicottaggio internazionale del regime. Vuole farvi credere che nel 2005, «Israele si è ritirato da Gaza, cedendo la terra al controllo palestinese», ma non che le Nazioni unite e la maggior parte delle organizzazioni internazionali per i diritti umani considerino Gaza sotto occupazione militare, o che la rimozione dei coloni da parte di Israele gli abbia permesso di bombardare periodicamente la zona da allora. E vuole che tu apprezzi la generosità dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak, che «offrì ai palestinesi la maggior parte di Gaza e della Cisgiordania in cambio della pace e gli fu rifiutata» senza riconoscere che una volta definì Israele «una villa nella giungla» o che lo stato palestinese che lui e Bill Clinton proposero a Camp David nel 2000 sarebbe stato costituito da cantoni non contigui modellati sui Bantustan del Sudafrica.

Empatia selettiva

Il libro è più efficace quando tratteggia ampie fasce della società israeliana attraverso gli occhi delle vittime di quel giorno, riempiendo ogni pagina di piccoli dettagli personali che invitano il lettore nelle loro vite. Leggendo i resoconti, è chiaro che Yaron ha trascorso molte ore a parlare con i testimoni e a cercare di ricreare, nella stesura delle loro storie, la risonanza emotiva del trauma di quel giorno. Ma ogni volta che mostra l’empatia di cui è capace, il suo rifiuto di estendere quell’empatia ai cittadini di Gaza diventa ancora più evidente.

Non è un caso che in 10/07 la parola «terrorista» compaia più del doppio delle volte di «palestinese», o che «Allah-hu Akbar» e «Uccidete gli ebrei» siano le espressioni più articolate che troverete della resistenza palestinese (per una comprensione più sfumata degli obiettivi di Hamas basata su interviste approfondite con i suoi membri, potete leggere l’eccellente articolo di Jeremy Scahill sull’argomento). E sebbene Yaron faccia un buon lavoro nel rendere palpabile la paura del 7 ottobre, non è interessata a chiedere o spiegare cosa significasse per i palestinesi, compresi questi terroristi, vivere in un ghetto recintato sotto la costante sorveglianza militare israeliana, o sopravvivere ai massacri inflitti da Israele a Gaza nel 2008, 2014 e 2021.

Il profilo LinkedIn di Yaron mostra che durante l’operazione israeliana Margine di Protezione del 2014, che ha ucciso oltre duemila abitanti di Gaza e lasciato più di mille bambini palestinesi permanentemente disabili, lei era caporedattrice (2013-15) della divisione notizie di Bamahane, la rivista ufficiale delle Idf, dopo aver lavorato per due anni come una delle sue corrispondenti militari (per chi non si fa problemi a indagare sulla storia della propria famiglia, il silenzio di Yaron sul suo servizio militare obbligatorio e sul suo lavoro per la stessa testata delle Idf, apparentemente la sua unica esperienza giornalistica professionale prima di andare ad Haaretz, è una notevole omissione).

La parola «terrorista», ovviamente, non viene mai estesa all’esercito israeliano, che ha passato la maggior parte dell’anno scorso bombardando scuole e ospedali, prendendo di mira edifici residenziali e, più di recente, facendo esplodere cercapersone e walkie-talkie e radendo al suolo interi isolati cittadini in Libano, uccidendo oltre cinquecento cittadini in un solo giorno. Il governo israeliano continua a bloccare gli aiuti umanitari a Gaza, il territorio che assedia dal ritiro del 2005, facendo morire di fame i suoi residenti e negando loro acqua potabile e cure mediche di base. Due mesi fa, i destri israeliani hanno fatto notizia per le rivolte a sostegno dei soldati dell’Idf che hanno stuprato in gruppo una prigioniera palestinese in un video nel centro di detenzione di Sde Teiman nel deserto del Negev e, sebbene gli israeliani siano scesi in piazza per protestare contro la gestione della situazione degli ostaggi da parte di Benjamin Netanyahu, i sondaggi mostrano che sono ampiamente a favore del massacro. I dettagli e lo stile generale di 10/7, che conferisce una patina umanistica al suo orientalismo, forniscono qualche indizio sul perché.

Sul non leggere i tuoi colleghi

Limitare la portata della ricerca agli eventi e ai partecipanti del 7 ottobre può essere una scusa decente per rifiutarsi di riconoscere le umiliazioni quotidiane a cui sono costretti i cittadini di Gaza, ma anche qui Yaron sbaglia, giocando a briglia sciolta con i fatti accertati di quel giorno. Fa ripetuti riferimenti agli stupri senza identificare o intervistare una singola vittima e ignora la controversia che circonda le affermazioni infondate di stupri di massa.

Questa svista sarebbe più perdonabile se Yaron non fosse a conoscenza del lavoro dei giornalisti che hanno esposto la campagna coordinata per diffondere disinformazione come mezzo per influenzare l’opinione internazionale a favore della guerra a Gaza. Ma tralasciare completamente queste affermazioni, ignorare sia la propaganda originale che il resoconto del suo stesso giornale nel smentirla, è rivelatore.

Mentre discute del massacro al Nova Music Festival, Yaron racconta la storia di un giovane di nome Raz Cohen che ha schivato i proiettili prima di riuscire a nascondersi dietro un cespuglio con il suo amico Shoham e altri tre giovani. Descrive in modo raccapricciante cinque uomini che hanno violentato brutalmente una donna dai capelli biondi, che poi hanno pugnalato a morte e continuato a violentare.

Cohen è stata una fonte primaria per il pezzo ampiamente smentito del New York Times Urla senza parole: come il 7 ottobre Hamas ha trasformato la violenza sessuale in un’arma. È un veterano delle forze speciali israeliane le cui affermazioni su quel giorno sono cambiate più volte in modo drastico, inclusa la singola donna che poi è diventata più di una. Anat Schwartz, il coautore dell’articolo del Times, che ha attirato critiche per aver messo mi piace a un tweet che chiedeva di trasformare Gaza «in un mattatoio», ha trascurato di chiedere a Cohen perché in precedenza aveva detto di aver assistito a molteplici aggressioni sessuali e ha affermato in modo poco convincente che, delle cinque persone nascoste nello stesso cespuglio, solo lui era riuscito a vedere lo stupro di gruppo. Se, quando leggerete i ricordi di Cohen (circa duecento pagine del libro), vi aspettate ancora che Yaron metta in dubbio qualsiasi elemento della sua storia, cerchi una testimonianza corroborante da una qualsiasi delle altre quattro persone nascoste nella boscaglia con Cohen, o fornisca qualsiasi prova a sostegno delle loro affermazioni, avete già smarrito il punto.

Yaron fa molto affidamento anche sui resoconti dei funzionari della Zaka, l’organizzazione la cui controversa «risposta rapida» nello smaltimento dei corpi «ha reso impossibile la raccolta di prove concrete», secondo l’autore. Parla con Haim Utmazgin, un ufficiale di riserva dell’esercito israeliano e comandante volontario dell’organizzazione, che lei identifica erroneamente come il suo fondatore (il vero fondatore di Zaka è Yehuda Meshi-Zahav, un membro della comunità ultra-ortodossa Haredi morto nel 2022 in seguito a un tentativo di suicidio dopo che Haaretz aveva pubblicato un articolo in cui si sosteneva che aveva abusato sessualmente di ragazze, ragazzi e donne sin dagli anni Ottanta).

Yaron non considera mai la possibilità che Otzmagin (secondo la trascrizione più comune del suo nome nella stampa di lingua inglese) stia alimentando la disinformazione, una possibilità resa probabile dalla storia della fonte. Un’inchiesta congiunta del Times of Israel e dell’Associated Press pubblicata a maggio intitolata Come due resoconti smentiti dei lavoratori della Zaka hanno alimentato lo scetticismo globale sullo stupro del 7 ottobre descrive la falsa testimonianza sullo stupro:

Mentre lavorava in un kibbutz devastato dal massacro di Hamas del 7 ottobre, Otmazgin, un comandante volontario della Zaka, organizzazione israeliana di ricerca e soccorso, ha visto il corpo di un’adolescente, uccisa a colpi di arma da fuoco e separata dalla sua famiglia in un’altra stanza. I suoi pantaloni erano stati abbassati sotto la vita. Ha pensato che fosse la prova di una violenza sessuale. Ha avvisato i giornalisti di ciò che aveva visto. Ha raccontato i dettagli in lacrime in un’apparizione televisiva nazionale alla Knesset. Nelle ore, nei giorni e nelle settimane frenetiche che hanno seguito l’attacco di Hamas, la sua testimonianza è rimbalzata in tutto il mondo. Ma si è scoperto che ciò che Otmazgin pensava fosse accaduto nella casa del kibbutz non era accaduto.

Non si trattava semplicemente di confusione, ma di istigazione, le cui fiamme sono state alimentate da Zaka. «Tuttavia – continua l’articolo – ci vollero mesi perché Zaka riconoscesse che i resoconti erano sbagliati, consentendo loro di proliferare». In quegli ultimi tre mesi del 2023, Zaka ha raccolto oltre 13 milioni di dollari, evitando l’insolvenza e rifacendosi l’immagine con l’aiuto di agiografi come Yaron. A gennaio, il giornalista Aaron Rabinowitz ha accusato Zaka di «negligenza, disinformazione e una campagna di raccolta fondi che usava i morti come oggetti di scena». Questo testo è uscito anche su Haaretz, il giornale di Yaron.

In un’altra inchiesta di Haaretz del dicembre 2023, i giornalisti Nir Hasson e Liza Rozovsky hanno seguito l’evoluzione del mito secondo cui Hamas e i membri della Jihad islamica avrebbero decapitato quaranta bambini, un’affermazione che era praticamente onnipresente nei giorni successivi all’attacco (l’account Twitter/X ufficiale del governo israeliano non ha ancora rimosso un tweet che ripeteva la bugia). Un comandante delle Idf ha fornito la cifra durante un servizio sulla stazione televisiva israeliana i24NEWS, presumibilmente basandosi sulle testimonianze di ufficiali che hanno rimosso i corpi dalle comunità di confine di Gaza e operatori di Zaka. In altre parole, Zaka è stata colta in flagrante dal giornale di Yaron, nove mesi prima della pubblicazione statunitense di 10/7, mentre propagava una delle più oltraggiose falsità sul 7 ottobre. Nessuna di queste informazioni, come ormai non vi sorprenderà di sapere, compare nel libro.

Per i sostenitori dell’hasbara, il puro orrore del 7 ottobre in qualche modo non era abbastanza orribile (Se siete curiosi di conoscere l’ultimo lavoro di Yaron, si è occupata del tema «antisemitismo alla Columbia [University]», un tempo sinonimo di Bari Weiss ma ora dominato dal perennemente offeso Shai Davidai, un fan del lavoro di Yaron). Yaron è abbastanza prudente da tralasciare le bugie sulle decapitazioni e sui bambini nei forni (chiaramente intese a evocare l’Olocausto), ma cerca di emularne l’effetto, dipingendo i combattenti di Hamas come nazisti intenzionati a compiere pogrom e ignorando o offuscando la causa palestinese.

The Cohens

10/7 si conclude con una postfazione del romanziere americano Joshua Cohen, che, in un involontario tocco di umorismo ebraico, aspetta l’ultima pagina per annunciare che l’autrice è sua moglie. Cohen ha vinto il premio Pulitzer l’anno scorso per il suo romanzo I Netanyahu, che presenta una versione romanzata di una visita realmente accaduta del padre di Bibi, Benzion Netanyahu, al defunto critico letterario Harold Bloom. Questa premessa funge da punto di partenza per addentrarsi nella storia del sionismo revisionista e nella sua influenza sul Netanyahu anziano, uno storico specializzato negli ebrei della Spagna medievale e uno dei più importanti propagandisti israeliani negli Stati uniti. Considerando la sua conoscenza della storia dell’hasbara nella creazione di Israele e la linea diretta dal leader revisionista Ze’ev Jabotinsky (mentore di Benzion) all’architetto dell’attuale massacro, la partecipazione di Cohen all’hasbara post-7 ottobre è ironica e allarmante.

In una discussione di gennaio con la collega scrittrice Ruby Namdar sull’Atlanticuno dei più preziosi organi della macchina della propaganda israeliana, Cohen ha criticato coloro che protestavano contro il genocidio israeliano a Gaza, accusandoli di aver «inserito israeliani e palestinesi nei loro binari razziali di bianco e nero» nel tentativo di essere visti come «buoni bianchi».

Ulteriori dettagli riguardanti il suo punto di vista sono emersi quando il New Republic ha pubblicato un articolo opportunamente intitolato Il sionismo non ha più argomenti?. Cohen profetizzava che «la maggior parte degli antisionisti non saranno ebrei nell’arco di una generazione». Aggiungeva: «La stragrande maggioranza di questi ebrei non parla nessuna delle lingue ebraiche. Non conoscono i testi ebraici o non vivono in Israele. E se devono avere figli, c’è quasi il 50% di possibilità che non li avranno con ebrei o che non li cresceranno come ebrei».

Il tormento di Cohen sulla mescolanza razziale e la sua implicazione che gli ebrei mezzosangue come me, che il Terzo Reich avrebbe etichettato come meticci, sono meno ebrei a causa dei nostri risultati di 23andMe [azienda che fornisce test genetici, Ndt], dimostra che il sionismo ha molto probabilmente esaurito gli argomenti. Secondo Cohen non è sufficiente neanche il principio matrilineare, che risale più o meno alla distruzione del secondo tempio di Gerusalemme. Anche la sua enfasi sulla lingua è fuorviante, poiché la maggior parte degli ebrei della diaspora, che per due millenni hanno costituito la maggioranza della popolazione ebraica, non parla ebraico, yiddish o ladino. Per qualcuno apparentemente dedito a proteggere la fiamma eterna dell’ebraismo, Cohen è ignaro o indifferente al modo in cui la sua argomentazione nessun-vero-scozzese elimina retoricamente la maggioranza dell’ebraismo mondiale negando che siano veri ebrei e quindi togliendo loro ogni autorità nel criticare Israele.

Cohen dedica la sua breve postfazione a discutere questioni legate al 7 ottobre quali «se affrontare il massacro come una tragedia che definisce un’epoca o una recrudescenza teologica», prima di arrivare a un passaggio così sconcertante e così illustrativo delle contraddizioni del sionismo che merita di essere citato per intero:

Gli ebrei furono uccisi perché erano ebrei; non perché indossavano la kippah; non perché stessero cospirando per radere al suolo Al-Aqsa ed erigere un Terzo Tempio, ma semplicemente perché avevano la temerarietà di esistere come ebrei entro i confini di uno stato ebraico; mentre gli arabi che furono uccisi quel giorno, sia gli arabi cristiani che gli arabi musulmani, furono uccisi perché avevano il coraggio di vivere tra gli ebrei come concittadini; e i cittadini nepalesi e thailandesi che furono uccisi quel giorno furono uccisi perché osarono lavorare per gli ebrei, faticando nei campi ebraici, raccogliendo prodotti ebraici. È allettante spingersi ancora oltre e dire che i cani che furono uccisi quel giorno furono uccisi perché erano cani ebrei, e che le auto che furono bruciate quel giorno furono bruciate perché erano auto ebraiche.

Da un interprete meno informato degli eventi, il passaggio potrebbe essere liquidato come paranoico o ignorante; venendo da Joshua Cohen, è disonesto. Se Hamas è interessata solo a uccidere gli ebrei, perché non ha mai preso di mira gli ebrei fuori da Israele? Cohen crede davvero che i lavoratori nepalesi siano stati uccisi per «aver raccolto prodotti ebraici» e non perché hanno avuto il terribile destino di farlo su una terra ripulita etnicamente dai palestinesi? Dovremmo essere in grado di piangere l’omicidio di israeliani innocenti senza perpetuare la menzogna che siano stati uccisi perché erano ebrei.

Cohen, come Yaron, teme che qualsiasi coinvolgimento con gli obiettivi di Hamas possa essere visto come una giustificazione, ma comprendere il vero motivo degli assassini non significa scusare l’uccisione di innocenti. Non ci vuole molto a scavare per trovare il testo completo della carta riveduta di Hamas del 2017, che dice: «Hamas afferma che il suo conflitto è con il progetto sionista, non con gli ebrei a causa della loro religione. Hamas non combatte contro gli ebrei perché sono ebrei, ma combatte contro i sionisti che occupano la Palestina. Eppure, sono i sionisti che identificano costantemente l’ebraismo e gli ebrei con il loro progetto coloniale e la loro entità illegale».

Cohen ha evidentemente scandagliato le profondità del sionismo revisionista nella sua ricerca per I Netanyahu, romanzo erudito e a tratti divertente in stile Saul Bellow che ha dato ad alcuni di sinistra, me compreso, la falsa impressione che fosse un compagno di viaggio. Cohen è presumibilmente abbastanza intelligente da sapere che la sua affermazione non regge, ma è determinato a spingere una spiegazione infantile della violenza degli occupati e degli assediati.

La morte del sionismo liberal

Il fatto che Cohen sia costretto a ignorare la sua stessa ricerca in questo contesto è la prova, come il libro stesso, della fragilità del sionismo. I sionisti cercano di chiudere il dibattito punendo la curiosità: più diventi consapevole del colonialismo e dell’apartheid insiti nel progetto sionista, più i sionisti ti diranno che sei un antisemita. E questo, in definitiva, è ciò che ci rimane: persone intelligenti come Yaron e Cohen schiacciate sotto il peso delle contraddizioni dell’ideologia sionista liberal. La logica da coloni di questa ideologia impedisce ai suoi seguaci di vedere le vere ragioni della violenza anticoloniale, preferendo la favola dei coraggiosi israeliani che tengono a bada i barbari.

Ecco il problema: non puoi essere un sionista liberal nel 2024 senza aggrapparti ad argomenti che non useresti in qualsiasi altro contesto. Non puoi lamentarti dei matrimoni misti come un eugenetista dei primi del Novecento e continuare a sostenere di preoccuparti del popolo ebraico nel suo complesso. Non puoi ingannare i tuoi lettori sulle motivazioni di Hamas senza perpetuare l’ignoranza e la rabbia cieca che hanno alimentato l’attuale genocidio, il che renderà ancora più probabile una ripetizione del 7 ottobre. E non puoi attribuire gli eventi di quel giorno esclusivamente all’antisemitismo senza che ogni persona un po’ informata intorno a te – i tuoi lettori, i tuoi amici, persino i tuoi familiari – capisca che stai mentendo per omissione, disonorando i morti e ritardando la pace che molti di loro sognavano, raccontando solo metà della storia.

Rob Bryan è uno scrittore, vive New York. Questo articolo è uscito su JacobinMag.

La traduzione è a cura della redazione.

5/10/2024 https://jacobinitalia.it/

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