Il sistema non regge ma in Italia si grida “meno tasse per tutti”. A favor dei super ricchi
Il problema è che continuiamo a far finta di non vedere. Nel 2022 la spesa pubblica ha superato il 50% del Prodotto interno lordo mentre la pressione fiscale è di poco superiore al 42% del Pil. La spesa sociale indifferibile -quella del welfare– ha raggiunto i 615 miliardi di euro su un totale di spesa di 1.100 miliardi di euro, con una crescita di 140 miliardi dal 2019.
Quel 42% di pressione fiscale è sostenuto da una fascia sempre più limitata di contribuenti: il 97% dell’Irpef è pagata dal lavoro dipendente e su 40 milioni di contribuenti oltre 18 milioni pagano il 2,3% dell’Irpef totale. In più abbiamo 110 miliardi di evasione fiscale ogni anno. La strada per lo smantellamento dei servizi, sanità in primis, è spalancata e la privatizzazione sarà presentata come indispensabile. Intanto, però, proseguiamo a gridare “meno tasse per tutti”.
Secondo i dati dell’ultimo rapporto di Oxfam, l’1% della popolazione mondiale ha visto crescere nel biennio pandemico 2020-21 la propria ricchezza, in termini reali, di 26mila miliardi di dollari, pari al 63% dell’intero incremento; in Italia le percentuali sono state più o meno le stesse. Lo stesso rapporto mette in luce che lo strumento per frenare una simile polarizzazione e la moltiplicazione delle disuguaglianze è costituto dall’adozione di un diverso sistema di tassazione che sia realmente progressivo. Come accennato, lo slogan meno tasse, è evidente, favorisce solo i super ricchi. Peraltro l’Italia presenta altri numeri impietosi.
Nel nostro Paese i pensionati sono circa 16 milioni e gli occupati sono 23 milioni, di cui 18 milioni sono lavoratori dipendenti. Di questi 18 milioni, ormai oltre tre milioni sono a tempo determinato e stiamo assistendo a una proliferazione di partite Iva “fittizie” create per evitare le assunzioni. La retribuzione media è intorno ai 21mila euro annui.
È chiaro che con numeri come questi il sistema pensionistico non regge e reggerebbe ancor meno con un anticipo dell’età pensionistica che non crea nuovi posti di lavoro. Ma il vero problema è costituito proprio dal livello delle retribuzioni: con retribuzioni che sono, in media, di 4mila euro inferiori al resto dell’Europa e con un numero di occupati decisamente più basso, il sistema non tiene e le stime di un “buco” di circa 30 miliardi di euro nei conti pensionistici è persino ottimistica. È quindi evidente che riforma fiscale e aumento delle retribuzioni dovrebbero essere le priorità politiche per una serie infinita di ragioni, anche perché la strada fino a oggi battuta del debito sembra sempre più impervia.
Se la Banca centrale europea continuerà ad alzare i tassi, come i suoi vertici si sono premurati di dichiarare a Davos, per il nostro Paese saranno guai seri. Non solo collocare l’indispensabile debito pubblico costerà moltissimo, anche per effetto della concorrenza che ai titoli italiani faranno proprio i titoli di debito europei necessari a finanziare il Piano nazionale di ripresa e resilienza o altri titoli comuni, ma ci sarà un altro problema. La Banca d’Italia detiene titoli del debito pubblico italiano per circa 500 miliardi di euro, che stanno rapidamente svalutandosi a causa degli alti tassi di interesse della Bce. Dunque c’è il rischio che la stessa Banca d’Italia abbia bisogno di un “ricapitalizzazione” a spese dello Stato italiano, sempre più alle prese con conti a rischio. Serve davvero una nuova riflessione o saremo travolti.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
21/1/2023 https://altreconomia.it/
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