Il “Sud globale” cerca di sottrarsi al dominio occidentale

La definizione di “Sud globale” ha ormai largamente sostituito quella, un tempo molto comune, di “Terzo Mondo”. D’altra parte quell’insieme di paesi si collocavano in relazione a due mondi, il capitalismo occidentale a guida statunitense e il campo socialista a direzione sovietica, il secondo dei quali è scomparso tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90.

Se con la scomparsa dell’Unione Sovietica e con il declino di quella prospettiva di socialismo (caratterizzato dal primato dello Stato e dall’autoritarismo politico), la quasi totalità del “Terzo Mondo” cercava di allinearsi sul modello del capitalismo liberale, la guerra in Ucraina ha messo in evidenza la crisi di un assetto che sembrava destinato a eternizzarsi.

Una parte dei paesi del mondo, definiti anche come “in via di sviluppo” si sono effettivamente rafforzati dal punto di vista economico e non sono più solo attori subalterni del capitalismo occidentale. Il caso più evidente è quello cinese ma riguarda anche altre realtà che ormai puntano ad essere soggetti della costruzione di un nuovo assetto globale e non solo agenti periferici di imperi informali guidati da Washington e da qualche capitale europea.

Sono cambiati i rapporti di forza economici e quindi i paesi che attraverso una serie di istituzioni formali e informali (il Fondo Monetario Internazionale o il G7) si muovono ancora come coloro che governano il mondo, non hanno più lo stesso peso che avevano in altri momenti storici.

La questione delle sanzioni alla Russia proclamate unilateralmente e, dal punto di vista di quella cosa un po’ fumosa che è il “diritto internazionale”, illegittimamente, da un gruppo di Paesi, soprattutto quando diventano sanzioni secondarie, ovvero colpiscono paesi terzi, ha messo in evidenza un indebolimento della capacità di controllo delle economie e delle relazioni commerciali da parte dell’Occidente.

Molti paesi si sono rifiutati di aderire alle sanzioni e hanno continuato a commerciare con la Russia senza per questo ritenere di dover aderire ad un blocco geopolitico alternativo imperniato sulla Cina e, in posizione subordinata, sulla Russia stessa.

Paesi come l’India di Narendra Modi, i cui rapporti con la Cina sono spesso conflittuali, come la Turchia di Erdogan, o come l’Arabia saudita di Bin Salman praticano quella che è stata definita come una politica estera “opportunista”. Mantengono aperte le relazioni con tutti i soggetti in campo senza arrivare a schierarsi in modo rigido con l’uno o con l’altro.

Lo si vede in questi giorni con Erdogan che, in vista della campagna elettorale per la propria rielezione aveva accentuato i toni nazionalisti e di polemica anti-occidentale, per poi riallinearsi, seppur con una certa prudenza, alle richieste della Nato. Oltre a violare, almeno secondo Mosca, l’accordo che prevedeva di tenere in Turchia i militari del gruppo neo-nazista Azov, permettendone invece il ritorno in Ucraina, dove sono stati accolti da Zelensky. Non c’è dubbio che a pagare il prezzo del riavvicinamento de Erdogan all’Occidente, saranno ancora una volta i curdi.

Un’ampia inchiesta del quotidiano parigino “Le Monde” dedicata proprio all’emergere di questo “Sud globale” ha messo in evidenza le diverse ragioni per le quali gran parte di questi Stati si sia rifiutata di prendere posizione a favore del sostegno militare all’Ucraina e dell’isolamento della Russia.

Fra queste figura sicuramente la consapevolezza dell’ipocrisia dell’Occidente, i “due pesi e due misure”, nel valutare i comportamenti propri o quelli dei Paesi alleati rispetto alla condanna, ammantata di sacri valori morali, dei comportamenti di altri attori della politica internazionale. Ben presente è la decisione del presidente statunitense Bush di fare guerra all’Iraq al di fuori di ogni principio di legittimità internazionale. O la guerra in Libia, voluta soprattutto da Francia e Gran Bretagna, che ha utilizzato un limitato mandato Onu per la protezione dei civili come autorizzazione a portare in quel paese una guerra distruttiva.

A questi casi si può poi aggiungere la continua legittimazione dell’uso della forza da parte di Israele per occupare i territori palestinesi (al di là di quelli che le risoluzioni dell’Onu gli avevano riconosciuti) e a privare un intero popolo del più elementare diritto ad un’esistenza dignitosa, prima ancora che alla costituzione di uno stato sovrano.

Secondo Matias Spektor, docente di geopolitica alla Fondazione brasiliana intitolata a Getulio Vargas, la posizione occidentale che esprime “interessi nazionali in termini morali” e a presentare un “ordine mondiale fondato sulle regole”, maschera in realtà un insieme di strumenti di coercizione economica, politica e militare (come sintetizza “Le Monde”). Secondo Spektor, che ha scritto in proposito sull’autorevole rivista statunitense “Foreign Affairs”: “la maggior parte dei paesi del Sud globale accettano difficilmente gli argomenti occidentali per difendere l’ordine internazionale, quando gli Stati Uniti e i loro alleati violano regolarmente le regole commettendo atrocità nelle guerre che conducono, maltrattando i migranti, schivando gli sforzi internazionali di riduzione delle emissioni e indebolendo decenni di accordi multilaterali per promuovere il commercio e ridurre il protezionismo”.

Molti paesi del “Sud globale” ritengono che l’assetto globale sia largamente viziato per favorire gli interessi degli Stati Uniti e degli ex Imperi coloniali. Questo sta spingendo molti a cercare di sviluppare le relazioni commerciali utilizzando monete alternative al dollaro, che resta uno dei pilastri sul quale poggia il dominio statunitense a livello internazionale.

Contemporaneamente vengono rilanciate o si rafforzano istituzioni alternative a quelle occidentali, come i Brics, che stanno accettando nuove adesioni. Come ha dichiarato Anil Sooklal, lo “sherpa” del presidente sudafricano nella preparazione del prossimo vertice dei Brics che si terrà in agosto: “Noi non vogliamo un mondo unipolare, né un mondo bipolare, ma un mondo multipolare e multiculturale”.

Da questo punto di vista il protagonismo di una serie di paesi sulla scena internazionale può certamente avere un ruolo positivo nel respingere il tentativo di Biden di dare vita ad una nuova contrapposizione ideologica e nel delineare un assetto globale più rispettoso delle esigenze delle diverse nazioni.

La guerra in Ucraina ha quindi come posta in gioco la riaffermazione del primato dell’Occidente sugli assetti globali che, lungi dal rappresentare il trionfo della democrazia sull’autoritarismo, costituisce una pretesa di dominio neo-imperiale sul mondo da un lato o al contrario l’emergere di un nuovo assetto più equilibrato e maggiormente fondato sulla ricerca di interessi comuni e condivisibili a tutti gli Stati. Quella che i cinesi chiamano una globalizzazione “win-win”, in cui tutti alla fine possano vincere.

Questa valutazione non può però occultare il carattere apertamente reazionario delle classi dominanti e dei governi di molti di questi paesi e confondere realtà come l’India di Modi, la Turchia di Erdogan o l’Arabia Saudita di Bin Salman (o l’Iran degli Ayatollah) con le realtà latino-americana che perseguono politiche di rafforzamento democratico e di maggiore giustizia sociale. Ancora meno che al tempo dell’Unione Sovietica si giustificherebbe un “campismo” che sostituisse le relazioni geopolitiche al confronto tra le classi sociali, i movimenti progressivi e le rispettive classi dominanti. Non ci può essere una vera cooperazione globale senza che vi sia anche un sostanziale mutamento nei rapporti di forza tra le classi.

Franco Ferrari

12/7/2023 https://transform-italia.it/

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