Il tempo è il nostro, è il nostro tempo. La flessibilità lavorativa da Ikea e da Carrefour
l tempo è la moneta della tua vita. E lunica che possiedi e che puoi decidere come spendere. Stai attento non permettere ad altri di usarla al tuo posto. Carl Sandburg
“Ringrazia che hai un lavoro!” In quest’agosto di scioperi a qualche lavoratore dell’Ikea è capitato di sentirsi ripetere questa frase da qualche cliente. Eh sì: perché c’è la crisi, la disoccupazione è al 13%, quella giovanile al 45% e, nonostante i proclami bimestrali del governo Renzi e di quelli che l’hanno proceduto, non se ne vede la fine. E quindi bisogna baciare le mani che ti danno lo stipendio, ché se non vuoi lavorare dietro di te c’è la fila. Quanto è il senso di colpa che hanno provato a inculcarci in tutti questi anni: «i disoccupati? Non vogliono lavorare, vadano a mendicare un posto ai mercati generali!». «I giovani universitari che protestano contro le riforme? Non hanno voglia di fare nulla: se vogliono lavorare devono sbrigarsi a prendere la laurea, e magari non essere “choosy” ed accettare il primo impiego che gli viene offerto» (come se che in Italia ci fossero milioni di pizzerie in cerca di pizzaioli!). «Gli immigrati devono ringraziare solo per il fatto di essere qua, lavorare duro e poi a casa a dormire che disturbano solo a farsi vedere in giro. «I lavoratori pubblici non fanno nulla e quelli con contratto a tempo indeterminato sono dei privilegiati». Intanto, nel mondo del commercio come dei servizi pubblici, aumentano sempre più la flessibilità interna, vengono introdotti nuovi “criteri di produttività”, fino a considerare la domenica e i festivi dei giorni in cui è normale lavorare.
«Io ti pago la giornata di lavoro e tu devi fare quello che voglio io» così era nell’Ottocento, prima che i lavoratori, con le loro lotte e i loro scioperi, iniziassero a pretendere la riduzione della giornata lavorativa, prima a 12 ore (ma solo per i bambini) poi a 10 e infine ad 8 ore al giorno. Ma la volontà di usufruire dei propri dipendenti come oggetti da spostare in qua e in là, da usare continuamente, rimane un sogno vivo nella testa dei padroni. Magari non lo vediamo nelle aziende più grandi, dove i lavoratori sono ancora in qualche modo organizzati ed oppongono una resistenza allo strapotere della dirigenza. Ma se si lavora per un piccolo padrone, o a chiamata per una cooperativa, quante volte capita sentirsi dare i turni giorno per giorno, non sapere quando si stacca, a volte non avere la certezza di essere richiamati, perché se il ristorante non si riempie a dovere, il telefono non squilla.
Questa è la flessibilità: il padrone compra la tua forza lavoro per una giornata per poterne disporre come più gli aggrada, a seconda delle sue esigenze. Di flessibilità ne abbiamo conosciute tante in questi 30 anni di riforme: si era cominciato con la flessibilità in entrata nel 1977, anno di introduzione dei contratti di formazione-lavoro (che dovevano permettere ai giovani di accedere ad un “mondo del lavoro bloccato”), e dell’estensione della possibilità di fare contratti a tempo determinato ai settori del turismo e del commercio (una volta si potevano fare solo in casi molto particolari). Poi abbiamo avuto il pacchetto Treu, la legge 30 e infine il Jobs Act: oggi finalmente i padroni possono assumerci scegliendo il contratto che più gli fa comodo, pagandoci persino con un voucher dell’Inps ogni singola giornata lavorativa, ma lasciandoci nella flessibilità più totale, senza nessun diritto in più di chi lavora in nero.
Poi è arrivato il turno della flessibilità in uscita, cioè della libertà di licenziamento: se già era possibile licenziare liberamente nei casi in cui si presentassero particolari necessità economiche, grazie oggi, grazie alla riforma Fornero e al Jobs Act – che abrogano l’art.18 – per le aziende il tutto diviene più veloce e sicuro. Anche per i licenziamenti che non hanno motivazioni produttive, anche in assenza di inadempienze del lavoratore. Ora si tratta di rendere ancora più flessibile tutto ciò che sta tra l’assunzione e il licenziamento: la giornata di lavoro.
«Appartenete al passato! È l’economia moderna a chiederci la flessibilità, dobbiamo cambiare per non perdere il passo del mercato internazionale!» Ci urlano in coro il presidente di Confindustria, il Consiglio dei ministri, i professori della Bocconi e i giornalisti di Repubblica. «Guardate cosa raccomandano l’Ocse, la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale!». E giù a citare le statistiche e le raccomandazioni delle istituzioni che ci hanno portato nel baratro della crisi, nella barbarie della guerra per il posto di lavoro. Davvero è l’economia moderna a volere la flessibilità? Non è questo l’eterno desiderio di chi nei trent’anni di attacco ai diritti dei lavoratori, di taglio alle spese sociali e di riduzione delle tasse per i ricchi ha visto centuplicare la propria ricchezza, mentre i salari dei lavoratori addirittura diminuivano? Noi, a questo desiderio egoista di chi ha bisogno di noi per mandare avanti negozi, ristoranti, fabbriche e servizi pubblici, opponiamo il nostro desiderio ad una vita felice, sana, il tempo per stare con i figli, con i parenti o con gli amici, il tempo per fare sport, leggere o fare quello che ci piace. Non solo è giusto ma anche economicamente fattibile, perché non stiamo attraversando una carestia, una siccità o la distruzione causata da una guerra o da una calamità naturale, non c’è bisogno di lavorare di più per sopravvivere. Accanto infatti a chi è costretto a lavorare più ore al giorno, secondo turni massacranti, accanto a un riposo che diventa sempre più una chimera, sta la mole dei milioni di disoccupati, costretti ad “arrangiarsi” o ad emigrare. Che poi quando un lavoro lo si trova è per l’appunto quello descritto prima, che quasi quasi manco la schiavitù…
Ma c’è di più: c’è una grande disponibilità di ricchezza, forse anche in eccesso vista la quantità di beni inutili o poco durevoli che si producono, senza contare quelli che rimangono inutilizzati o nascosti (si pensi all’evasione fiscale). Quello che vogliamo è distribuire equamente lavoro e ricchezza per goderne tutti, non solo un’arrogante minoranza. Quello che diciamo è lavorare meno per lavorare tutti, e lavorare tutti per lavorare meno!
Da dove cominciare? Se questi sono i nostri desideri, e se all’opposto c’è il desiderio dei padroni di sfruttarci come meglio credono, allora in questo infinito tira e molla stiamo perdendo terreno: i padroni tirano più forte, perché hanno bisogno di più garanzie per i loro profitti. Dopo la sperimentazione dei mesi scorsi in alcuni negozi, la direzione di Carrefour ha aperto – a partire da giugno – numerosi punti vendita, aperti h24, 7 giorni su 7. Il numero delle sedi è salito a 77 in tutta la penisola, ma il numero delle assunzioni non è aumentato con lo stesso ritmo: l’azienda ha infatti imposto l’estensione dell’orario lavorativo ai part-time e il lavoro notturno. Grazie alla legge Biagi, infatti, le ore lavorate oltre l’orario giornaliero (ed entro il monte di 40 ore settimanali) non sono più considerate lavoro straordinario, ma solo come lavoro supplementare, e sono dunque pagate senza maggiorazione. Inoltre il lavoro notturno costa tanto in termini di salute fisica, psichica e sulla vita sociale del lavoratore. Come affermano numerosi studi – e come sa chiunque abbia lavorato di notte per lunghi periodi – di giorno si dorme di meno e peggio, si è più nervosi e incrociare le vite degli amici o dei partner si trasforma in una vera e propria impresa. Bisognerebbe ricorrere al lavoro notturno il meno possibile e pagarlo di più, molto di più, perché a chi lo svolge costa di più. Ovviamente un simile costo non sarebbe conveniente per Carrefour, visto che non sono in tanti a fare la spesa dalle 22 alle 6 (l’orario in cui scatta la maggiorazione notturna); l’obiettivo dell’azienda francese è quindi di far lavorare di notte i lavoratori, ma pagandoli come di giorno, rendendo il lavoro notturno assolutamente normale.
Anche Ikea è all’attacco del costo del lavoro domenicale e festivo: la direzione vuole estendere la flessibilità interna, chiedendo ai lavoratori di lavorare su turni totalmente plasmati sulle necessità aziendali, e dunque totalmente alieni alle esigenze dei lavoratori. A fine maggio IKEA ha disdetto il contratto integrativo aziendale, ma inaspettatamente (per l’azienda!) i lavoratori hanno iniziato a lottare contro la possibilità di vedersi ridotte le maggiorazioni domenicali e festive, ossia contro una riduzione salariale, fino al 20% dello stipendio mensile.
Il nuovo contratto aziendale – proposto dall’azienda a fine luglio – prevederebbe una maggiorazione dei domenicali, con scaglioni che vanno dal 40% al 70%, mentre ora le maggiorazioni vanno dal 130% dei dipendenti più anziani al 30% degli assunti più recenti (una fotografia inquietante che inquadra l’arretramento dei diritti subito negli ultimi anni). Esso inoltre contiene la subordinazione del versamento del premio aziendale all’accettazione di un nuovo sistema di turnazione più flessibile: un sistema basato sul programma di compilazione turni T.I.M.E., che, sulla previsione del fabbisogno di manodopera dell’azienda, stabilisce i turni dei lavoratori distribuendoli su base verticale (un part-time verticale concentra le ore previste dal contratto in 2-3 giorni alla settimana) o orizzontale (le ore di lavoro vengono distribuite su tutti i giorni della settimana) e mista, con diversi giorni di riposo ogni settimana, orari diversi ogni giorno.
È chiaro che la possibilità di programmare la propria vita, non diciamo nel lungo periodo, ma anche solo per un paio di giorni, scomparirebbe miseramente, visto che i turni sono fatti ogni due mesi… I lavoratori Ikea hanno interrotto gli scioperi alla fine di agosto, in previsione del tavolo di trattativa del 14 settembre, in cui si troveranno ancora una volta davanti alla scelta se rinunciare al proprio salario o al proprio tempo libero, messo a disposizione di chi mostra una rigidità infinita nella difesa dei propri profitti e dei propri privilegi. Il che fa ancora più rabbia se pensiamo che IKEA non può certo accampare la scusa della crisi aziendale per giustificare queste scelte, dal momento che continua a mietere profitti miliardari ogni anno.
Noi pensiamo che sia giunto il momento che a rinunciare siano loro. Per questo saremo al fianco di chi ha avuto il coraggio di dire no! No ad ogni ipotesi di revisione peggiorativa del vecchio contratto integrativo. Se il contratto va cambiato è per estendere le maggiorazioni dei lavoratori più anziani a tutti i dipendenti, per riprenderci il tempo, il salario, la salute che ci hanno tolto in tutti questi anni.
10/9/2015 http://clashcityworkers.org
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