Il Tfr in busta paga.
Non furono pochi coloro che, lo scorso autunno – accogliendo l’invito di Renzi di “promuovere la propensione ai consumi” – s’impegnarono in una vera e propria crociata a sostegno del Tfr in busta paga.
Tra questi, Pietro Ichino arrivò – addirittura – a richiamare il principio europeo della “libera concorrenza nel mercato dei capitali” per rivendicare (!) il diritto dei lavoratori italiani a disporre dei propri soldi. Naturalmente, in ossequio al rispetto e alla tutela dei diritti “di parte” – di cui è sempre stato portatore e tutore – non dimenticava di prevedere l’obbligo, per le banche, di concedere alle imprese, a tassi molto bassi, quei capitali che i lavoratori non avrebbero più “prestato” fino alla fine del rapporto di lavoro.
Personalmente, ritenni naturale cercare di dimostrare, per quanto possibile, che eravamo, in sostanza, di fronte all’ennesimo “cavallo di Troia” della controffensiva liberista; solo l’ultimo assalto – in ordine di tempo – alle conquiste dei lavoratori.
Sostenni, quindi, l’opportunità che i lavoratori rifiutassero l’ingannevole “concessione” di percepire mensilmente il Tfr nella busta paga e continuassero, invece, a differire – alla fine della carriera lavorativa – la riscossione di quanto (annualmente) accantonato.
Il tutto era dettato – tra le altre – da alcune, semplicissime, considerazioni.
1) Pretendere di promuovere la propensione ai consumi – con addirittura l’obiettivo di stimolare l’economia del Paese – attraverso un provvedimento che avrebbe riguardato solo i lavoratori subordinati, era suggestivo ma illusorio e concretamente irrilevante.
2) Le vigenti difficoltà economiche avrebbero – probabilmente – costretto molti lavoratori a richiedere, obtorto collo, la corresponsione mensile del Tfr.
3) Il Tfr in busta paga avrebbe impedito a milioni di lavoratori di ritrovarsi, a fine carriera, con un “gruzzoletto” che – come rilevato da tutte le indagini di merito – aveva, da sempre, rappresentato lo strumento attraverso il quale: a) provvedere (finalmente) a esigenze personali; b) contribuire al matrimonio di un figlio; c) “abbattere” il mutuo per l’acquisto dell’appartamento; d) avviare un’attività autonoma per un figlio e tanto altro.
4) L’elevata tassazione – ben più alta di quella prevista, invece, a fine attività lavorativa – cui sarebbe stata sottoposta la quota parte mensile del Tfr in busta paga.
5) L’enorme contraddizione tra i pressanti appelli – rivolti agli stessi lavoratori dipendenti – ad aderire ai “Fondi pensione” e, contemporaneamente, l’invito a richiedere di percepire in busta paga il Tfr.
Com’è naturale che sia, ci fu anche chi mi accusò di criticare “per partito preso” e tralasciare di cogliere (sottovalutandole) le grandi “opportunità di scelta” offerte ai lavoratori da parte di Renzi & c!
A distanza di pochi mesi, alla luce di quanto riportato dall’autorevole sito web “La legge per tutti” (portale d’informazione e consulenza legale per cittadini e aziende), credo di poter sostenere che tutti i timori e le perplessità erano reali.
Questo, infatti, il contenuto dell’articolo presente oggi on-line.
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“LA LEGGE PER TUTTI”
Portale di informazione e consulenza legale per cittadini e aziende
Tra 11 giorni esatti, partirà l’operazione “TFR in busta paga”: la Legge di Stabilità per il 2015, infatti, come a tutti noto, ha previsto, in via sperimentale, per i prossimi tre anni (cioè dal 1.03.2015 al 30.06.2018) la possibilità, per i dipendenti di aziende private, di chiedere al datore di lavoro, l’anticipazione mensile del trattamento di fine rapporto (ovviamente, solo per la quota di volta in volta maturata). Ma attenzione: la scelta intrapresa sarà irrevocabile fino al 2018. Per cui sarà opportuno prima farsi bene i conti in tasca. Anche senza prendere la calcolatrice in mano, era già da tempo chiaro a molti che l’anticipazione del TFR in busta paga non conviene. Ora, però, la certezza matematica viene da un recente studio diffuso dalla Uil.
Aumentano le tasse
Il rischio è, innanzitutto, quello di rimetterci a causa delle maggiori tasse che si vanno a pagare sulle somme aggiuntive percepite mensilmente a titolo di TFR (una penalizzazione di circa 330 euro medi all’anno). Queste ultime, infatti, vengono tassate secondo l’aliquota ordinaria IRPEF (e quindi come se fossero redditi normali da lavoro) e non con quella agevolata del TFR (come invece sarebbe se gli importi venissero accantonati in azienda o nei fondi).
Minori sgravi fiscali
Si otterranno, inoltre, minori sgravi fiscali (lo studio della Uil parla di circa 280 euro medi l’anno).
Si avrà un generalizzato aumento di Irpef: in pratica, con un reddito di 18 mila euro lordi, sul Tfr annuo pari a 957 euro, al posto del 23% si pagherà il 27%; con un reddito di 23 mila euro, su un Tfr annuo di 1.209 euro, si pagherà il 27% anziché il 23,9%; con un reddito di 35 mila euro, su un Tfr annuo pari a 1.806 euro si pagherà il 38% anziché il 25,3%.
Detrazioni e assegni familiari
Non solo. Il lavoratore impaziente di prendere il trattamento di fine rapporto potrebbe perdere anche le detrazioni fiscali e gli assegni familiari.
Secondo l’analisi della Uil, il Tfr in busta paga si cumulerà con il reddito dell’anno e, quindi, andrà a incidere sulla determinazione delle detrazioni d’imposta (per familiari a carico, ad esempio) oppure per gli assegni familiari. Solo di detrazioni fiscali, un reddito di 23 mila euro verrà decurtato di circa 280 euro l’anno.
Isee più alto
Infine, anche l’Isee potrebbe farne le spese: il “fittizio” aumento della busta paga (in realtà si tratta solo di un’anticipazione, ma non di un incremento della busta paga) farà alzare il reddito Isee. Risultato: con un indicatore della ricchezza della famiglia superiore alla soglia limite il lavoratore non potrà più fruire dei servizi sociali agevolati di cui ha goduto in precedenza (si pensi alla retta per gli asili nido, alle mense scolastiche, le tasse universitarie ecc.).
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Renato Fioretti
Collaboratore redazione di Lavoro e Salute
19/2/2015
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