Il volto di Stefano, dentro di noi

 

Nelle stanze mentali che ciascuno di noi si è costruito negli anni e che sono quasi sempre abitate da immagini ce n’è almeno una che ha che fare con una icona della morte. Lì si trova, nel nostro immaginario il Cristo morto, dipinto da Andrea Mantegna tra il 1475 e il 1478, al quale si associa, per analogia e impressionante somiglianza, la fotografia scattata il 9 ottobre 1967 al cadavere di Ernesto “Che” Guevara. Ad esse, dopo questo straziante e notevole film di Alessio Cremonini, possiamo associare l’immagine finale del corpo senza vita di Stefano Cucchi, mentre al di là del vetro la sorella Ilaria (Jasmine Trinca nel film), raggelata da un dolore insopportabile, appoggia la mano per un ultimo, disperato saluto.

È un poverocristo morto, per le conseguenze del pestaggio subìto dopo l’arresto e per i successivi, incredibili, sette giorni di sofferenza e agonia fino al decesso, avvenuto il 22 ottobre 2009. Aveva 31 anni. Non era uno stinco di santo, Stefano. Si legge a conclusione del film che i genitori, dopo la sua morte, trovarono nel suo appartamento più di un chilogrammo di hashish e centrotrenta grammi di cocaina, subito denunciati alla polizia. Aveva un passato da tossicodipendente, già trattato in comunità.

Fermato dai carabinieri la sera del 15 ottobre 2009 risulta essere in possesso di una dozzina di confezioni di hashish e di tre grammi di cocaina. Accusato di detenzione e spaccio viene processato per direttissima il giorno successivo.

Ha già sul viso evidentissimi segni di percosse, non rilevate durante l’udienza, che ne dispone la custodia cautelare fino al processo, fissato a trenta giorni dopo.

È molto magro, quasi denutrito. Soffre di epilessia. Nei sette giorni successivi passa dal carcere all’ospedale, poi ancora al carcere, in una struttura detentiva con assistenza sanitaria. Né i genitori Giovanni e Rita né la sorella Ilaria riusciranno a vederlo nella settimana successiva, fino al giorno della sua morte, che, allo stato attuale, non ha ancora trovato una spiegazione scientificamente condivisa da parte dei medici e dei periti dei processi.

Il suo è stato il centoquarantottesimo caso di decesso in carcere, su 172 in totale nel 2009.

Dopo la sua morte i genitori e la sorella e l’avvocato Fabio Anselmo hanno iniziato una lunga battaglia per la verità, fondando anche nel 2017 una onlus a lui intitolata per la difesa dei diritti umani e civili del cittadini.

Il primo processo per la morte di Stefano è finito con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Dopo nuove indagini della Procura della Repubblica il 10 luglio 2017 il Giudice per le Udienze Preliminari ha rinviato a giudizio tre carabinieri per omicidio preterintenzionale e altri due per calunnia e falso in atto pubblico.

Alessio Cremonini, già sceneggiatore di molte produzioni per la televisione e per il cinema, ha costruito insieme a Lisa Nur Sultan – scrittrice e autrice di testi per il teatro e la televisione – una via crucis basata su una accuratissima ricostruzione dei fatti, compiendo una scelta stilistico-narrativa di grande valore.

Viene cioè operata una sistematica sottrazione del facile effetto emotivo, non sollecitando e solleticando la sensibilità superficiale dello spettatore, ma lasciando alla sua intelligenza la valutazione sullo svolgimento dei fatti. Così, in modo del tutto appropriato e cinematograficamente efficace, non assistiamo come testimoni oculari al pestaggio di Stefano Cucchi, che avviene dietro una porta chiusa. Non c’è bisogno di vederlo. Non abbiamo necessità che si indugi su particolari cruenti e disturbanti, che potrebbero provocare un controproducente effetto di rifiuto, se non addirittura – grave colpa di moltissimo cinema contemporaneo – di compiacimento.

Molto più efficace, molto più intenso, molto più utile a scavare e incidere nella nostra memoria estetica e etica è il volto scavato, sofferente, martirizzato di Stefano.

A questo proposito è davvero impressionante e memorabile il lavoro di interpretazione di Alessandro Borghi, che si dev’essere sottoposto a un vero e proprio tour de force fisico, oltre che di concentrazione attoriale, per dar corpo e voce al percorso del giovane dalla vita quotidiana allo strazio della fine.

Il film è interamente costruito intorno alla sua figura – non sono molte le scene nelle quali non sia in campo – e alle stazioni di una via della croce forse senza redenzione, nelle quali i misteri dolorosi sembrano provocati più da una incredibile catena di ottusità burocratiche e insensibilità individuali che da premeditata cattiveria.

Considerare un detenuto non come una persona che ha forse commesso degli errori, ma che non per questo ha perso dignità di persona, ma come un numero su una pratica ha come conseguenza, evidenziata benissimo dal film, il diffuso, malsano e persino letale comportamento di troppi operatori che si preoccupano prima di tutto di non esser chiamati in causa e di non prendersi responsabilità e si barricano letteralmente dietro i protocolli e le procedure.

Quando i genitori di Stefano (interpretati dai bravissimi Max Tortora e Milvia Marigliano) osservano attoniti il corpo senza vita del figlio nell’obitorio la memoria va ad una sequenza e ad immagini quasi ripetute a calco, ed è un gran merito, inNella valle di Elah (Usa, 2007) di Paul Haggis, con Tommy Lee Jones e Susan Sarandon.

In quel caso la vicenda, anch’essa riferita a fatti reali, era quella dei genitori di un soldato statunitense morto in Iraq. Là il padre, in un disperato gesto di impotente ribellione, metteva al contrario la bandiera a stelle e strisce per dire la perdita di ogni fiducia nella nazione. Qui gli apparati dello Stato disvelano la banalità di un male quotidiano che riguarda tutti noi.

I molti elementi di voluto disturbo visivo (grate; sbarre; il progressivo fuori fuoco al momento della morte) rappresentano l’elemento strutturale che conferma e rafforza il disagio che è necessario provare.

Le soggettive del protagonista, soprattutto quella in cui l’ennesimo trasporto in lettiga ha come unico momento di respiro il passaggio dalla luce artificiale dei corridoi delle carceri e degli ospedali quello dell’aria aperta, se pure con inquadrature oblique che certo non restituiscono serenità, contribuiscono a farci percepire in modo ancor più efficace la sua sofferenza.

La volontaria che nelle ultime ore della sua breve vita avrà qualche momento con Stefano ad un certo punto, dopo aver appreso il desiderio del giovane di avere una Bibbia, gli chiede: “Sei credente?”. “Sono sperante”, risponde Stefano.

Non è facile, a valutare i fatti, ricorrere a principi di speranza, davanti ad una storia come la sua. Grande merito di tutti coloro che hanno lavorato a questo film è di ricordarcelo con la forza di un racconto convincente da tutti i punti di vista.

Carlo Francesco Ridolfi

Giornalista, coordinatore della Rete di Cooperazione Educativa. Ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme

13/9/2018 https://comune-info.net

Sulla mia pelle (Italia, 2018, durata: 100’), regìa: Alessio Cremonini;

soggetto: Alessio Cremonini; sceneggiatura: Alessio Cremonini e Lisa Nur Sultan

fotografia: Matteo Cocco; montaggio: Chiara Vullo; scenografia: Roberto De Angelis;

costumi: Stefano Giovani; trucco e Sfx Design: Roberto Pastore

fonico: Filippo Porcari, Andrea Lancia; musica: Mokadelic

con: Alessandro Borghi, Max Tortora, Milvia Marigliano, Jasmine Trinca

produzione: Luigi Musini, Olivia Musini, Andrea Occhipinti

distribuzione: CinemaUndici, Lucky Red

 

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