ILVA, LA SALUTE ANDATA PERDUTA: SPARITO DAL DECRETO IL POTENZIAMENTO DELL’ARPA.
Ha generato il solito ginepraio di polemiche, come era prevedibile che fosse, l’ultimo Decreto sull’ILVA e sulla città di Taranto approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 24 dicembre ed entrato in vigore il 5 gennaio. Un Decreto che deve ancora passare dalle varie commissioni, così come dalla Camera e dal Senato, dunque ancora passibile di varie modifiche (se migliorative o peggiorative non è ancora dato sapere). Un Decreto, se vogliamo, molto simile ai precedenti, specialmente per quanto attiene la questione ambientale e sanitaria. Ad esempio, ha generato stranamente perplessità il termine del 31 luglio 2015 per l’attuazione dell’80% delle prescrizioni AIA: ma lo stesso termine era stato già previsto nella Legge sulla “Terra dei Fuochi/ILVA” approvata nel febbraio del 2014. Dunque, nessuna novità. Del resto, il Piano ambientale approvato dal Governo nel marzo dello scorso anno, aveva già rivisto nella tempistica di attuazione, la stragrande maggioranza delle prescrizioni dell’AIA del 2011 riesaminata in pochi mesi dalla commissione IPPC a cavallo tra l’estate e l’autunno del 2012: un continuo slittamento nel tempo, dovuto semplicemente al fatto che i soldi per attuarle non c’erano allora e non ci sono ancora oggi. Così come non ci sono mai stati al tempo dei Riva. Non è cambiato assolutamente nulla negli ultimi 20 anni. Con o senza Decreti del governo, il risanamento ambientale dell’area a caldo dell’ILVA è sempre stato un sogno, un’utopia. Niente di più. E a quanto ci è dato sapere, tale resterà. Altre perplessità ha invece suscitato l’assenza nel testo del Decreto, dei 30 milioni di euro annunciati dal premier Renzi, per finanziare un progetto a Taranto di ricerca sui tumori, in particolar modo quelli infantili. In realtà, essendo la sanità materia regionale, il progetto dovrà essere studiato dalla Regione e, a detta del governo, sarà finanziato dallo Stato con 30 milioni di euro. Sinceramente però, prima di fare voli pindarici e gridare come al solito allo scandalo, sarebbe il caso di capire quando arriveranno e come si andranno a spendere i 50 milioni di euro che furono stanziati con la Legge “Terra dei Fuochi/ILVA”, precisamente nell’articolo 2 del Decreto approvato il 6 febbraio del 2014, per il controllo dello stato di salute della popolazione residente nei comuni di Taranto e di Statte e i territori campani “che risultino interessati da inquinamento”. Per queste attività fu autorizzata per il 2014, la spesa di 25 milioni di euro e, per il 2015, la spesa di 25 milioni di euro. Dopo svariati mesi di silenzio, lo scorso 25 ottobre il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, a margine di un convegno dei Giovani di Confindustria sulla “Terra dei Fuochi”, dichiarò testualmente: “Ho stanziato la prima tranche dei fondi previsti dal Ministero e cioè i primi 25 milioni di euro poche settimane fa, una parte ingente per la Campania e un’altra minima parte per Taranto. Noi stiamo facendo, da un punto di vista sanitario, un lavoro enorme. A questo punto sono le Regioni che deve accelerare le procedure per attuare quello che è di sua competenza”. Non è dato sapere a quanto ammonti quella “minima parte per Taranto” di cui argomenta il Ministro Lorenzin. A tal proposito, si attende di sapere qualcosa in più dall’assessore regionale alla Sanità Donato Pentassuglia, che il prossimo 19 gennaio terrà a Taranto una conferenza stampa presso l’Auditorium del Padiglione Vinci (Ospedale Santissima Annunziata) dal titolo “Centro Salute e Ambiente: lavori in corso”, nell’ambito dei provvedimenti legislativi nazionali sulla “Terra dei Fuochi”. Conferenza che in un primo momento si sarebbe dovuta svolgere a gennaio 2015. Magari sarebbe interessante che la politica e la società civile si occupassero anche e soprattutto di queste cose, invece di perdersi in elogi e polemiche del tutto futili e pretestuose sull’ultimo Decreto. Inoltre, quasi nessuno si è accorto e ha posto l’accento su un altro dato, questo sì sul quale sarebbe oggettivamente giusto alzare le barricate: dal Decreto è infatti sparita la possibilità di implementare l’organico del dipartimento di Taranto di ARPA Puglia. Certo, l’esborso economico andrebbe comunque sul groppone della Regione, ma confermare il potenziamento di un’agenzia regionale tra le più povere in quanto a personale in tutta Italia (sono non più di 200 le unità attuali quando in altre Regioni superano addirittura le mille), sarebbe stato un gesto e un’indicazione di un’effettiva e parziale inversione di tendenza. Strano dunque che nessuno abbia denunciato questa “mancanza”. Sarà forse perché ARPA Puglia è oramai entrata a far parte di diritto da tempo nella lista dei nemici dei tanti “rivoluzionari” virtuali di Taranto? Chissà. Infine, desta stupore in noi, lo “stupore” di chi denuncia come l’ultimo Decreto preveda al comma 2 del’articolo 2 quanto segue: “Il rapporto di valutazione del danno sanitario non può unilateralmente modificare le prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale in corso di validità, ma legittima la regione competente a chiedere il riesame”. La domanda che ci sorge spontanea è la seguente: ma sino ad oggi dove avete vissuto? Su Marte? O siete stati troppo su Facebook? Forse è il caso, ancora una volta, di riannodare i fili della storia. E per farlo dobbiamo addirittura tornare al 30 agosto del 2013, quando nel solito silenzio generale demmo notizia della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n.197 del 23 agosto 2013, del Decreto del 24 aprile 2013 “Disposizioni volte a stabilire i criteri metodologici utili per la redazione del rapporto di valutazione del danno sanitario (VDS)”, a firma dell’ex ministro della Salute Renato Balduzzi e dell’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini. Il tutto, traeva spunto dalla Legge “Norme a tutela della salute, dell’ambiente e del territorio sulle emissioni industriali inquinanti per le aree pugliesi già dichiarate ad elevato rischio ambientale”, approvata all’unanimità il 17 luglio 2012 dal Consiglio regionale della Puglia. L’intento della Legge era quello di “prevenire ed evitare un pericolo grave, immediato o differito, per la salute degli esseri viventi e per il territorio regionale”. Il regolamento della stessa fu approvato il 3 ottobre 2012. La prima relazione redatta congiuntamente dall’Agenzia Regionale dei Servizi Sanitari (AReS), da ARPA e ASL Taranto, che la Legge regionale prevede sia prodotta almeno con cadenza annuale, oltre a basarsi sul registro tumori regionale e mappe epidemiologiche sulle principali malattie a carattere ambientale, inglobò anche i dati del registro tumori di Taranto (valido per gli anni 2006-07-08) e quelli dello studio Sentieri (dal 2003 al 2009), realizzato dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore della Sanità. Presentata durante la riunione della V commissione regionale il 29 maggio e lunga ben 99 pagine, la conclusione della relazione della VDS (lo ricordiamo per l’ennesima volta) fu la seguente: “I miglioramenti delle prestazioni ambientali, conseguiti con la completa attuazione della nuova AIA (prevista per il 2016), comporteranno un dimezzamento del rischio cancerogeno nella popolazione residente intorno all’area industriale”. Quando pubblicammo l’articolo in merito alla VDS il 30 maggio del 2013, per settimane la vicenda rimase sotterrata come al solito da strati di indifferenza totale. Per tirarla fuori, servì la relazione che l’ex commissario ILVA Enrico Bondi allegò ad una lettera del 29 giugno dello stesso anno, redatta da alcuni consulenti di vecchia data dell’ILVA Spa, che contestarono quella relazione addebitando i fenomeni di malattia e morte registrati a Taranto ai presunti “vizi” dei tarantini, un “classico” delle città portuali: tabacco e alcool. Attorno al caso si scatenò la solita infinita e futile polemica tutta tarantina, alimentata anche dal Fatto Quotidiano, che si concluse nell’ennesima bolla di sapone. Un mese dopo, il 26 luglio, il dottor Agostino Di Ciaula (ISDE Medici per l’Ambiente) fu ascoltato dalla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati. Di Ciaula sottolineò come il calcolo espresso nella relazione sulla VDS, fosse “parziale” e il dato sul rischio “fortemente sottostimato”. L’analisi, infatti, prendeva in considerazione i rischi tumorali legati alla sola inalazione di sostanze inquinanti, escludendo le altre vie di assunzione delle sostanze tossiche emesse dall’ILVA per ingestione. Il rapporto ARPA, sostenne Di Ciaula, “calcola i rischi che quelle concentrazioni di inquinanti causano in soggetti adulti di peso medio. Non considera che a parità di concentrazioni il rischio è decine di volte più alto per i feti e per i bambini”. Sei mesi dopo l’approvazione del Decreto e a due dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ARPA e Regione presentarono ricorso al TAR del Lazio conto il Decreto interministeriale. Un ricorso che è stato perso. Ma di cui nessuno ha mai parlato o per il quale non vi è stata alcuna indignazione. Tre, fra le altre, le principali contestazioni che vennero mosse nei confronti del Decreto Clini-Balduzzi. In primo luogo che anche ad AIA attuata, permarrà comunque un rischio cancerogeno per via inalatoria “residuo” nella popolazione; che una procedura basata sui dati misurati non può essere utile, se non alla fine di tutti gli interventi AIA, ovvero ad agosto 2016, e considerando che “i dati consolidati per il 2016 non saranno disponibili prima del 2017” – rilevava l’ARPA – “ne deriva che il primo rapporto VDs ILVA non potrà essere disponibile prima di quattro anni”. Se invece si effettuasse la VDS “sui dati misurati attuali si avrebbe” – rilevava sempre l’ARPA – la “descrizione di un quadro sanitario compromesso e un esito del rapporto VDS rassicurante e comunque in nessun modo indicativo dell’efficacia delle prescrizioni AIA”. Il Ministero della Salute rigettò però sin da subito quest’impostazione, affermando che proprio l’analisi dei dati misurati permette di vedere cosa stanno determinando, in termini di impatto sulla popolazione, l’attuazione delle prescrizioni AIA nell’ILVA. Il tutto fu “documentato” il 9 dicembre 2013 con una nota di tre pagine firmata dal Direttore generale del Ministero della Salute, Giuseppe Ruocco (inviata anche al Ministero dell’Ambiente, all’Istituto Superiore di Sanità e all’ASL di Taranto), in cui si contestava la valutazione di ARPA secondo cui effettuata oggi, la Valutazione del danno sanitario, “si avrebbe un quadro critico che poi diventa migliore ad AIA attuata. Considerando la latenza di alcune patologie” – affermava Ruocco – “un quadro sanitario compromesso è certamente in relazione con la contaminazione pregressa che lo ha generato, ma non necessariamente incompatibile con un ambiente ormai risanato”. Già nell’agosto del 2013 entrammo nel merito del Decreto interministeriale e ponemmo alcune domande rimaste del tutto inevase e che hanno finito per perdersi nel tempo. Perché, ad esempio, si scelse di separare l’epidemiologia dalla valutazione del rischio, visto che proprio l’epidemiologia è la disciplina utilizzata per la misura dello stesso? La separazione tra la valutazione di cosa è successo fino adesso e la previsione di cosa può succedere in futuro, è di fatto incomprensibile. Inoltre, il Decreto prevedeva due procedure indipendenti senza prevedere che le stesse interagissero tra loro. Come spiega sin troppo bene la letteratura scientifica ancora oggi, senza una buona epidemiologia non ci può essere una valida misura del rischio, e viceversa senza quest’ultima sarà difficile se non impossibile la gestione del rischio stesso. Inoltre, in merito all’esposizione degli inquinanti, ultimamente nella letteratura scientifica, a fronte dell’approccio valutativo per singolo inquinante, si sta facendo sempre più strada un approccio basato sulla misurazione della dose interna assorbita di più inquinanti. La possibilità di esaminare l’impatto sanitario di una singola sostanza, viene anche nel Decreto Balduzzi-Clini vincolata al superamento o meno dei valori di riferimento di legge. In altre parole, se la sostanza tossica in questione non supera, sulla base dei dati ambientali disponibili, i valori stabiliti per legge la valutazione non viene eseguita. Il risultato è una sottostima del rischio sanitario: perché da una parte i valori di riferimento per le sostanze tossiche sono in continua rivalutazione, dall’altra l’esposizione di quote grandi di popolazione a livelli anche molto bassi può comportare effetti sanitari importanti, e, in aggiunta, gruppi più suscettibili possono essere vulnerabili a livelli anche molto inferiori alle soglie. Inoltre non possono essere trascurati gli effetti sinergici tra varie sostanze. Dunque, la “censura” significa ignorare tali possibili impatti. La separazione non è quindi scientificamente giustificata. Né è chiaro cosa accadrebbe in caso di esito negativo per la salute della popolazione. Dunque, come si può facilmente evincere, nulla è cambiato in questi ultimi anni. E difficilmente cambierà. Ma alla stragrande maggioranza delle persone che ancora oggi poco o nulla si interessano di queste cose, fa da contraltare una politica culturalmente e umanamente del tutto inadeguata per gestire una vicenda del genere, e una società civile troppo presa dalle sue polemiche virtuali e dal suo “troppo piacersi”, per nulla interessata a costruire dal basso una presa di coscienza civile collettiva che possa interessare e soprattutto parlare ed essere accessibile a tutti. Si è troppo “naif” e “radical chic” per abbassarsi al livello della gente comune. Che poi altro non è che il popolo. Ovvero la stragrande maggioranza delle persone. Gianmario Leone 08/01/15 www.tarantooggi.it/
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