Immigrazioni e criminalità in Italia: uno sguardo ai dati
“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. È da questa riflessione che è nata l’idea di una rubrica tutta dedicata alle parole. Parole che creano significati, li riproducono e, allo stesso tempo, sono il punto di partenza per comprendere il nostro mondo e decostruirne la naturalezza, l’oggettività data. di Redazione community, Rossella Marvulli
La questione della criminalità legata ai migranti che giungono in Europa è un argomento caldo nella retorica politica degli ultimi anni; le campagne politiche propagandano con foga questo argomento. C’è in questo paradigma un vizio concettuale ben preciso: che il migrante sia propenso alla criminalità – quasi questa fosse un fatto connaturato alla sua persona, una peculiarità genetica – e pertanto va espulso, punito o rifiutato con ogni mezzo; che la pianta infestante del nostro tessuto sociale – la criminalità e la microcriminalità che si infittiscono laddove tramonta il centro città, dalle aree di transizione fino alle periferie – germogli proprio dalla presenza straniera nel nostro territorio; e che pertanto la pianta da estirpare sia una categoria sociale e non una modalità di gestione della macchina statale.
Le organizzazioni criminali negli Stati dell’Unione Europea, quelle che si nutrono della manodopera di giovani immigrati, delle braccia di minori che per qualche motivo non si sono inseriti nel tunnel legale, dei corpi di donne incatenate contro la propria volontà alle condizioni del lavoro sessuale, o le fitte reti di passatori e trafficanti che costellano le nostre rotte di terra e di mare, ci mostrano un ecosistema sociale alternativo a quello legiferato e statalizzato, fondato sulla distribuzione dei compiti, sulla separazione dei ruoli e sull’inserimento dei cittadini in un tessuto sociale. Nelle viscere dello stato scorrono altri microstati, che conoscono loro proprie leggi – non scritte – e altri modi di fare giustizia; non sono microstati di diritto, ma di forza. Chi affonda nel loro setaccio?
Nella maggior parte dei casi si tratta di uomini e donne che scivolano nell’irregolarità alla scadenza del permesso di soggiorno, o che giungono irregolarmente in Europa senza riuscire a inserirsi in nessuna via legale; in Italia, con la legge Turco-Napolitano prima e con la Bossi-Fini poi, l’ottenimento di un permesso di soggiorno è stato vincolato al lavoro effettivo dello straniero presente sul territorio; ma se pure fosse sensato procedere dal lavoro al riconoscimento di uno status giuridico (questione, questa, che apre una riflessione etica profonda, se vogliamo chiederci quanto è etico che il lavoro possa rappresentare il riscatto necessario a ottenere dei diritti), la congestione della burocrazia italiana rende l’emersione dal lavoro nero una procedura quasi impossibile. Un dato: nel 2020, nel pieno dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, il Governo italiano ha approvato il decreto legge n. 34/2020, meglio noto come decreto rilancio. Tra le previsioni del decreto, l’art. 103 ha introdotto una finestra temporale per la regolarizzazione/emersione dei cittadini stranieri senza permesso di soggiorno che si trovavano già in Italia all’8 marzo 2020. A marzo 2021 a livello nazionale sono state registrate 207 mila domande di emersione, ma di queste soltanto 1.480 sono giunte nella fase conclusiva: lo 0,7% del totale. [1]
Una tale congestione della macchina statale rende la via criminale e illegale un’alternativa concreta, da scegliere per non morire di fame.
Ma non c’è solo questo; spesso la criminalità giunge da molto lontano, si innesta sulle rotte migratorie ben prima che i migranti partano dalle terre d’origine, e spesso rappresenta l’unica opportunità di fuga. Il caso della Nigeria è emblematico: il racket della malavita nigeriana, organismo «orizzontale» per sua natura, sembra essersi adattato alle richieste del mercato informale italiano: prostituzione, caporalato, spaccio. In Veneto, in Lombardia, ma anche nel casertano e nel palermitano; una vera e propria “pipeline” che congiunge la Nigeria con le nostre città. Senza raggiri o promesse di impiego come estetiste, parrucchiere e babysitter, adolescenti e giovani donne arrivano per inserirsi nella tratta che le condurrà nell’Europa notturna dei giacigli di fortuna. Per gli uomini inserirsi nella pipeline significa invece entrare nel traffico di stupefacenti, accettando di interpretare diversi ruoli nella galassia dello spaccio: corriere, «ovulatore», spacciatore, vedetta.
Stando ai dati del 2017, i “contratti” prevedono due sistemi differenti di viaggio, a secondo delle risorse, individuali e familiari: via aereo (60 mila euro) o via mare (25 mila), ovvero tramite i porti libici sulla rotta del Mediterraneo centrale [2].
Anche i minori non vengono sottratti a queste reti invisibili agli occhi dello Stato. Nelle scorse settimane è stato stimato che quasi 17 bambini migrati in Europa spariscono quotidianamente dal territorio europeo. [3]
Spesso giunti in Europa da soli, questi bambini vengono inizialmente identificati e avviati nel sistema di protezione internazionale, ma in un secondo momento se ne perdono le tracce. Molti di loro rimpolperanno le fila della manodopera, dello sfruttamento sessuale e del traffico di stupefacenti.
Che la criminalità pervada il mondo migrante sulla rotta, sui confini, in mezzo al mare e tra le nostre strade è dunque un fatto. Quali sono le ragioni di questo proliferare?
Nell’ultimo decennio alcuni dipartimenti di criminologia, di sociologia e di scienze politiche hanno indagato il legame tra criminalità e immigrazione in Italia per dare una validità scientifica al guazzabuglio retorico della politica e della propaganda. Sulla base dei dati forniti dal ministero degli Interni – gli arresti e le reclusioni, disaggregati per italiani, stranieri regolari e stranieri irregolari – tali studi mostrano che vi sono sì dei legami tra criminalità e immigrati; che il tasso di arresti e di reclusioni degli stranieri è di gran lunga superiore rispetto a quello degli italiani; e se pure normalizzassimo tali dati con la discriminazione statistica – il modello psicologico per cui, se nella percezione comune una categoria di individui manifesta una maggior propensione a delinquere, i membri di tale categoria, se giudicati, potrebbero subire tale stereotipo – questa prevalenza sembra comunque incontrovertibile.
Ma se interrogassimo meglio questi dati scopriremmo innanzitutto che la quasi totalità degli immigrati irregolari è costituita da soggetti maschi e giovani, privi di famiglia. Ed è notorio che sociologicamente il tasso di delittuosità è molto più elevato proprio in questa fascia di popolazione. È del tutto normale, quindi, che in rapporto all’intera popolazione italiana quella degli immigrati presenti un tasso relativo di delittuosità più elevato.
Inoltre, nell’anno dello studio, della totalità degli stranieri arrestati e incarcerati, il 75% degli arrestati e il 94% degli incarcerati erano irregolari. [4] Cosa ci rivela questo fatto? Ci rivela che gli irregolari presenti sul territorio italiano non appartengono a una dimensione indipendente, in cui lo Stato non interferisce, ma sono profondamente radicate nell’assetto statale. Il loro radicamento è però in negativo. Condividono con noi le strade, ci siedono vicino nei luoghi pubblici, vivono i nostri spazi, si radicano nelle nostre collettività per il semplice fatto che vi si trovano con tutto il peso del proprio corpo. Ma privati come sono dei diritti con cui almeno tentare di orientare la propria vita nel senso di una fioritura umana, il loro radicamento è puramente fisico; lo spirito e il corpo subiscono una violenta frattura. È la stessa frattura lacerante che può provare un giovane laureato camerunese che arrivi in Europa e, per auto segregazione, non riesca ad aspirare per sé ad una professione più alta di quella di addetto alle pulizie. L’abbruttimento personale che subiscono nella percezione di sé è spaventoso.
Nel 2016 è stato condotto un esperimento da Paolo Pinotti e altri ricercatori nell’ambito della criminologia e delle scienze sociali. L’esperimento, compiuto a ridosso della finestra temporale per la procedura di regolarizzazione, divideva il gruppo di stranieri osservato in due sottogruppi: coloro che hanno ottenuto la regolarizzazione del proprio status entro l’anno e coloro che non l’hanno ottenuta. Si evinceva che, a parità di propensione e di condizioni iniziali a delinquere, la curva del sottogruppo regolarizzato relativa alla propensione a delinquere scendeva significativamente dopo la regolarizzazione rispetto a quella di coloro che non avevano potuto accedervi. Questo esperimento, seppur non privo di margini di errore, sostiene chiaramente la tesi per cui lo status legale sia il principale mediatore tra immigrazione e criminalità. [5]
D’altronde, che la delinquenza sia prevalentemente un prodotto dell’irregolarità giuridica supporterebbe la tesi del Nobel per l’Economia Gary Becker che già nel 1968 sosteneva: coloro che delinquono non hanno alcuna predisposizione antropologica a delinquere ma sono persone che compiono delle scelte, che valutano i costi e i benefici attesi del compiere un certo atto.
E dunque: l’approccio legalitario del fenomeno migratorio della Bossi-Fini, le reti illegali che silenziosamente collegano come un filo nero le terre d’origine con le nostre passando attraverso Mediterraneo, Oceano Atlantico e Balcani, la difficoltà di accesso ai sistemi di asilo e di protezione internazionale costringono gran parte dei migranti a permanere nell’invisibilità. Respinti nel fondo di un mare di grigi, rese fragili dai rifiuti istituzionali, avvilite nella propria dignità dalla sensazione di non contare nulla per la comunità in cui vivono, ammutolite dalla propria posizione, impossibilitate a invocare i propri bisogni essenziali, sradicate nello spirito, queste persone per sopravvivere ripiegano sui sentieri che restano aperti.
C’è dunque qualcosa di più profondo della menzogna mediatica, aldilà delle retoriche, e anche oltre le procedure astratte e alienanti di riconoscimento e di integrazione. C’è il contatto con la vita, legata alla pura fisicità dei corpi, alle loro esigenze e alle loro storie, alla loro attitudine, umana e universale, a pensare e ad autodeterminarsi. La questione riguarda la scelta di orientare la propria vita in modo che apporti positività a sé e agli altri.
A queste persone è tolta la facoltà del pensare, e pertanto anche del pensare sociale, del pensare radicato nella collettività in cui si vive. Nelle condizioni in cui sono confinati, le scelte criminose che compiono diventano, se non moralmente giustificabili, almeno socialmente plausibili. La domanda dunque è se la scelta di compiere il bene non sia una scelta di privilegio, perseguibile innanzitutto grazie ad una certa bontà delle circostanze; la domanda è se il bene non sia, a sua volta, un prodotto di certi privilegi. Laddove i diritti non sono garantiti, le stesse definizioni di bene e di male vanno normalizzate, la scelta dell’uno o dell’altro va normalizzata, e in alcuni casi non è neppure più possibile compierla, perché se si perde la facoltà del pensiero allora si perde l’orizzonte di opportunità che precede e presuppone la scelta.
A questo livello della vita non si può giungere dalle stanze di una questura, o dalle aule di un tribunale per minori; per una evoluzione malata della nostra collettività, questi luoghi sono ferocemente dissociati dalla vita. La maggior parte di queste persone non vedrà mai un’aula di tribunale, né riceverà indicazioni formali per un inserimento legale nella società. Questi organi non intervengono in tempo per osservare la loro evoluzione personale. E con la fitta rete alternativa con cui spesso giungono qui, le loro possibilità di fioritura e affermazione sociale sono spesso troncate in partenza. Il contatto con la realtà delle cose, ad oggi, mette dunque fuori gioco i diritti.
La distribuzione di questi valori sugli uomini si dimostra diseguale; e anche laddove vi fosse qualche garanzia effettiva (pensiamo, ad esempio, a quelle di cui godrebbero i minori non accompagnati), il farraginoso sistema che detiene la giurisdizione di queste garanzie non arriva a toccare fisicamente questi individui. Non conta quanto promulgato, dichiarato e sottoscritto nei documenti più alti dell’Unione Europea; la realtà delle cose resta altrove. Se guardata da questa prospettiva, la questione si riduce ad una discussione su entità astratte: i diritti, gli stati, la cittadinanza… a scapito dell’essere comunità, collocata in un luogo, con una fisicità, con una memoria storica, con delle pratiche politiche che partano dalla concretezza del singolo caso, che restituiscano dignità e valore ai bassifondi del corpo e del pensiero di ogni singolo individuo.
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Note
[1] “Proposte per una sanatoria da sanare”, Melting Pot Europa, 30 marzo 2021
[2] “Dalla Nigeria all’Italia la ‘pipeline’ che trasporta i migranti”, Limes, novembre 2017
[3] “Nearly 17 child migrants a day vanished in Europe since 2018”, The Guardian, 21 aprile 2021
[4] Dati del ministero dell’interno
[5] “Criminalità e Immigrazione”, Paolo Pinotti
1575/2021 https://www.meltingpot.org
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