In equilibrio sui pregiudizi

Diventare madri è ancora una scelta che penalizza le donne in termini di occupazione e partecipazione alla vita pubblica in Italia, dove le politiche per la natalità continuano a essere basate sull’idea della famiglia tradizionale e sui pregiudizi legati al genere.

“Ragazze, studiate!”. Potrebbe essere la prima cosa da dire dopo aver letto il rapporto Le equilibriste, la maternità in Italia 2024, a cura di Alessandra Minello e pubblicato da Save the Children, che racconta la situazione delle madri nel nostro paese. 

Anno dopo anno, la ricerca porta alla luce quanto, per le donne italiane, quella di avere un figlio o una figlia sia una scelta penalizzante in termini di occupazione. Pesano i ruoli e le aspettative di genere, e le idee su cosa significhi essere madre. 

Specialmente nel Mezzogiorno, dove si riscontra che più della metà delle donne con figli è inattiva – quindi non lavora e non cerca lavoro –, con un picco del 62,3% tra le giovani di età compresa fra i 25 e i 34 anni che hanno almeno un figlio o una figlia, e dove lo stato è meno presente con infrastrutture e servizi. A dimostrazione che la cura è un fortissimo inibente dell’autonomia economica. 

Fanno eccezione le laureate: nel 2023, erano occupate il 79% delle donne tra i 20 e i 64 anni con un diploma universitario e solo il 36,6% per cento di quelle senza istruzione secondaria. Tra le laureate, anche se nel tasso di occupazione rimane una distanza rispetto agli uomini, lavora di più chi ha figli, proprio come succede per gli uomini, e al contrario di ciò che avviene per le donne diplomate o con la licenza media. 

Il problema delle madri (e più in generale delle donne in Italia) non è solo l’occupazione in sé, ma anche la qualità dell’occupazione. Basti pensare che le donne che non diventano madri guadagnano il 40% più di quelle che hanno figli o figlie (come sottolineano le autrici, anche a distanza di 15 anni dal parto); per non parlare degli uomini che, con o senza figli, comunque guadagnano più delle donne.

Le madri sono infatti penalizzate in termini di retribuzione e di ore lavorate, con risvolti che vanno dalla mancata indipendenza economica, alla povertà e, sul lungo periodo, alla fragilità nella vecchiaia. 

In Italia la maternità ha un costo altissimo per le donne non solo in termini economici: la carenza di collaborazione degli uomini, ancora davvero poco partecipi, di servizi pubblici, e di politiche pubbliche a sostegno delle scelte riproduttive trasforma la nascita di un figlio o di una figlia in un carico di lavoro di cura sproporzionato, nel rischio concreto di perdere il lavoro, nella rinuncia non solo alla propria progettualità individuale, ma anche al tempo per sé. 

Spesso, all’arrivo di un bambino o di una bambina si accompagnano, almeno nei primi anni di vita, anche isolamento e solitudine.

“Tornando al gap di partecipazione legato ai figli, è importante sottolineare che questo agisce in due direzioni opposte: se le madri lavorano meno delle non madri, ciò non avviene per gli uomini, dove, anzi, sono i padri a essere più occupati dei non padri”, affermano le autrici del rapporto. 

Se avere un figlio o una figlia stravolge la vita delle donne, non si può dunque dire la stessa cosa per i padri: il loro rapporto con il lavoro tendenzialmente non cambia, anzi. La paternità ha un impatto positivo sia sull’occupazione che sulla retribuzione degli uomini. 

Persino il rapporto con la cura resta lo stesso, anche se, – almeno un po’ – gli uomini stanno cambiando: dove si lavora di più e con migliori condizioni, sempre di più si usufruisce dei dieci giorni di congedo di paternità. In alcune province del Nord (dove il lavoro è più stabile e retribuito meglio) si registrano valori superiori all’80%, mentre in alcune di quelle del Sud le percentuali di utilizzo sono inferiori al 30%.

In questo scenario, è particolarmente interessante l’approfondimento sulle politiche messe in atto da altri paesi europei che hanno invertito il trend demografico, sui diversi approcci alla famiglia e ai ruoli famigliari, e su quelli che sembrano essere gli elementi che hanno funzionato. 

In tutti questi paesi, approcci diversi tra loro sono accomunati però dal fatto che prevedono che i modi di fare famiglia siano tanti e diversi, riconoscendo la genitorialità, per esempio, anche delle famiglie omosessuali, o i diritti sessuali e riproduttivi delle donne single. 

Continuare a ragionare sulla famiglia tradizionale non solo non rispecchia la realtà, ma esclude dalle politiche una platea di aspiranti genitori. “Quando le politiche per le famiglie sono guidate dall’idea di generare benessere e/o parità sono più generose ed efficaci. Questo emerge dal confronto tra le politiche per la famiglia di Francia, Finlandia, Germania e Repubblica Ceca. L’Italia deve fare una riflessione ampia sui motivi che guidano le sue politiche e sulla copertura di congedi, servizi, sostegno alle famiglie”, scrive Alessandra Minello. 

I tempi recenti ci hanno dimostrato che la mamma da sola non basta, e non basta nemmeno la coppia. Ripensare le relazioni e dotarle di diritti è un modo per ricostruire il famoso villaggio che serve per crescere un bambino o una bambina.

Da qui, il capitolo – fondamentale – del rapporto su considerazioni e raccomandazioni, che ha il pregio non solo di indicare quali misure servirebbero – condivisione della cura, welfare e lavoro e servizi per la prima infanzia –, ma anche di parlare di quali caratteristiche devono avere le politiche per funzionare. Ed è proprio su questo aspetto che voglio concentrarmi: il primo ingrediente per fare in modo che le misure funzionino è dare certezza e continuità.

In Italia, con l’avvicendarsi dei governi, bonus, premi e detrazioni saltano di finanziaria in finanziaria. A volte trovano copertura e a volte no, a volte intervengono su una fascia di popolazione e a volte su un’altra, e le misure sono caratterizzate da frammentazione e discontinuità.

L’assegno universale per i figli è stata l’unica misura italiana a rappresentare un’inversione di tendenza, sia perché metteva al centro figli e figlie e non chi se ne prende cura (di solito le mamme: bonus mamme, mamma card, mamma domani, ecc.), sia perché razionalizzava e accorpava le altre misure. E però, di nuovo, con il governo Meloni abbiamo assistito al ritorno dei bonus mamma (ma solo per le mosche bianche: lavoratrici a tempo indeterminato con tre figli).

Tra le raccomandazioni per le politiche troviamo “un approccio organico e olistico”; servono misure specifiche di sostegno al reddito, infrastrutture sociali come gli asili nido. Servono più diritti come i congedi di paternità, ma servono anche politiche non immediatamente riconducibili alle persone che vogliono essere genitori: politiche per la cura delle persone non autosufficienti, per l’invecchiamento attivo, politiche dell’abitare. 

Insomma, è un po’ difficile separare la genitorialità dal ciclo di vita, e l’interrogativo più ampio non è su come facciamo ad avere più bambini e bambine, ma quale tipo di società vogliamo essere, quali le famiglie e quali i ruoli di genere. 

Sappiamo che gli shock economici e sociali hanno un impatto negativo sulla scelta di fare figli. Non stupisce quindi che il problema non sia solo che ci sono sempre meno persone in età fertile, ma anche sempre meno donne e uomini in età fertile che decidono di fare figli. 

Vivere in un paese depresso, dove a governare sono gli anziani e non si investe in innovazione, con l’avvicendarsi di crisi economiche, guerre, pandemie, crisi climatiche e, di contro, la mancanza, come abbiamo detto altre volte, di un orizzonte di cambiamento, sono fattori scoraggianti tanto quanto il precariato, l’assenza di servizi, gli stipendi bassi. 

Tra l’altro, invertire ora il trend non sarebbe la soluzione – gli effetti li vedremmo tra troppo tempo; una delle cose che invece potrebbero funzionare è la libera circolazione delle persone: fare in modo che sempre più persone giovani trovino in Italia un luogo in cui fare futuro. Quindi ripensare le frontiere, l’accoglienza, il riconoscimento dei saperi, ma anche la banda larga, le infrastrutture, le politiche culturali. Diventare un paese per giovani non serve solo ad attrarre talenti, ma anche a trattenerli.

I figli e le figlie per la patria. La retorica allarmista del paese di vecchi, dell’economia che crolla, l’emergenza e la carrellata di personalità del mondo conservatore chiamate ad animare gli stati generali della natalità, fanno a pugni con le condizioni che vivono le persone giovani – sono quelle che Manuela Naldini, demografa, chiama “contesto ostile”.

Se poi spostiamo lo sguardo dalle madri e pensiamo a figli e figlie, come parte integrante della società e come portatori e portatrici di diritti – per esempio il diritto ad avere servizi educativi di qualità, al benessere economico e sociale, e anche, perché no, ad avere mamme felici e papà accudenti -, capiamo che è per loro che questo paese è inospitale. Tanto inospitale che ne accoglie sempre meno.

Barbara Leda Kenny

9/5/2024 http://www.ingenere.it/

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