«In Italia aborto sempre più criminalizzato». Il caso dei cimiteri dei feti
Si è alzato un giusto e tempestivo coro di sdegno alla scoperta che Ama Cimiteri Capitolini seppellisce feti e prodotti abortivi con una targhetta dove viene scritto il nome della madre, anche senza nessuna autorizzazione da parte della stessa e dunque senza alcun rispetto o tutela della privacy. È stata una ragazza di Roma a svelarlo, tramite un post su Facebook diventato subito virale. Marta è ricorsa a un aborto terapeutico prima della ventottesima settimana e ha scelto di non procedere con la sepoltura ufficiale del feto. Dopo sette mesi, e una volta ricevuto il referto istologico, Marta diventa dubbiosa sulla questione della sepoltura, e richiama la struttura presso la quale aveva abortito. Qui la spiacevole sorpresa: «Signora il fetino sta qui da noi. […] li teniamo perché a volte i genitori ci ripensano. Stia tranquilla anche se lei non ha firmato per la sepoltura, il feto verrà comunque seppellito per beneficenza. Non si preoccupi avrà un suo posto con una sua croce e lo troverà con il suo nome. Scusi ma quale nome? Non l’ho registrato. È nato morto. Il suo signora. Stia tranquilla la chiameremo noi quando sarà spostato al cimitero».
Il post era accompagnato da una fotografia di una piccola tomba con una croce e, appunto, nome e cognome di Marta. Forte di quasi quindicimila condivisioni al momento in cui scriviamo, il post ha avuto il merito di puntare i riflettori su una pratica purtroppo in continua espansione in Italia.
Dei cimiteri per feti si è iniziato a parlare nel lontano 2000 e, da allora, regolarmente salgono alle cronache, nazionali e locali. L’ultimo caso era stato quello, nella prima metà dell’anno, di Civitavecchia, dove solo grazie all’intervento della Consulta delle Donne si sono bloccati i piani dell’amministrazione leghista.
Di fronte al post di Marta non si sono fatte attendere le reazione di esponenti di partiti che siedono nel consiglio regionale del Lazio e non solo: Marta Bonafoni (Capogruppo Lista Civica Zingaretti), Marta Leonori (PD) e Alessandro Capriccioli (+Europa Radicali) hanno emesso una nota congiunta in cui definivano il caso «una grave violazione della privacy oltre che della libertà di scelta e dei diritti delle donne». La stessa Bonafoni ha presentato, insieme alla deputata di LeU Rossella Muroni una interrogazione alla Regione Lazio e un’altra al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte al fine di «sollecitare iniziative normative che garantiscano sempre la tutela dei diritti delle donne, la verifica delle procedure seguite nel caso romano e il pieno rispetto della legge 194/1978»
«La 194 è la stessa legge che autorizza l’obiezione di coscienza e che parla di tutela della maternità. Quando la ginecologa fa l’intervista, cerca di dissuadere le donne dall’abortire in tutte le maniere», ci spiega la psicoterapeuta Federica di Martino, ideatrice, insieme a Elisabetta Canitano, ginecologa e presidente di Vita di Donna Onlus, e al medico ostetrico Alessandro Matteucci, della piattaforma Ivg Ho abortito e sto benissimo. «La piattaforma nasce per provare a de-stigmatizzare la retorica intorno all’aborto, una narrazione sempre colpevolizzante nei confronti delle donne. Vogliamo raccontare una coloritura e una gamma emozionale ed emotiva molto più ampie rispetto a quelle che sono le visioni stereotipate che quotidianamente ci assalgono», prosegue la dottoressa di Martino: «Quello che ci siamo trovate ad affrontare nel caso di Marta, e che ci troviamo ad affrontare poi tutti i giorni, è un’ingerenza culturale e sociale dovuta a un retroterra cattolico.
La donna è vista semplicemente come un’incubatrice. Se una donna racconta di aver abortito e addirittura di essere stata bene con questa scelta, che è una scelta in molti casi di liberazione, di assunzione di responsabilità, vissuta in maniera positiva, viene guardata malissimo, viene giudicata ripetutamente.
Quanto accaduto a Marta è frutto di questa cultura patriarcale, di questa violenza: i famosi cimiteri dei feti sono voluti prevalentemente da amministrazioni e gruppi consiliari di destra».
La presenza dei cimiteri dei feti si sta diffondendo a macchia d’olio nel territorio italiano, come si evince dalla mappatura eseguita dalla giornalista e autrice femminista Jennifer Guerra. Soprattutto al nord si nota un forte incremento, complici anche le numerose amministrazioni leghiste, da sempre vicine ad ambienti antiabortisti. Ma non stiamo parlando di un’esclusiva della destra: per esempio, nel 2013, a Firenze fu Matteo Renzi a voler dotare la città di cui era sindaco di un tale cimitero. Molte volte poi queste iniziative passano sotto silenzio, presentate come ordinari lavori di ampliamento. Spesso associazioni di stampo cattolico stipulano convenzioni con Asl e camere mortuarie per occuparsi materialmente della sepoltura, ma in altri casi, come quello romano, è direttamente la gestione del cimitero ad agire.
È il regolamento di polizia cimiteriale del 1990 a stabilire le varie procedure previste per la tumulazione dei prodotti abortivi, differenziando a seconda dell’età intrauterina. Per i feti sopra le ventotto settimane, che lo stato civile deve aver prima dichiarato nati-morti, la sepoltura è obbligatoria. Mentre per i feti tra le venti e le ventotto settimane un parente (o qualcuno da esso delegato) può fare richiesta di una cerimonia, altrimenti è compito dell’Asl occuparsi della sepoltura.
Sotto le venti settimane, se i parenti non fanno differente richiesta entro ventiquattro ore dall’espulsione del feto, sarà invece l’ospedale stesso a occuparsi di smaltire, tramite termo-distruzione, i prodotti del concepimento. Proprio in questa ultima circostanza s’inserisce il lavoro di associazioni cattoliche come la novarese Amici della vita con Maria (Advm): fondata dal sacerdote Maurizio Gagliardini e ispirata alle parole del cardinale colombiano Alfonso López Trujillo, Advm ha stipulato convenzioni con strutture ospedaliere in tutta Italia per seppellire i feti sotto le venti settimane nel caso in cui i parenti non facciano alcuna richiesta particolare. È a dir poco curioso che degli ospedali deleghino lo smaltimento di rifiuti sanitari ad associazioni religiose.
«Tutto questo avviene nel nostro paese e non soltanto a causa di un’unica associazione o di un unico gruppo cattolico, ma viene da una rete di realtà che da anni lavorano e spingono per delegittimare il tema dell’aborto.
E, come ha messo in evidenza il racconto di Marta, avviene con il sostengo evidentemente di una parte della sanità pubblica, che poi in Italia è la stessa che si ritrova più del 70% del personale obiettore», dichiara la dottoressa di Martino, che poi allarga lo sguardo oltre l’Italia. «Negli Stati Uniti una donna per accedere all’aborto deve percorrere letteralmente una via crucis. E ora Trump ha anche nominato giudice della corte suprema la cattolica ultra-conservatrice Amy Coney Barrett. Non parliamo poi dell’America Latina o di quello che sta succedendo in Polonia. Una serie di realtà in cui l’aborto in alcuni casi è proprio vietato, un reato quindi. Nel nostro paese non è tecnicamente un reato, ma lo diventa socialmente e culturalmente ogni giorno di più». Le risposte a questi frequenti attacchi alla libertà di scelta delle donne arriva sempre più spesso dalle donne stesse: la Ong Differenza Donna ha tenuto un partecipatissimo presidio proprio al cimitero Flaminio il giorno seguente alla pubblicazione del post, mentre sono anni che il movimento femminista Non Una di Meno, insieme a tante associazioni, costruisce campagne per l’accesso libero e gratuito all’aborto.
Nicolò Arpinati
1/10/2020 https://www.dinamopress.it
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