In Palestina si ripete il genocidio degli indiani d’America

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L’etnocidio dei nativi nordamericani e il genocidio a Gaza. Un parallelismo tra colonialismo e sionismo

Un paragone possibile?

Nel novembre 2022, in occasione di una conferenza tenuta a Istanbul che ha visto la presenza di molti accademici e attivisti palestinesi per discutere la ricerca di una narrazione comune, un membro del pubblico ha dichiarato, al termine di un breve ma impetuoso intervento, “Noi non siamo pellerossa”.

Questa citazione è alquanto datata. Venne attribuita all’ex leader palestinese Yasser Arafat durante un’intervista effettuata all’interno del suo ufficio di Ramallah, dove era stato confinato con la forza, circondato dall’esercito israeliano che aveva invaso nuovamente la popolosa città palestinese. Il capo dell’OLP e presidente dell’Autorità Palestinese aveva affermato che, nonostante il tentativo di Israele di sradicare il popolo palestinese, esso rimaneva ben saldo. “Israele non è riuscito a spazzarci via” – disse Arafat – “Non siamo pellerossa”.

L’intenzione di Arafat non era, ovviamente, quella di degradare o insultare le comunità native americane, ma piuttosto di affermare come i palestinesi non abbiano fatto la stessa cruenta fine dei nativi americani. Tuttavia questa dichiarazione estrapolata dal contesto è sembrata non rappresentare la profonda solidarietà esistente tra i Palestinesi e le lotte di liberazione nazionale dei popoli indigeni. In realtà quell’espressione durante la conferenza a Istanbul, apparentemente banale o con una scelta di parole inadeguate, rappresenta oggi una sfida molto importante per i Palestinesi che devono rianimare un nuovo dibattito sulla liberazione palestinese, liberandola dal linguaggio autoreferenziale dell’Autorità Palestinese di Ramallah. Paradossalmente, Arafat, più di ogni altro leader palestinese, ha creato legami con numerose comunità del sud globale e nel resto del mondo e, come ha scritto l’intellettuale palestinese Ramzy Baroud, i pellerossa “sono gli alleati naturali del popolo palestinese, così come anche altre numerose comunità indigene che hanno sostenuto attivamente la loro lotta per la libertà”1. In un linguaggio decolonizzato, afferma Baroud, “i Palestinesi sono i nativi americani, non i pellerossa; non per la loro presunta propensione ad essere “spazzati via”, ma per il loro orgoglio, la loro resilienza e la continua ricerca di uguaglianza e giustizia”2.

A gennaio 2024, dopo aver postato il demo di un pezzo nuovo su Gaza, “Under The Rubble”, Roger Waters ha pubblicato un video sul suo account X in cui riprendeva le parole di una lettera scritta nel 2015 ad Howard Stern in cui, oltre a parlare della storia di Israele e Palestina a partire dal 1948, conclude facendo riferimento all’attuale situazione a Gaza: “Tutti possono sbagliare, ma i diritti umani sono importanti. Le persone contano. Il genocidio progressivo del popolo palestinese non è meno atroce del genocidio dei nativi americani. Il genocidio è sempre sbagliato1.

Non solo il paragone di Waters tra il genocidio dei nativi americani e il genocidio in corso a Gaza risulta essere molto pertinente, ma soprattutto ribadisce le similitudini che li accomunano, sia dal punto di vista ideologico sia dal punto di vista culturale, segnate dal Leviatano del colonialismo di matrice occidentale. La lotta dei palestinesi è stata spesso assimilata alla lotta dei nativi americani per la loro terra e contro il colonialismo e del suprematismo bianco, nonché un esempio per i popoli dell’Asia e dell’Africa dal punto di vista politico, intellettuale e di solidarietà.

Come Hollywood dipingeva i “pellerossa”, Israele dipinge i palestinesi

Era il 23 marzo 1973 quando l’attivista nativa americana apache Marie Louise Cruz, soprannominata Sacheen Littlefeather (“Piccola Piuma”), allora 26enne, salì sul palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles per ritirare la statuetta a nome di Marlon Brando. Per l’occasione il grande attore scrisse un discorso di otto pagine, ma il produttore Howard Koch impedì di leggerlo per intero, informando che Littlefeather avrebbe avuto solamente un minuto. Nel suo discorso si presentò come Apache, criticando il maltrattamento e la rappresentazione dei nativi americani da parte dell’industria cinematografica di Hollywood. Con un abito di pelle di cervo, mocassini e lunghi capelli neri raccolti, Piccola Piuma si rivolse così al pubblico dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences: “Buonasera. Mi chiamo Sacheen Littlefeather. Sono Apache e presiedo il Comitato Nazionale per l’Immagine Affermativa dei Nativi Americani. Rappresento Marlon Brando a questo evento. È con rammarico che Marlon Brando non può accettare questo premio così generoso, a causa del modo in cui i nativi americani sono trattati oggi dagli Stati Uniti. È con rammarico che non può accettare questo generosissimo premio, a causa del modo in cui i nativi americani sono trattati oggi dall’industria cinematografica, in televisione e nelle repliche dei film, e a causa di Wounded Knee”. L’attrice fu fischiata dalla platea, sconvolgendo l’’Academy e i circa 85 milioni di telespettatori.

Le scuse di questo terribile fatto da parte dell’Academy arrivarono solo il 17 settembre 2022 con una lettera firmata dal presidente di allora, David Rubin in cui si legge: «Gli insulti che ha subito per quella dichiarazione erano fuori luogo e ingiustificati. Il peso emozionale che ha dovuto sopportare negli anni e il prezzo pagato dalla sua carriera nella nostra industria sono irreparabili. Il coraggio di cui ha dato prova non è stato riconosciuto troppo a lungo, per questo le presentiamo le nostre più sincere scuse insieme alla nostra più sincera ammirazione». Il 2 ottobre dello stesso anno Piccola Piuma morì, nella sua casa di Novato, nella contea di Marin, in California, in seguito ad un tumore al seno e al polmone destro che le era stato diagnosticato nel 2018.       

Il suo fu l’episodio emblematico di condanna del razzismo e del colonialismo presenti nell’industria cinematografica americana che ha sempre rappresentato, soprattutto nei film western, i nativi americani come esseri bestiali, “incivili”, “cattivi”, “selvaggi” dediti alle più turpi attività, “primitivi” privi di qualsiasi elemento culturale e con cui era difficile dialogare, se non come esseri volti alla strage che uccidevano a sangue freddo e rapivano le donne bianche. Solo negli anni Novanta ci sarà la rinascita delle tradizioni native nordamericane quando, nel 1994, con la nascita di un nuovo vitello di bisonte bianco (in realtà “albino”) in Nevada e, il film Balla coi lupi riuscirà a ridare giustizia agli indigeni oltre che a rivalutare le culture native nordamericane agli occhi del mondo.

Se in ambito cinematografico è cambiato qualcosa in questi decenni, la secolare propaganda razzista e coloniale di Hollywood nei confronti dei nativi si è sedimentata nell’inconscio collettivo tanto occidentale quanto americano, a tal punto che gli indigeni oltre ad essere reclusi nelle “riserve” vengono continuamente discriminati, marginalizzati e considerati inferiori. Condizione che spesso sfocia nell’alcolismo e nel consumo di droghe, problematiche sociali per le quali a loro volta i nativi vengono ancor più discriminati nella società americana. Hollywood è stato in grado, esattamente come il colonialismo del 1500, a riprodurre le stesse tattiche comuni a tutti gli invasori: la denigrazione del nativo, la sua giustificazione e la sua normalizzazione.

L’inferiorizzazione di un popolo è la propaganda che gli oppressori usano per influenzare e convincere l’opinione pubblica che le loro politiche razziste e genocide siano “giuste” e incriticabili.

La stessa rappresentazione discriminante, brutale, razzista e coloniale l’ha data anche il sionismo verso i palestinesi attraverso incessanti settant’anni di hasbara israeliana, ovvero la propaganda dello Stato sionista volta a diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e sulle sue azioni, con il fine di promuovere un’immagine positiva di fronte all’opinione pubblica internazionale e per contrastare quelli che giudicano tentativi di “delegittimazione di Israele”. 

Ad oggi, la falsa e distorta visione dell’occidentale medio che associa spontaneamente gli “arabi” con i termini “incivili” e “barbari” se non con l’espressione “terroristi e fondamentalisti islamici” è da incolpare in parte all’hasbara israeliana che ha fatto di tutto per paragonare Israele ad un baluardo occidentale in Medioriente e, come tale, anche “l’unica democrazia del Medioriente”.

In questi settant’anni Israele e il mainstream eurocentrico hanno sempre parlato di Palestina in termini di “guerra”, “caos” se non di una terra che è causa dei suoi mali in quanto abitata da “violenti” che odiano l’Occidente e la presunta “civiltà democratica” importata da Israele. I palestinesi non sono mai stati visti come popolo con un proprio patrimonio culturale e che resiste contro uno Stato occupante, ma bensì come “terroristi” vestiti di kefiah e distasha che montano cammelli, che non si integrano nella società moderna e che, al posto di sedersi diplomaticamente intorno ad un tavolo, usano il tritolo per far valere le loro ragioni. Nulla di più falsificato e distorto. Questa immagine che il mainstream ha sempre trasmesso dei palestinesi, compresi anche i popoli arabi che hanno visto la guerra, è servita da giustificazione sia dell’embargo su Gaza, sia della costruzione illegale del muro cisgiordano, sia della continua colonizzazione da parte d’Israele con gli insediamenti illegali negli ultimi 56 anni.

La propaganda d’altronde agisce sugli immaginari ideali delle persone ed una volta conquistati, si è raggiunto l’obiettivo.

Settler colonialism, tra la colonizzazione dell’Abya Yala e il colonialismo sionista

Recentemente si è assistito al consolidamento in ambito accademico dei settler colonial studies come campo di ricerca a sé stante anche con il proliferare di conferenze, studi e dibattiti. I settler colonial studies concepiscono il “colonialismo di insediamento” come una tipologia di dominio che si pone come obiettivo l’eliminazione dei nativi e la loro sostituzione con “comunità esogene” portatrici di istanze esclusive di sovranità. Il “colonialismo di insediamento” risponde a una logica di eliminazione, in quanto mira alla terra del colonizzato. Le società nate dall’insediamento coloniale erigono una serie di meccanismi e di strutture che, sebbene possano manifestarsi in forme diverse (dal genocidio alla pulizia etnica, dalla segregazione all’assimilazione), sono fondamentalmente improntate a una logica di eliminazione dei nativi dalla loro terra. Il settler colonialism, sebbene sia una terminologia contemporanea, è stato lo stesso che applicarono i colonizzatori inglesi, spagnoli e portoghese contro tutte le popolazioni indigene d’America.

I colonizzatori utilizzarono diversi metodi di eliminazione dei nativi e della loro cultura: pulizia etnica, spostamento dalle loro terre, distruzione dell’habitat, caccia intensiva ai bisonti fonte di sostentamento dei nativi del Nord America, riduzione in schiavitù, sterminio attraverso il lavoro nella costruzione di grandi grattacieli in quanto gli indigeni non soffrivano di vertici a causa delle alture a cui erano abituati, induzione di scontri fra tribù ed etnie (divide et impera), sterilizzazione forzata o attuata con l’inganno, atti violenti di provocazione, sacrilegio e oltraggio a membri della tribù (in modo da provocare appositamente la reazione violenta dei nativi), per poterli così perseguitare “con giustizia e ragione” e giustificare la violenza contro di loro come “repressione di popoli barbari e bestiali”). Non solo, i colonizzatori intensificarono guerre aperte con l’uso delle tecnologie più moderne, come le mitragliatrici, commisero omicidi mirati di capi carismatici e uccisioni deliberate di bambini nativi catturati oltre alle marce forzate di trasferimento attuate sotto la neve e il freddo.

Alcuni tratti fondanti del modus operandi del “colonialismo di insediamento” li possiamo notare anche nello studio della storia del sionismo e della questione palestinese. Lo storico Ilan Pappe nel suo libro “Pulizia etnica della Palestina” cita e racconta delle iniziali pulizie etniche ad opera di terrorista ebrei sionisti dell’Haganah e dell’Irgun contro i nativi palestinesi già a partire dagli anni Trenta e Quaranta, quando ancora la Palestina era sotto il protettorato del colonialismo britannico. In una intervista a Il manifesto la regista israeliana Hadar Morag ha raccontato la colonizzazione ebraica della Palestina attraverso l’esperienza di sua nonna che era un’ebrea europea: “Quando mia nonna arrivò qui (in Israele), dopo l’Olocausto, la Jewish Agency le promise una casa. Non aveva niente, tutta la sua famiglia era stata sterminata. È rimasta in attesa per lungo tempo in una tenda, in una situazione estremamente precaria. La portarono quindi ad Ajami, a Jaffa, in una stupenda casa sulla spiaggia. Vide che sul tavolo c’erano ancora i piatti degli arabi che ci abitavano e che erano stati cacciati via. Allora lei tornò all’agenzia e disse: riportatemi nella tenda, non farò mai a qualcun altro ciò che è stato fatto a me. Questa è la mia eredità, ma non tutti hanno fatto quella scelta. Come possiamo essere diventati ciò che avversavamo? Questa è la grande domanda”1.

I sionisti, dagli anni Quaranta in poi, hanno costretto i palestinesi allo spostamento dalle loro terre prima con la Nakba del 1948 con la dispersione di palestinesi tra Siria, Egitto, Giordania e Libano, ed oggi con la deportazione di gazawi verso l’Egitto, alle porte di Rafah, e il Sinai. Il colonialismo israeliano ha sradicato intere piantagioni di ulivi, di palme da dattero e di za’atar che sono state e sono fonti di sostentamento per l’economia di sussistenza palestinese, oltre ad aver distrutto il loro habitat contribuendo alla crisi ecologica nei territori palestinesi. Israele ha indotto la logica del divide et impera a tal punto che la leadership palestinese è fortemente indebolita a causa del dualismo politico tra il governo di Hamas nella Striscia di Gaza e il governo collaborazionista dell’Autorità Nazionale Palestinese che consiste sostanzialmente solo nella ordinaria amministrazione municipale le cui direttive provengono da Israele. Per non parlare inoltre, dagli Accordi di Oslo del 1993 in poi, dei progressivi atti violenti di provocazione, profanazione dei luoghi di culto palestinesi sia musulmani sia cristiani e l’oltraggio a membri importanti della società palestinesi in modo da provocare appositamente le loro reazioni violente, per poi poterli perseguitare, rinchiudere nelle loro carceri e giustificare la violenza contro di loro in nome della “legittima difesa dello Stato d’Israele”. Israele da decenni – e a maggior ragione oggi con il genocidio contro Gaza – coinvolge la popolazione palestinese in un conflitto asimmetrico dove da un lato il suo esercito (IDF e IOF) utilizza tecnologie militari sempre più moderne con omicidi e femminicidi politici mirati di leader carismatici/che e uccisioni deliberate di bambini, mentre dall’altro la resistenza palestinese continua a difendersi con armi e missili rudimentali ed artigianali che non possono competere con la capacità militare israeliana.

Ad oggi, la logica di eliminazione sionista dei nativi palestinesi si è manifestata e si manifesta attraverso diverse forme: la creazione di un insediamento ebraico separato ed esclusivo durante il periodo del Mandato britannico, l’espulsione di massa e manu militari dei nativi dalla terra nel 1948 e nel 1967, il memoricidio (la distruzione fisica del patrimonio culturale e la cancellazione di ogni traccia della presenza nativa), la separazione/segregazione legale, fisica e spaziale, le politiche di de-sviluppo economico, la retorica e le pratiche discriminatorie e disumanizzanti, la negazione del “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi e la soppressione brutale di ogni forma di resistenza. Esattamente come la colonizzazione europea ha portato alla cancellazione dell’eredità storica, culturale e tradizionale legata a spiritualità ancestrali native nordamericane in favore del missionaresimo cristiano, l’identità storica, culturale e spirituale dei palestinesi è messa in continuo pericolo a causa delle ebraicizzazioni forzate dei quartieri da parte dei coloni israeliani in terre palestinesi, che spesso si concretizzano in episodi di profanazione di luoghi sacri come moschee e chiese.

Nei settler colonial studies il sionismo è considerato come una forma di colonialismo di insediamento che mira ad impossessarsi della terra e a sbarazzarsi della popolazione indigena. Questa lettura presenta importanti implicazioni concettuali (Salamanca et al. 2013) in quanto restituisce un quadro più coerente sulla natura coloniale della violenza in Palestina, ridimensionando da un lato ricerche sempre più settorializzate, parziali e frammentate, che insistono su un singolo aspetto del conflitto, dall’altro visioni basate su una falsa simmetria tra ebrei israeliani e palestinesi, considerati come parti con ruoli uguali all’interno di un conflitto, invece che nella dicotomia coloni/nativi tipica delle società nate dall’insediamento coloniale. I settler colonial studies hanno inaugurato una serie di studi comparati che mettono Israele a confronto diretto con le pratiche di spossessamento e incorporazione violenta portate avanti da altre società nate dall’insediamento coloniale europeo, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e il Sud Africa.

Non dimentichiamo che, appena arrivati, i colonizzatori in America pensarono subito a come sfruttare quelle terre e a come impossessarsene senza domandarsi se quelle terre fossero abitate da qualcuno. Le pratiche di spoliazione e le imprese colonizzatrici vennero giustificate con la scoperta della “terra vergine”, quindi palesemente inutilizzata, appellandosi al mito della “terra senza popolo a un popolo senza terra”, ai principi della terra nullius o al “mito della frontiera”, ovvero il vacuum domicilium, con tutte le pretese di eccezionalismo storico e di evangelizzazione di quelle terre. Nel 1507 il cartografo tedesco Martin Waldseemüller definì l’insieme delle terre indigene americane come “America” in onore dell’esploratore italiano Amerigo Vespucci, ignorando che tutte le popolazioni indigene americane usassero l’espressione “Abya Yala” per indicare la totalità del continente americano1. Lo stesso è successo con la colonizzazione da parte di ebrei ashkenaziti e sefarditi che, dall’Europa, hanno pensato di impossessarsi di una terra che secondo loro non era di nessuno e che loro potevano rivendicare in base ad una diaspora ebraica avvenuta nel 70 d.C. Così si abbandonò il termine “Palestina”, nome che definiva geograficamente quella terra fino al 1946, e il nome cambiò in “Israele” ufficialmente dal 1949.

Anche se mettiamo a confronto le mappe geografiche che testimoniano la rarefazione delle terre indigene solo negli USA e l’espropriazione delle terre dei nativi in Palestina, notiamo che c’è una costante: popoli autoctoni in perfetto equilibrio con la Natura che con il passare degli anni subiscono colonialismo, razzie, discriminazione, marginalizzazione, criminalizzazione, il depauperamento delle proprie terre, distruzione delle loro economie locali e cancellazione della loro eredità storica, culturale e tradizionale.

Esattamente come il continente americano è stato diviso dai colonizzatori con confini tirati a tavolino con squadra e righello, le terre indigene nei secoli si sono ridotte a lembi di terra sempre più ristretti in cui i nativi sono stati rinchiusi come animali selvatici negli zoo.

Le attuali 326 “riserve indiane” negli USA, poste sotto il controllo dell’Agenzia degli Affari Indiani e dei governi degli Stati federati, ricordano un po’ le risicate terre palestinesi a macchia di leopardo presenti in Cisgiordania o, ancora peggio, ricordano i campi profughi che da abitazioni posticce sono diventati vergognosamente dei veri e propri centri abitativi, o addirittura l’attuale colonizzazione di Gaza da parte d’Israele dall’ottobre 2023 e le vergognose dichiarazioni dei leader del movimento dei coloni ebraici.

Gaza deve essere rasa al suolo così che i coloni possano vedere il mare. La situazione necessita di finire. Cosa facciamo nel Nord di Gaza? Evacuare Gaza dagli arabi e costruire insediamenti ebraici in tutta Gaza perché i coloni della Striscia di Gaza vogliono vedere il mare. Per vedere il mare tutte le case di gaza deve essere distrutte. Non ci sono case o arabi lasciati a Gaza. Questa è una richiesta logica e romantica: i coloni vogliono vedere il mare. Come loro vedranno il mare? Noi dobbiamo distruggere il Sud di Gaza in modo che possiamo vedere il mare. (…) Gaza è una città ebraica, Gaza non è una città di Hamas. Gaza è una delle città di Israele. Noi dobbiamo semplicemente ritornare là. Si è verificato uno sbaglio storico e adesso lo correggiamo.” – Questo è quanto dichiarato in una intervista televisiva da Daniella Weiss, leader del movimento di coloni israeliani che vuole colonizzare Gaza. Israele si ispira giustamente al “sogno americano” delle libertà per pochi, della ricchezza per pochi e dell’eguaglianza tra pochi. Il tutto rigorosamente nel nome della “civilizzazione” con un ruolo salvifico sul mondo.

La “Palestina futura” come una riserva Lakota o un bantustan?

L’interpretazione del sionismo attraverso le lenti del “colonialismo di insediamento” ha importanti implicazioni politiche: gli strumenti tradizionali della risoluzione dei conflitti (compromesso territoriale, negoziati, misure per la costruzione della pace e il rafforzamento della fiducia) risultano inefficaci in una situazione di colonialismo di insediamento, che richiede invece un processo di decolonizzazione che smantelli l’ideologia e la struttura che riproducono la dicotomia colono/nativo.

Nel frattempo il genocidio della popolazione gazawi avanza nell’ipocrisia occidentale. Venerdì 5 aprile, la guerra genocida israelo-statunitense sulla Striscia di Gaza, appoggiata dall’Europa, è entrata nel 182° giorno. Gli attacchi aerei e di artiglieria hanno continuato a colpire e a massacrare civili, soprattutto bambini e donne. Secondo il ministero della Salute di Gaza, il bilancio delle vittime è di 33.091 palestinesi uccisi e 75.750 feriti negli attacchi israeliani a Gaza dal 7 ottobre.Il ministero ha inoltre sottolineato che molte vittime rimangono intrappolate sotto le macerie e nelle strade, poiché le équipe mediche non riescono a raggiungerle.L’esercito di occupazione israeliano (IOF) ha continuato ad attaccare diverse aree di Gaza, uccidendo e ferendo decine di cittadini, nonostante la risoluzione1 vincolante del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) per un cessate il fuoco immediato per il mese del Ramadan2.

Nuovi attacchi aerei sono stati lanciati anche nel nord di Gaza, prendendo di mira le città di Sheikh Zayed, Jabalia e Beit Lahia. Nel frattempo, l’artiglieria israeliana ha bombardato la parte orientale di Khan Yunis e di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove è confluita ormai la maggior parte della popolazione gazawi.

Fonti locali hanno riferito che aerei da guerra israeliani hanno preso di mira il quartiere di Tal al-Hawa a ovest della città di Gaza, mentre artiglieria e bombardamenti aerei hanno colpito i quartieri sud-occidentali e sud-orientali della città di Khan Yunis e la parte orientale del campo profughi di al-Maghazi, nel centro di Gaza. Nelle ore precedenti, il fuoco dell’artiglieria israeliana ha preso di mira le aree di Qleibo e Sheikh Zayed a Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza, in concomitanza con la continua distruzione di case residenziali nella zona centrale e occidentale di Khan Yunis da parte delle forze di occupazione.

Tale sarà dunque la futura Palestina: una riserva Lakota, un bantustan sudafricano. Se le cose peggioreranno la Palestina non sarà uno Stato con qualche enclave israeliana chiamata a rispondere almeno amministrativamente alla Palestina, ma una serie di enclave palestinesi incuneate nella coloniale Israele. Non si sa con quali mezzi bellici Gaza sarà disarmata e le sue ribellioni sedate. A ciò si aggiunga il grande obiettivo di Netanyahu: l’annessione della Valle del Giordano “per motivi di sicurezza”, come avevano annunciato nel febbraio 2020, in tempi non sospetti, lo stesso Netanyahu e il suo “grande avversario” Benny Gantz. Poi penserà anche al Golan siriano, che Israele occupa e rivendica la sua sovranità.

Ad oggi bisogna chiedersi quali reali soluzioni ci siano per la Palestina e se la comunità internazionale voglia permettere che si riduca ad un piccolo insieme di “riserve indiane” circondate da un potente Stato occupante che continui a non pagare per le sue responsabilità e che si continui ancora ad autodefinirsi “democrazia”.

Fonti:

https://www.infopal.it/i-palestinesi-sono-i-nativi-americani-non-i-pellerossa-e-ora-di-sdoganare-il-linguaggio/

https://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/309-topnews/98856-roger-waters-genocidio-palestinese-come-quello-dei-popoli-nativi-americani.html

https://contropiano.org/news/internazionale-news/2021/01/29/come-la-bandiera-israeliana-e-diventata-simbolo-dei-nazionalisti-bianchi-0135855

https://ilmanifesto.it/hadar-morag-il-trauma-toglie-la-parola-ma-bisogna-fermare-la-guerra

Walter D. Mignolo, The Idea of America, Blackwell Publishing 2005



Bartolomei, Enrico. 2021. Sionismo come colonialismo di insediamento. La ridefinizione del discorso su Israele/Palestina. America Critica 5 (2): 171-177. https://doi.org/10.13125/americacritica/5071

https://contropiano.org/news/internazionale-news/2021/01/29/come-la-bandiera-israeliana-e-diventata-simbolo-dei-nazionalisti-bianchi-0135855

Lorenzo Poli

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

Versione interattiva https://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-aprile-2024/

Archivio https://www.lavoroesalute.org/

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