Inceneritori e accesso ai dati su mortalità e malattie: la “storica” sentenza del Tar Piemonte
I dati epidemiologici di chi risiede nei pressi di un impianto che brucia rifiuti sono “informazioni ambientali”, quindi la Pubblica amministrazione deve consentirne l’accesso. I giudici amministrativi danno ragione al Coordinamento lecchese rifiuti zero contro l’Università di Torino. Un precedente importante a livello nazionale
I dati che riguardano la mortalità e la frequenza di malattie di chi risiede nei pressi di un impianto di incenerimento di rifiuti sono “informazioni ambientali” e pertanto la Pubblica amministrazione deve consentirne l’accesso. Senza mettere ostacoli. È un precedente a suo modo “storico” la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Piemonte pubblicata a metà febbraio di quest’anno -e passata decisamente in sordina- relativa a un ricorso promosso dal Coordinamento lecchese rifiuti zero contro l’Università degli Studi di Torino.
I fatti. La vicenda giudiziaria parte da un articolo scientifico pubblicato sulla rivista di settore Epidemiologia e Prevenzione (maggio-giugno 2022) e intitolato “Effetti sulla mortalità e morbilità nella popolazione residente nei pressi dell’inceneritore di Valmadrera (provincia di Lecco)”, in cui l’autore (Cristiano Piccinelli, non costituitosi in giudizio) si firma quale collaboratore del “Dipartimento di scienze cliniche e biologiche, Università degli Studi di Torino”. L’articolo si riferisce a uno studio epidemiologico condotto dall’Università di Torino insieme all’Agenzie di tutela della salute della Brianza su mandato dei sindaci dei Comuni della provincia di Lecco, centrato sugli effetti sulla salute della popolazione residente nel territorio circostante delle emissioni provenienti dall’inceneritore gestito a Valmadrera (LC) dalla società pubblica Silea Spa (6,2 milioni di euro di utili nel 2022 e quasi 100mila tonnellate di rifiuti bruciati). Il contratto risale all’aprile del 2016 ed è stato emendato nell’ottobre 2017.
Per verificare la correttezza delle conclusioni esposte dall’autore dell’articolo -che non avevano “messo in luce una relazione tra residenza in aree a differente ricaduta di inquinanti emessi dall’impianto e insorgenza di patologie plausibilmente riconducibili a tale esposizione-, il Coordinamento lecchese rifiuti zero, da anni impegnato per la tutela dei cittadini e dell’ambiente dai possibili effetti dannosi dell’impianto di incenerimento dei rifiuti di Valmadrera, formula nei confronti dell’Università di Torino una richiesta di accesso alle informazioni ambientali, ai sensi del decreto legislativo 195/2005 (l’attuazione della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale). Oggetto della richiesta di accesso era una serie di dati sulla formazione e strutturazione delle coorti oggetto di studio, con indicazione anche di misure idonee a garantirne l’anonimato dei cittadini a cui si riferivano (dal genere del soggetto all’anno di nascita anonimizzato, aggiungendo in modo casuale un numero tra -4 e +4 all’anno di nascita, etc.).
L’Università di Torino però non dà alcun riscontro e così l’associazione ambientalista, rappresentata dall’avvocato Marco Longoni, decide di ricorrere al Tar Piemonte, siamo nel settembre 2022, chiedendo la “declaratoria dell’illegittimità del silenzio” opposto dall’Università e la sua relativa condanna alla ostensione dei documenti e dati richiesti. Cioè a “tirare fuori” i dati epidemiologici (debitamente anonimizzati).
L’ateneo, difeso dai legali Beatrice Sciolla e Beniamino Maccarone, si oppone e si difende anche nel merito, sostenendo che i dati richiesti dall’associazione siano dati personali, in parte anche “sensibili” (dati relativi alla salute), non qualificabili come “informazioni ambientali” e quindi non soggetti al diritto di accesso. Il Tar però le dà torto e riconosce la fondatezza del ricorso del Coordinamento.
Alcuni passaggi delle motivazioni dei giudici della Sezione seconda aiutano a capire come funziona -e dovrebbe funzionare sempre- la normativa. “La richiesta di accesso ambientale è del tutto svincolata da motivazioni precise e dalla dimostrazione dell’interesse del singolo, in quanto l’informazione consente, a chiunque ne faccia richiesta, di accedere ad atti o provvedimenti che possano incidere sull’ambiente quale bene giuridico protetto dall’ordinamento, con l’unico limite delle richieste ‘estremamente generiche’, posto che i dati oggetto di istanza devono essere specificamente individuati con riferimento alle matrici ambientali ovvero ai fattori o alle misure che vi possono incidere, nonché allo stato della salute umana e delle condizioni di vita”.
I giudici hanno ritenuto infatti che “I dati relativi alle coorti di popolazione posti alla base di uno studio epidemiologico sugli effetti delle emissioni di una discarica (inceneritore) di rifiuti costituiscono a pieno titolo informazione ambientale strettamente connesse con i riferimenti appena richiamati”, specificando che “i dati relativi alla popolazione oggetto di studio sono pertanto direttamente connessi sia con i fattori ambientali che con lo stato di salute e sicurezza umana di cui all’art. 2, comma 1 lett. a) del decreto legislativo 195/2005 e sono riconducibili alla nozione di informazione ambientale”.
L’Università viene perciò condannata a fornire i dati, tutelando la riservatezza delle persone fisiche cui si riferiscono con anonimizzazione e pseudonimizzazione. La partita non è naturalmente finita qui perché è adesso che si apre una finestra “nuova” e inedita per cittadini e associazioni, nonché per le amministrazioni comunali più attente, per poter realizzare in proprio degli studi sugli effetti di particolari impianti o sorgenti ambientali (si pensi al traffico). A patto di cogliere l’occasione ribadita dalla sentenza del Tar Piemonte.
Duccio Facchini
25/7/2023 https://altreconomia.it/
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