INDIVIDUI E PSICOSI SOCIALE

occhio

Psicosi.

Per molti è “la fine”.

E non parlo dei “malati” che non si riconoscono facilmente nella malattia. È la fine per i familiari a cui gli psichiatri e spesso molti psicoterapeuti dicono che non c’è più speranza.

La psicosi o schizofrenia è considerata una necrosi della mente, l’impossibilità della ratio, della “normalità, un’assenza di senso bizzarra, incomprensibile.

Sono pochi i professionisti della salute mentale che credono nella possibilità della cura e guarigione dalla psicosi, dalla schizofrenia.

Recentemente il National Institute of Mental Health (NIMH), la struttura pubblica che fa parte dell’agenzia governativa che si occupa della salute negli Stati Uniti ha dimostrato, grazie ad un progetto  Recovery After an Initial Schizophrenia Episode (RAISE) che la schizofrenia è curabile con la psicoterapia se la cura viene intrappresa in fase iniziale.

La difficoltà ad approcciare alla cura del disagio mentale grave è principalmente legata al fatto che la medicina e l’anatomia ebbero come primi soggetti d’indagine dei cadaveri.

Il corpo deceduto impediva lo studio della vita nel corpo e ha portato il medico a ritenerlo simile ad un robot che risponde ad una centralina che dà indicazioni.

La mente viene ritenuta rispondente ad un cervello irrorato correttamente e da quì la malattia mentale legata ad un corretto funzionamento neurologico.

Il corpo e la mente separati da una filosofia razionalista diventano entrambi osservabili dall’esterno: il vivo osserva la morte, l’assenza di movimento e decreta la possibilità di controllo della mente e del corpo ad opera dell’uomo occidentale, del farmaco, della chirurgia.

Come se la vita fosse nel cuore o il pensiero nella testa!

Nessuna umiltà nei confronti della materia e delle sue risorse!!!

Trenta anni fa Vezio Rugieri alla cattedra di Psicofisiologia Clinica della Sapienza insegnava ai suoi studenti come il pensiero non fosse nella mente ma una sintesi del mente-corpo. La periferia del corpo – recettore riceveva informazionisensoriali e il cercello le traduceva in concetto, perchè il corpo è vivo e la mente è emozione.

E se riusciamo ad integrare mente e corpo anche nel senso forse possiamo dare un senso al dolore e non aggiungere ad esso la sofferenza.

Sembra così complicato e invece è semplicemente umano.

Dolore e sofferenza: l’uno nel corpo, la seconda è un pensiero sul dolore. Il farmaco è una droga che disorienta la percezione di sè, che favorisce l’assenza, un pensiero statico, immobilizzato dalla paura del dolore e della sofferenza.

Il farmaco cristallizza la paura, seda il coraggio, ammansisce la tigre interiore quella fatta di rabbia e potenzialità espressive, forse spaventose, diverse ma vive, vivissime.

Il farmaco allenta la velocità della connessione neurologica sfavorendo diversi livelli di eccitazione cerebrale, può sedare in parte il delirio ma non cura, tutt’altro:debilita, disabilita.

È importante nell’emergenza ma laddove viene usato come terapia è rinuncia alla cura.

Il nostro contesto sanitario ha scelto il farmaco come soluzione frettolosa e sbrigativa. Ha legittimato la delega al farmaco e delegittimato lo studio e l’approfondimento della cura delle emozioni, della capacità di affrontare con le nostre parti adulte quelle invece piccole, immature, delicate, ferite, la fragilità dell’io, di un mondo interno gravemente danneggiato.

Eppure si può. Ci sono terapeuti, solitamente i più giovani, che credono nel’Uomo e nella Donna, nelle loro risorse, nella relazione terapeutica, nella cura dei fantasmi nella stanza del bambino. Si sono formati vicino a fonti di presenza mentale, di lavoro importante su se stessi, laddove si crede nella crescita prima di tutto personale, si combatte per risolvere, con determinazione e studio, lontani da palcoscenici e luoghi della competizione intellettuale , alla ricerca del vivere e non del legittimare sconfitte dietro alibi autoreferenziali.

Le strategie possono essere le più diverse: gli approcci terapeutici sono numerosi e laddove il terapeuta crede nel proprio approccio e nelle risorse del paziente, nell’ascolto partecipe e presente, le possibilità sono molteplici.

Sperimentare la cura e lasciare che abbia effetto; credere nella possibilità della presenza prima di tutto cinestesica, poi rappresentativa e infine di senso laddove per “senso” si intende la relazione possibile, il coraggio dell’eteroappogio e poi dell’autoappogio… perchè tutto inizia dalla possibilità di un contatto, dallo sperimentare un contatto accogliente, aperto, fiducioso, possibile.

Si tratta di credere nell’Uomo e nella Donna; lo so, l’ho già scritto.

Il coraggio di sfidare il dolore e la sofferenza senza temere e stare con se stessi e l’altro.

Deborah Carta

Psicologa, psicoterapeuta. Collaboratrice redazione del periodico Lavoro e Salute

28/12/2015

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Deborah Carta E’ psicologa, psicoterapeuta, psicofisiologa clinica ed arteterapeuta. Laureata in Psicologia Clinica e di Comunità. Specializzata in Psicoterapia Psicanalitica dell’Infanzia, Adolescenza e Coppia e in Psicofisiologia Clinica integrata e Artiterapie. Sarda, esercita la libera professione a Sassari e Cagliari. E’ vicepresidente dell’associazione Ebagiara – http://ebagiara.jimdo.com/ – Centro per la sostenibilità ed il bene-essere in ambiente urbano. Si occupa di relazione tra mente, corpo e ambiente; lavora alla crescita dell’individuo, alla costruzione della relazione tra individui, alla costruzione del gruppo, alla relazione del gruppo con il contesto sociale, umano e professionale. Progettista in contesti multiproblematici. È animatore/facilitatore degli incontri con tecnica EASW e applicazione di metodologie esperienziali innovative, progettazione esecutiva del percorso, esperto in gestione di gruppi di lavoro, costruzione di reti di collaborazione e cooperazione tra attori sociali, operatori economici ed organismi pubblici, di reportering ed analisi risultati, di networking post- eventi e supporto disseminazione sul WEB.

deborahcarta@live.it

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