Industria 4.0 e dintorni

1) La spinta alla integrazione di uomini e cose nel suo sistema economico e sociale. ha caratterizzato il capitalismo fin dalle origini. La sua stessa esistenza si è storicamente definita come modifica incessante delle relazioni sociali e degli strumenti che producono crescita e ricchezza. E tali modifiche si sono puntualmente infittite nelle fasi di crisi: sia per risolverle, sia per conviverci continuando comunque ad incrementare i profitti.

Ad esempio, durante la crisi del 2008 si sono messi sotto controllo gli istituti finanziari, sono state incrementate l’automazione e la digitalizzazione nella produzione di merci e servizi e si è “snellito” la spesa sociale, peggiorando complessivamente le condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne.

Anche oggi, con l’affanno di sanità ed economia per la epidemia di Covid19, il capitale sta modificando la società: da un lato, accelerando ulteriormente i processi che erano in corso; e, dall’altro, sospendendo parte delle logiche macroeconomiche neoliberiste e varando provvedimenti di tipo keynesiano.  

La storia passata ci insegna che il capitalismo, nonostante i pesantissimi costi sociali che provoca e i milioni di morti per le tante piccole e grandi guerre; nonostante il peggioramento visibile delle condizioni di vita delle classi subalterne e i disastri ambientali generati dal suo sistema onnivoro di appropriazione della ricchezza, è sempre uscito dai periodi di crisi rimodellando la società attorno a sé e ponendosi come visibile sintesi degli interessi generali.

Anzi, il capitalismo si è costantemente rafforzato negli ultimi cento anni, nonostante il movimento operaio lo considerasse “putrescente”, e nonostante il fatto che ancora la gran parte dei soggetti politici che meritoriamente lottano per una società alternativa siano convinti che il sistema “non possiede più alcuna forza espansiva, è privo di capacità di presa sul mondo e non ha alcuna possibilità di controllo dei fattori economici e sociali”.

Si tratta di una idea assolutamente riduttiva del capitalismo, che non solo cozza vistosamente con la realtà dei fatti, ma porta anche a distorsioni logiche nell’analisi delle “nostre sconfitte”, le quali non possono essere spiegate col “fattore morale”, con la categoria semplicistica del “tradimento”. Difatti, prima ancora di perdere il confronto con il capitale e i suoi governi sul piano politico, il movimento operaio e dei lavoratori del secolo scorso è stato disarticolato dalle ristrutturazioni tecnologiche.

2) C’è poco da fare: le differenze di oggi rispetto al Novecento ci consegnano questioni inedite. Non le possiamo risolvere solo ripigliando in mano “i sacri testi”.

Va considerato, infatti, che ora, diversamente dal secolo scorso, abbiamo tutto il campo sociale ed economico occupato dal sistema capitalistico. Ogni interstizio viene intrecciato, attraverso mille fili, al “rapporto sociale di capitale”. Anzi, tutta l’attività umana è attualmente a disposizione del capitalismo, che utilizza ed ingloba anche fattori che prima si collocavano fuori dall’economia in senso stretto. Qualunque cosa giri attorno alla condizione umana tende a divenire sia merce che fattore produttivo.

Così, nel sistema economico capitalistico, attraverso “l’individuo produttivo sociale” vengono ricompresi: le piattaforme social, i servizi, lo sport, gli svaghi, i momenti di relax, l’arte, la cultura, le bellezze naturali, gli squilibri economici. Finanche “l’arretratezza dei territori” diventa strumento utile per incrementare il valore del capitale totale.

Ovviamente, questa capacità pervasiva del capitalismo si vede con maggiore evidenza nella struttura del sistema produttivo, nelle trasformazioni continue delle procedure di lavoro, del mansionario, della tempistica, dell’interfaccia tra lavoratori e macchinari. Nonostante la pandemia, ed anzi grazie a quest’ultima, c’è soprattutto una formidabile accelerazione dell’automazione industriale, quella che i giornali chiamano industria 4.0; mentre negli uffici e nei servizi alla collettività, viene sempre più praticata la digitalizzazione con l’uso dello smart working (che, oltre a precarizzarli, frantuma i legami fra i lavoratori).

Siamo probabilmente alla vigilia di una nuova rivoluzione tecnologica, con l’uso intensivo dei robot e con la finalizzazione produttiva della ricerca scientifica e dei fondi pubblici.

Chiariamoci: già da diversi anni nelle fabbriche molte attività manuali ed intellettive sono state aggredite e si sono sostituiti i lavoratori con le macchine; ma la novità del nuovo modo di produrre non è l’automazione in sé, bensì l’interconnessione. È, in particolare, la capacità di servirsi di un insieme di dati che vengono dall’esterno e di far interagire con essi il sistema produttivo, con tutto ciò che gira intorno.

3) La pratica attiva della “interconnessione” genera le stesse idee per l’innovazione: sia per quanto concerne la competizione sul mercato e sia per la ricerca di prodotti, servizi e modelli che soddisfino i bisogni individuali e sociali. Secondo studi di parte padronale, le idee innovative provengono per il 30% dai dipendenti dell’azienda e per il 70% dall’esterno, ossia dal territorio e dall’universo-mondo.

L’ industria 4.0, dunque, non è soltanto “una macchina più evoluta”; è, piuttosto, un insieme complesso di fattori, che vanno dai robot capaci di collaborare con l’uomo a un più continuo flusso di comunicazioni che arrivano dall’esterno; e che si traducono in una maggiore torsione delle condizioni lavorative, con tutta la flessibilità permessa dalle nuove tecnologie. Quest’insieme di elementi interconnessi – composto da uomini, macchine, prodotti, consumatori, rapporti sociali, e quant’altro – potrà generare una potenza produttiva davvero gigantesca, mai realizzata nella storia del capitale.

D’altronde, il capitale è andato avanti sempre su entrambe le gambe: da un lato lo sfruttamento dei lavoratori; dall’altro, l’espansione mondiale del suo sistema produttivo e sociale, con l’apertura di nuovi mercati, con trasporti e comunicazioni più veloci, con continui nuovi prodotti, con l’allargamento della catena del valore, eccetera.

In questo quadro di continuo cambiamento, il movimento operaio e i lavoratori hanno visto venir meno, proprio negli ultimi decenni, gli strumenti con cui si battevano, in particolare le rigidità lavorative e contrattuali del modello tayloristico. Ed ora, quando provano a rilanciare le tradizionali modalità di conflitto e di contrattazione, nella maggioranza dei casi si ritrovano perdenti, o senza sbocchi effettivi per la debolezza delle proposte.

4) Di fatto, oggi come oggi, il tradizionale confronto tra sfruttati e sfruttatori non può che subire trasformazioni profondissime, in quanto si misura più sui parametri della riproduzione (cioè sull’esistenza del lavoratore) anziché sulla produzione sociale. Al conflitto fatto per luoghi di lavoro, per categorie, per mansioni, per qualifiche, per produttività individuali, viene a mancare letteralmente il terreno sotto i piedi, poiché la produttività che ciascun segmento di lavoro può dare è già inesorabilmente ricompresa, fin dall’inizio, nel ciclo produttivo generale, al quale concorre indipendentemente da qualsiasi scambio contrattualizzato.

Non sono più dunque, questi, i tempi del “controllo operaio” nei luoghi di lavoro, poiché la tecnologia, le innovazioni, la flessibilità, la produzione sociale, l’integrazione tra politica, economia e società, la fanno da padrone. Il capitalismo ha occupato tutti gli ambiti del vivere sociale e trasforma in merce tutto ciò che ci circonda. In questa situazione, anche se non mancano contrapposizioni interne al sistema – come, ad es., tra liberismo e politiche keynesiane –, comunque si fermano davanti al principio inderogabile della flessibilità dei fattori social. E lo stiamo vedendo anche nell’attuale fase pandemica.

In sostanza, nella realtà odierna l’unica cosa che resiste alla continua metamorfosi in merce e fattore produttivo è la dimensione culturale e morale incentrata sul “senso dell’umano”. Essa si annida spontaneamente nell’animo umano ed è la contraddizione insanabile più grande e significativa che c’è tra l’umanità ed il capitale. Da qui occorre partire per qualsiasi orizzonte di cambiamento.

5) Certamente, occorrerà battersi contro i licenziamenti, contro l’abbassamento dei diritti, contro le decurtazioni di fatto del salario ecc. Ma occorrerà farlo consapevoli che su questo piano non si raggiunge nessun mutamento qualitativo dei rapporti di forza con la borghesia. Bisogna invece portare il conflitto, quanto più possibile, dai temi della produzione sociale ai temi della riproduzione della vita materiale e spirituale, incentrandolo su corpo, affetti, cultura e natura; e parlare relativamente meno di lavoratori e più di persone.

Coniugare ed agitare questi aspetti significa richiedere, per esemplificare: nutrimento e tetto per il corpo, mobilità, sviluppo, salute, tempo libero per coltivare gli affetti (e per frequentare spazi ludici riducendo innanzitutto l’orario di lavoro per incontrarsi con la famiglia e con gli altri). Significa anche pieno svolgimento spirituale degli esseri umani, con apprendimento e cultura per tutti, con la libertà del sapere e della ricerca, con la diponibilità piena delle conoscenze sociale.

Inoltre, umanità e capitalismo sono contrapposti frontalmente anche sulla natura: non solo per il degrado che lo sviluppo capitalistico produce, distruggendo l’ambiente con produzioni nocive, superflue ed antinaturali; e  non solo per la sofisticazione alimentare che ci assedia da ogni lato, ma soprattutto per la mancata osmosi  tra uomo e natura. Chiedere un diverso approccio tra l’umanità e la natura è essenziale proprio per non distruggere la vita su questo pianeta.

Insomma, bisogna superare tutte le logiche “sviluppiste” e difensive, basate sullo scambio tra vita e condizioni di lavoro. E dobbiamo soprattutto prospettare come storicamente attuale, e farla vivere nella stessa attualità della politica, una nuova e moderna idea di cittadinanza umana, che abbia come fine la costruzione di quella “nuova umanità“, che il movimento operaio e quelli che si rifanno al pensiero marxista hanno sempre avuto come ideale.

Tonino Tardi

12/27/2020 https://www.lefrivista.it/

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