Infortuni mortali sul lavoro. Alcune riflessioni amare sugli (ultimi?) eventi
La cronaca continua ad anticipare i miei articoli (purtroppo) con uno stillicidio di morti che, quali che siano le statistiche, continua ad essere inaccettabile in quanto assolutamente evitabile, e con poco sforzo. Ci dice l’INAIL che nei primi sette mesi dell’anno le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail sono state 344.897 (in calo del 21,9% rispetto alle 441.451 del periodo gennaio-luglio 2022), di cui 559 mortali (in calo dell’1,8% rispetto ai 569 casi nello stesso periodo dell’anno scorso). Dei casi mortali denunciati, 430 sono in occasione di lavoro e 129 in itinere, ovvero nel tragitto casa-lavoro o viceversa.
Però vediamo anche 12 morti in 48 ore (sette mercoledì 13 e quattro ieri): ieri un 44enne che precipita da un tetto ad Arzano (Na), un 52enne schiacciato da un mezzo in retromarcia la notte all’aeroporto di Bologna, un 66enne (grande, il nostro sistema pensionistico …) investito da un camion in un deposito rifiuti la notte a Napoli, un 29enne travolto da un trattore in retromarcia su una banchina nel porto di Salerno (con un collega gravemente ferito alle gambe), un 47enne caduto all’interno di una cisterna contenente vino e probabilmente annegato, con un collega 31enne seriamente intossicatosi nel tentativo di prestargli soccorso. Una antologia da manuale degli infortuni mortali …
Ma torniamo a parlare in primo luogo di Brandizzo. Al momento, emerge chiaramente come le procedure di sicurezza pur previste per le manutenzioni sulle linee ferroviarie in costanza della circolazione dei convogli, non sono state rispettate, per errore, fraintendimenti, cosciente volontà di aggirarle in quanto rallentanti il lavoro. Nel mio precedente articolo sull’argomento scrivevo che ritenevo improbabile l’accettazione di un rischio così grande, quale quello di iniziare i lavori senza la certezza di ulteriori passaggi di treni in transito, e anzi fidando nella possibilità di evitarli in tempo, a fronte di un risparmio di tempo minimo. A quanto pare, mi sbagliavo; ma se un minimo risparmio di tempo è così importante, al punto da spingere i responsabili (vocabolo che adesso suona beffardo …) a violare dette regole, e a quanto emerge a farlo sistematicamente, c’è evidentemente una spinta fortissima, nella catena di appalti e subappalti, a risparmiare tempo, cioè denaro: la ferrea regola della nostra economia, che spinge a ridurre al massimo i costi per aumentare i profitti, con conseguente regolazione giuridica di appalti e subappalti funzionale a detta legge, difficilmente potrebbe avere una maggiore, plastica evidenza. Sarebbe interessante conoscere i dettagli dei contratti di appalto e subappalto, riguardo a corrispettivi, tempi, penali: a naso, o meglio per esperienza, mi aspetto che emergerebbero condizioni capestro imposte ai soggetti affidatari dei lavori, anche se (almeno teoricamente) specializzati e professionalizzati come richiesto da questo tipo di attività. E sempre in tema di risparmio di costi, non solo il sottoscritto, spero, avrà osservato come la vittima più giovane, 22 anni, lavorava per uno stipendio di 800 euro al mese: per un lavoro pesante fisicamente, pericoloso, svolto tra l’altro in orari notturni. Anche questo elemento la dice lunga sul cosiddetto mercato del lavoro nel nostro paese: mercato appunto, dove il lavoro è una merce, e siccome l’offerta prevale sulla domanda, questa merce vale poco e si vende a condizioni spesso capestro, legali solo grazie ad una legislazione giuslavoristica che quanto a “flessibilità” (leggasi, precarizzazione) non ha eguali in Europa, o illegali, comunque inique (che il lavoro non sia una merce, ben altri che il sottoscritto lo ha evidenziato: mi limito a ricordare qui, tra i tanti, Luciano Gallino, ed il suo omonimo libro “Il lavoro non è una merce”).
Sotto un profilo normativo e tecnico, la strage di Brandizzo ha fatto emergere una serie di elementi che non esito a definire imbarazzanti, in questo 2023. In primo luogo, alla sicurezza in ambito ferroviario non si applica il TU 81/2008: alla bellezza di quindici (quindici!) anni dall’entrata in vigore del Testo Unico 81/2008 non sono ancora stati emanati i decreti che armonizzino le norme del TU con quelle previgenti in materia, cioè la Legge 191 del 1974 ed il relativo regolamento di attuazione DPR 469 del 1979 (i quali, a loro volta, si rifanno all’abrogato DPR 547 del 1955 … come si vede, siamo innovativi). E questo benché il Testo Unico ne prevedesse l’emanazione entro 12 (dodici) mesi …. (e peraltro non è certo l’unico caso di normativa di dettaglio mancante), diventati poi 55 (cinquantacinque), fino a che, a fronte della manifesta incapacità (non trovo altro termine) di farlo, il termine è diventato, nel linguaggio giuridico, ordinatorio: poco più che un consiglio, o un auspicio, senza conseguenze in caso di superamento. Ora tale mancata armonizzazione è evidentemente fonte di molti problemi: ad esempio, mi limito a ricordare che l’unico tipo di lavoro previsto in queste pur superate norme vigenti è quello subordinato, che non è chiaro a chi spetti la vigilanza, e neppure quali siano le sanzioni applicabili, e che problematico è il coordinamento anche con le norme in tema di appalti. Per chi fosse interessato a questi, ed altri aspetti più propriamente giuridici, rinvio all’ottimo, e recentissimo, lavoro di Pascucci “La tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nel settore ferroviario, tra norme generali e norme speciali” (https://journals.uniurb.it/index.php/dsl/article/view/4264/3704).
Da un punto di vista più strettamente tecnico, o se vogliamo contenutistico, abbiamo appreso dalle cronache che le richieste di possibile avvio dei lavori, e relative autorizzazioni in assenza di treni circolanti interferenti con i lavori stessi, erano affidate unicamente a colloqui telefonici, e tra due /tre soli soggetti, la dirigente movimento della stazione più vicina, il responsabile locale della RFI (cioè di chi gestisce la rete) ed il capocantiere della ditta appaltatrice. Null’altro, e senza alcun ulteriore controllo, e in totale assenza di qualsiasi strumento che assicurasse il rispetto delle regole e che ovviasse ad errori, o peggio, umani; solo comunicazioni verbali via telefono, buone forse 100 anni fa; e ritenute (a torto, evidentemente) sufficienti, anche a far procedere un treno a 160 km orari, e non ad una velocità minore in presenza di lavori, che sarebbe una cautela persino banale. Oggi abbiamo a disposizione GPS che tracciano il percorso dei treni, boe che ne rallentano automaticamente la corsa, droni e sistemi di videosorveglianza, sensori di ostacoli sulla linea, sistemi di frenata automatica, ripetitori di segnali …… nulla di tutto ciò risulta attivato. Ancora una volta, tempi e costi da comprimere (e profitti da incrementare dall’altro lato …), e nessuna reale capacità di far prevalere le ragioni della sicurezza.
Passiamo ora all’esplosione alla Sabino Esplodenti di Casalbordino (Chieti), nella quale hanno perso la vita tre operai (“esperti e formati” ci tiene a far sapere la proprietà, con il titolare comunque “sgomento”). La fabbrica si occupa di smaltire, riporta l’ANSA, “diversi materiali, in particolare miscela incendiaria, povere pirica, polvere nera, razzi di segnalazione, legna impregnata di Tnt, dotazioni nautiche, simulatori di colpo tipo kanonslag” , lavorando anche per il Ministero della Difesa. Vista la evidente pericolosità dell’attività, anche rispetto all’ambiente circostante, lo stabilimento è classificato come a rischio di incidente rilevante – RIR – e quindi sottoposto ad una disciplina speciale, oggi il Decreto Legislativo 105 del 2015 (per ulteriori dettagli vedasi https://ambiente.regione.emilia-romagna.it/it/aria-rumore-elettrosmog/temi/stabilimenti-a-rischio-di-incidente-rilevante).
Nulla al momento è noto circa le cause dell’esplosione, in corso di accertamento, e quindi al di là del fatto che qualcosa non ha funzionato, ogni conclusione è prematura: colpisce però il fatto che il 21 dicembre 2020 nella stessa fabbrica in analogo incidente erano morti altri tre operai, e che il relativo processo vedeva la prima udienza il giorno successivo a quest’ultimo incidente. Tempo (eccessivo) trascorso tra l’evento del 2020 ed il processo a parte, emerge che l’attività della ditta era stata sospesa per sette mesi, per poi riprendere regolarmente: viene spontaneo chiedersi dopo quali controlli, e se detti controlli siano mai stati replicati in seguito, il tutto in pendenza di un processo penale, con dieci imputati, per reati non lievi (omicidio colposo, per colpa generica cagionata dalla negligenza, imprudenza e imperizia, e per colpa specifica, consistita nella violazione di diverse norme antinfortunistiche). E tanto più che lo scorso febbraio, alle porte della non lontana Teramo, si era verificato un altro infortunio mortale per esplosione di un deposito di materiale pirico …. Per quelle che potrebbero essere eventuali responsabilità per omessi controlli ed adempimenti rinvio, ancora una volta, a https://www.ansa.it/abruzzo/notizie/2023/09/13/esplosione-fabbrica-prccolpevoli-negligenze-delle-autorita_2f8c6d22-03eb-4373-8803-deba69974628.html
Ora, nel consueto coro di alate dichiarazioni e solenni impegni che seguono simili eventi (e che si ripetono uguali ogni volta, al punto che è difficile distinguerle, comunque, parafraso il sommo Dante Alighieri, “lunghe promesse dall’attender corto”), qualche voce ha riproposto l’introduzione di un nuovo reato, quello di omicidio sul lavoro, analogamente a quanto avvenuto, in materia di circolazione, per il reato di omicidio stradale. Personalmente, al di là della vaghezza della proposta (ed il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli, qui tecnico-giuridici, di come verrebbe a configurarsi questo nuovo reato, verosimilmente punito più duramente rispetto ai reati già previsti) dubito fortemente che questo costituirebbe un deterrente efficace. È acquisizione ormai consolidata che pene più severe, in ogni campo, non sono uno strumento preventivo efficace, chi delinque non lo fa con il Codice penale in mano, e una sanzione più grave potrà soddisfare l’opinione pubblica e i parenti delle vittime, ma arriva dopo. Per restare agli infortuni mortali, o comunque gravi, osservo piuttosto che nonostante norme giuridiche e tecniche, sistemi di gestione, buone prassi, certificazioni varie di qualità, qualificazione dei fornitori, normativa su appalti e subappalti, formazione obbligatoria e no, piani di vigilanza (più dichiarati che reali, e rischio di generalizzare scrivendolo) gli infortuni mortali continuano a ripetersi sempre in poche forme, con sconfortante regolarità: le persone cadono da ponteggi, scale, tetti, solai, talvolta alberi, sono investite e schiacciate da veicoli in movimento (treni, camion, macchine operatrici, muletti, altri veicoli ), afferrate e stritolate da macchinari non protetti, travolte sotto oggetti che cadono dall’alto o dal crollo di scavi, asfissiate/avvelenate in qualche spazio confinato e/o soggetto ad inquinamento (qui spesso con la tragica catena del soccorritore che muore a sua volta), schiacciate sotto il trattore, più raramente il muletto, che si ribalta, folgorate perché troppo vicine a cavi d’alta tensione, coinvolte in esplosioni o incendi. E se si analizzano le cause di ogni evento, sono sempre le stesse: mancato uso/presenza delle protezioni, e soprattutto comportamenti errati, magari incentivati dall’organizzazione del lavoro (tempi, ritmi, affaticamenti, stress, precarietà ed insicurezza, pressioni ambientali e/o datoriali), procedure non applicate o insufficienti o inadeguate, mancanza di formazione/addestramento, raramente malfunzionamenti, blocchi o altri problemi a macchine ed impianti. Ma troppo spesso, l’impressione è che analisi ed esperienze non servano a nulla: ripeto, a costo di essere noioso, le misure di sicurezza nell’immediato sono considerate un mero costo (monetario, di tempo, di attenzione, di documentazione), e non un investimento, il rischio è cronicamente sottostimato o non conosciuto, quando non coscientemente assunto, l’importante è (e neppur sempre, vedasi i casi di Brandizzo e forse di Casalbordino) avere le carte a posto, chi è responsabile non rischia personalmente ….. Poi, dopo, si piange, ci si indigna, si proclama, si richiede, si indaga e magari si processa, si promette, ci si riunisce e pianifica … fino alla volta successiva. E si guardano le fredde statistiche, per provare a consolarsi o per preoccuparsi ulteriormente, con il tarlo che dietro ogni numero c’è (c’era) una persona.
Maurizio Mazzetti
18/9/2023 https://www.ilmanifestoinrete.it/
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