Integrazione: la fragilità dei nuovi italiani è un costo elevato per tutti
Nella vicenda dei grandi paesi d’immigrazione d’Oltreoceano furono le seconde e terze generazioni a incarnare le aspettative di riscatto e successo di milioni di migranti e, insieme, la profezia del melting pot, di una convivenza armonica suggellata dalla comune appartenenza alla nazione. In Europa, invece, quella delle seconde generazioni si è imposta sin dagli anni 80 come vera e propria ‘questione sociale’, accostata ai problemi d’insuccesso scolastico, alla vita nei quartieri ‘difficili’, alla discriminazione, ai fenomeni d’inquietudine identitaria, radicalizzazione, perfino di coinvolgimento nelle reti terroristiche. Per comprenderne le ragioni occorre riflettere sui regimi migratori europei, che si sono forgiati attorno al paradigma del ‘lavoratore ospite’, e ai loro esiti inattesi, rappresentati in primo luogo proprio da questa ‘posterità indesiderata’.
Non per caso, è con l’affacciarsi all’età adulta delle seconde generazioni che, in tutti i paesi europei, sono venuti al pettine i nodi di un modello d’inclusione strutturalmente discriminatorio, facendone delle metafore viventi dei processi di trasmissione intergenerazionale degli svantaggi sociali.
Oltre a ciò, al pari dei loro coetanei, ma con difficoltà e disagi accentuati dalla congiunzione di un basso status socio-economico e di un altrettanto penalizzante ‘status etnico’, i discendenti degli immigrati si trovano oggi a fare i conti con la progressiva riduzione delle chance di mobilità sociale e con una disoccupazione che colpisce in particolare i giovani in ingresso sul mercato.
Quanto all’Italia, i dati disponibili offrono una descrizione impietosa della condizione di svantaggio strutturale delle famiglie immigrate decisamente sovra-rappresentate, ad esempio, tra i nuclei in condizione di povertà assoluta, che colpisce il 12,7% delle famiglie italiane, il 19,4% di quelle miste ma addirittura il 30% di quelle straniere. È l’effetto inevitabile di un modello d’inclusione che ha premiato soprattutto l’adattabilità a fare i lavori che noi non vogliamo più fare (che sono poi quelli in cui si guadagna di meno). La discendenza da una famiglia immigrata finisce così col costituire una pesante ipoteca sul destino dei figli.
A dispetto dell’’empatia’ del sistema scolastico, gli alunni stranieri mostrano diverse ‘fragilità’. Ad esempio si distribuiscono in maniera diversa nelle varie filiere formative: sono il 12,5% degli studenti degli istituti professionali, ma solo l’1,6% dei licei classici; soffrono di un sistematico svantaggio che riguarda il numero di anni di studio: l’incidenza di abbandoni precoci coinvolge il 32,8% degli studenti stranieri, a fronte di una media nazionale del 13,8%; presentano tassi di bocciature elevati, che concorrono, insieme ai percorsi migratori, a generare il 40% degli alunni stranieri in ritardo rispetto alla ‘normale’ carriera scolastica; mostrano un livello di competenze acquisite più basso, come attestato dai test Invalsi, che assegnano punteggi sistematicamente inferiori agli stranieri sia per le prove di italiano sia per quelle di matematica; presentano tassi di passaggio all’Università ampiamente inferiori: il 33,9% per gli stranieri, il 51,1% per gli italiani.
Insieme al basso status sociale, le carriere formative contribuiscono a sbarrare loro l’accesso ai lavori migliori: la probabilità di entrare in una professione qualificata va dal 7,4% per i giovani di famiglie con stranieri al 63,1% per quelli appartenenti alla classe dirigente. Ma a incidere in maniera duratura sull’esistenza dei membri delle seconde generazioni potrebbe essere, più ancora dello svantaggio sperimentato nel mondo del lavoro, la loro sostanziale esclusione: l’Italia, infatti, non solo registra una delle incidenze più elevate di Neet a livello europeo, ma anche uno dei più elevati differenziali a sfavore degli stranieri, oltre un terzo dei quali si trova in questa condizione. A destare preoccupazione è in particolare l’altissima incidenza di giovani donne ‘volontariamente’ escluse dal mercato del lavoro – quasi una su due delle 15-34enni straniere non studia né lavora – spesso già mogli e madri; una quota che diventa maggioritaria in alcune comunità immigrate: il caso più eclatante è quella pachistana, con oltre 9 giovani su 10 in questa condizione, a riflesso della tenuta di modelli patriarcali che influenzeranno anche l’educazione delle nuove generazioni.
Tutti questi fenomeni hanno evidenti implicazioni sia di ordine politico ed etico – laddove rappresentano una clamorosa smentita alla promessa di uguaglianza di opportunità sulla quale si fondano le nostre democrazie – sia sulla coesione sociale – con l’eventualità, già concretizzatasi in diversi paesi (e sulla quale anche papa Francesco ha recentemente posto l’attenzione), che preludano allo sviluppo di identità reattive e di condotte di disaffezione e devianza –. Tuttavia, il destino delle seconde generazioni – o delle ‘nuove generazioni’, come significativamente questo giornale preferisce definirle – costituisce una posta in gioco decisiva non solo per la coesione sociale, ma anche per la competitività dell’economia, ovvero per la stessa sostenibilità del modello sociale europeo.
Per rendersene conto è sufficiente considerare lo scenario demografico del ‘vecchio’ continente e, in particolare, il peso dei soggetti con un background migratorio all’interno delle assottigliate classi d’età giovanili. In Italia, ad esempio, gli studenti con un retroterra migratorio sono quasi il 10% (o di più, se si computano gli stranieri naturalizzati) di una popolazione scolastica destinata, nei prossimi 10 anni, a perdere circa un milione di alunni.
E, nonostante il non trascurabile contributo che viene dagli immigrati (quasi il 15% dei nati ha entrambi i genitori stranieri), il numero delle nascite, in costante diminuzione, è oggi meno della metà rispetto all’epoca in cui vennero alla luce quanti nei prossimi anni raggiungeranno l’età del pensionamento. In un’Europa e in un’Italia che si accingono a gestire il ricambio delle generazioni dei baby boomers è indispensabile far crescere sia la partecipazione ai processi produttivi, sia la produttività del lavoro e delle retribuzioni. In altre parole, è necessario migliorare non solo l’equità, ma la stessa efficacia dei sistemi formativi (chiamati a preparare un capitale umano adeguato a supportare i processi produttivi e le pratiche di cittadinanza) e dei mercati del lavoro (chiamati ad allocare nel miglior modo possibile le risorse umane disponibili). Sfide che rendono evidente come il destino delle seconde generazioni sia strettamente intrecciato a quello della società tout court.
Tale consapevolezza è bene trovi riconoscimento anche nel quadro dell’auspicato rilancio del dibattito parlamentare per la riforma della legge sulla cittadinanza. Alla élite delle ‘nuove generazioni’ che s’è mobilitata all’insegna dello slogan ‘italiano sono anch’io’ va il merito di aver richiamato l’attenzione su quanto la cittadinanza di un paese democratico possa essere preziosa, specie per chi reca l’eredità di una storia familiare segnata dalla ricerca di una vita libera e affrancata dalla povertà.
Ma il suo significato, anche dal punto di vista simbolico, potrebbe essere ancor più rilevante per i molti giovani vittime della condizione di disagio strutturale che segna l’esperienza dei figli di un’immigrazione concentrata nei gradini più bassi della stratificazione sociale. E sono soprattutto costoro che interpelleranno la società italiana nella sua capacità di dar seguito alle attese che la ‘concessione’ della cittadinanza porta con sé. Giacché la storia ci insegna come la promessa dell’uguaglianza, quando resta solo una promessa, rischia di essere ancor più frustrante della disuguaglianza istituzionalizzata.
27/4/2018 www.avvenire.it
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