Io capitano è un film quasi impossibile
Matteo Garrone è riuscito a raccontare un viaggio epico senza restare intrappolato nella retorica, soprattutto grazie alla sua capacità di farsi abitare dalle storie degli altri
Gli occhi magnetici di Seydou Sarr, neri e luminosi, guardano fuori, ma sono rivolti anche verso l’interno. Puntano avanti, ma tendono all’indietro, come quelli di Tiresia, l’indovino cieco del mito antico. Aveva una malattia degenerativa Seydou Sarr, 17 anni, senegalese, attore protagonista del film di Matteo Garrone Io capitano in concorso all’ottantesima Mostra internazionale del cinema di Venezia e nelle sale dal 7 settembre.
Aveva la stessa malattia che ha portato alla cecità la madre. Era destinato alla perdita della vista poi, dopo aver girato il film, è venuto in Italia, si è operato ed è guarito. Ora vive con la famiglia del regista italiano e sogna di continuare a fare l’attore. Nel film, Sarr è un ragazzo senegalese che parte per l’Europa insieme a un amico, Moussa (Moustapha Fall). Pianifica a lungo il viaggio senza dirlo alla madre, che gli aveva vietato di partire dicendogli: “Devi respirare la stessa aria che respiro io”, nel tentativo di proteggerlo dai pericoli e di proteggersi dalla sua perdita.
Ma Seydou se ne va lo stesso in segreto e finisce per smarrirsi: prima nel deserto, poi nei centri di detenzione libici, fino ad accettare la proposta di un trafficante di guidare un peschereccio carico di persone dalla Libia all’Italia, così si ritrova nel mezzo di una tempesta e senza rotta. La scena finale da cui è tratto il titolo del film è un’inquadratura stretta degli occhi del ragazzo, che si gonfiano di lacrime, mentre un elicottero della guardia costiera italiana sorvola il peschereccio.
L’Italia rimane un profilo di terra, un’ombra, mentre a poche miglia dalla meta il ragazzo grida più volte: “Io, capitano”. Con disperazione e sollievo. Sarr rivendica di essersi messo alla guida del peschereccio, nonostante non fosse la sua intenzione iniziale. Ma in quel grido, Seydou dice “io”. Così da ragazzino diventa uomo, mentre cerca di portare in salvo quelli che dipendono da lui.
“Sono partito da un’immagine, quella che poi è diventata la scena finale del film. Parto sempre da un’immagine nei miei film”, racconta Matteo Garrone, 54 anni, vincitore del premio speciale della giuria a Cannes nel 2008 con Gomorra e nel 2012 con Reality, seduto nel suo piccolo studio romano in un afoso pomeriggio di fine agosto, mentre su una lavagna, davanti alla scrivania, sono già attaccate delle immagini e dei disegni per lo studio di un nuovo film ispirato alle Metamorfosi di Ovidio. Il poema latino è alla base anche della scena del sogno di Seydou in Io capitano, che ricorda anche l’Annunciazione del Beato Angelico. Garrone è anche un pittore.
La storia del film comincia diversi anni fa: un amico del regista, che gestisce un centro di accoglienza in Sicilia, gli aveva raccontato la vicenda di un ragazzo minorenne, Fofana Amara, che aveva portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione partita dalla Libia, ma una volta in Italia era stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed era finito in carcere per sei mesi. Un reato per cui oggi in Italia si rischia fino a trent’anni.
“Mi aveva colpito la vicenda di questo ragazzo, me lo sono immaginato come poi ho mostrato nella scena finale del film”. Per arrivare a girare, tuttavia, Garrone ci ha messo anni: “Ero pieno di dubbi, temevo la retorica, oppure che il mio sguardo potesse essere inadeguato a raccontare questa storia, che potesse sembrare il tentativo di speculare sulla sofferenza degli altri, invece poi a un certo punto ho sentito che il film era maturo, è come se avesse scelto me. Ho avuto la necessità di girarlo”.
La scrittura della sceneggiatura è durata sei mesi, ma il lavoro di preparazione è stato molto lungo. Ci sono voluti più di due anni per mettere insieme la documentazione con cui Garrone ha ricostruito la rotta principale percorsa da migliaia di persone dall’Africa occidentale verso l’Europa, attraverso materiale fotografico, ma soprattutto incontrando decine di persone che il viaggio lo hanno fatto davvero in decenni diversi.
La scena finale del film è stata molto al di sopra delle aspettative dello stesso regista. “Mi ha sorpreso, mentre la giravo. Quasi tutta la troupe piangeva, perché Seydou è riuscito a fare vedere il viaggio: ride, piange, è sorpreso, è incredulo. Tutti gli stati di animo passano negli occhi del ragazzo in quel momento. Per me il cinema è questo: creare dei momenti unici. Ho avuto quella sensazione, che in quel momento fosse accaduto qualcosa che mi sopravanzava”.
I film sull’immigrazione possono essere molto brutti: paternalistici, privi di autenticità o didascalici. Il rischio è di rimanere intrappolati dentro a una qualche retorica o di rappresentare le persone in maniera macchiettistica o ancora di usarle come specchio. Matteo Garrone non è caduto in nessuna di queste tentazioni ed è riuscito a fare un film quasi impossibile: raccontare una storia presente – consumata dalla continua rappresentazione mediatica – e trasfigurarla in un archetipo.
Io capitano è il viaggio epico di due ragazzi, una favola sul passaggio all’età adulta e l’incontro traumatico con la separazione dalle origini e dagli affetti, il pericolo di perdersi e la morte. “A me interessava fare un film che in parte fosse epico, ma allo stesso tempo che fosse un road movie e insieme un romanzo di formazione. Pensavo all’Odissea, ma anche a Pinocchio. All’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e a Cuore di tenebra di Joseph Conrad”, racconta Garrone.
“Mi sembrava che mancasse un racconto in forma visiva del viaggio, soprattutto della parte del viaggio che si svolge dall’altra parte del mare. Volevo fare un controcampo, ribaltare la prospettiva, guardare a cosa succede prima”, aggiunge.
Nessuna povertà estrema, nessuna guerra, nessuna disperazione spingono i due “Huckleberry Finn” senegalesi a partire. È solo la loro sfrontatezza che gli fa sottostimare i pericoli e sopravvalutare se stessi. Ma anche il desiderio di somigliare di più ai loro sogni, a una certa idea di sé, frutto di fantasticherie e proiezioni.
La loro casa, il Senegal, è rappresentata nel film come un’origine luminosa, piena di colori e di affetti. È un pieno che dà avvio al loro viaggio, che lentamente scolorisce a mano a mano che i due protagonisti se ne allontanano. Partendo, lasciando il Senegal, i due ragazzi perdono e si perdono, tradiscono i loro affetti e rischiano di morire. Ma è una scelta irrazionale e per loro necessaria, un gioco e insieme una sfida con loro stessi.
“I colori all’inizio sono accesi, i protagonisti lasciano un luogo che ha una grande energia vitale, un luogo in cui i legami tra le persone sono molto forti. I protagonisti abbandonano quel luogo, senza sapere fino in fondo la forza e la vitalità della loro origine. Con Stefano Ciammitti, il costumista, abbiamo pensato di far sbiadire durante il viaggio i colori accesi dei vestiti. Delle magliette per esempio, che diventano pastello. Questo processo avveniva anche in Pinocchio”, racconta Garrone.
A tenere al riparo Garrone dal rischio di cadere nel racconto edificante e retorico, c’è la sua postura, che sembra più a suo agio dove è scomoda, fuori dalle confort zone assegnate, che gli assicurerebbe controllo. Anche il suo sguardo – come quello di Sarr – tiene insieme molte cose ed è abitato da quello degli altri, preferisce uscire da sé, assume senza fatica la prospettiva sfrontata, a volte ingenua, dei due ragazzini.
“Per me l’importante in questo film era che fosse credibile, che ogni scena fosse autentica. Quella era la difficoltà principale. Ho messo al servizio dei loro racconti la mia esperienza e il mio sguardo. Volevo che chi ha vissuto quell’esperienza riconoscesse nel film una verità”. Il film s’ispira alle storie vere di quattro persone che hanno fatto il viaggio in diversi momenti storici: “Ogni pezzetto del film è legato al racconto di qualcosa realmente avvenuto”. Una delle scene più difficili durante le riprese – tra il Senegal, il Marocco e l’Italia – è stata quella in cui i ragazzi sono costretti dai libici ad assumere un purgante, mentre sono nel deserto.
“C’era una tempesta di sabbia e la scena rischiava quasi di diventare comica. È stato uno dei momenti di crisi del film”, racconta Garrone.
Sentivo una lingua per me incomprensibile, ma mi sembrava di capire quando gli attori stavano dentro e quando stavano fuori dal personaggio
Il regista ha diretto il film in wolof, la lingua madre del 40 per cento dei senegalesi, pur non parlandola. “Mi sono fatto aiutare dagli interpreti, ma la verità è che andavo a orecchio, sentivo una lingua per me incomprensibile, ma mi sembrava di capire quando gli attori stavano dentro e quando stavano fuori dal personaggio. Si era creata una grossa intesa. La sceneggiatura gli attori non l’hanno mai letta: ogni mattina come un cantastorie gli raccontavo quello che sarebbe successo quel giorno sul set e loro lo interpretavano. La cosa bella della loro interpretazione è che è molto istintiva, vivevano in presa diretta quelle emozioni”, racconta.
“È stato complicato girare la scena finale del film”, racconta Seydou Sarr, l’attore senegalese protagonista del film, pochi giorni prima della proiezione a Venezia, anche se poi confessa: “Sentivo una grande responsabilità, sentivo le voci di quelle donne, di quelle persone, di quei bambini”. C’è molto di Seydou Sarr nel personaggio del film: l’ironia, la dolcezza, l’aria trasognata, il legame viscerale con il paese e la famiglia di origine. Anche se assicura che non ha mai pensato davvero di fare il viaggio, pur sognando l’Europa. Soprattutto per paura: “Chi parte conosce i pericoli a cui va incontro. Ma tutto è molto peggio di quello che ci s’immagina”. All’inizio era spaesato dal fatto di non sapere ogni giorno che cosa avrebbe girato, poi si è abituato all’idea e si è creata una grande complicità con gli altri attori e con il regista.
In un’altra scena del film, Seydou è costretto ad abbandonare nel deserto una donna che non ce la fa più a camminare e che muore tra le sue braccia.“In quella scena ho rivisto mio padre, anche lui è morto in Senegal, mentre era con me, tra le mie braccia”, racconta. “Non è stato difficile immedesimarmi”.
Da qualche tempo la letteratura e il cinema cercano nel ritorno alla realtà una credibilità che per qualche verso temono di avere perduto. L’Italia in questo ha una tradizione nobile, d’ispirazione per Garrone, che ama soprattutto il lavoro di Roberto Rossellini. Ma per il regista romano è una vecchia strada: è sempre partito dalla realtà, ibridandola con il registro poetico della fiaba. Dell’immigrazione Garrone si era poi già interessato in due film degli esordi Terra di mezzo (1996) e Ospiti (1998).
“Il mio primo lungometraggio racconta la quotidianità di alcune prostitute nigeriane nella campagna romana. Allora non ne ero consapevole del tutto, ma mi interessava l’elemento di meta-realtà, di astrazione che i corpi di queste donne portavano nella nostra quotidianità”, spiega il regista. “Allora usavo queste storie per raccontare l’Italia che stava cambiando, i migranti erano specchi che aiutavano a capire come cambiava il paese”, continua Garrone.
Il lungometraggio Ospiti è l’unico film autobiografico di Garrone e di nuovo ha come protagonisti una coppia di stranieri, due ragazzi albanesi che fanno lavoretti e sono ospitati nella casa di un fotografo romano, Corrado. Nella realtà i due ragazzi sono davvero stati ospiti del regista per diverso tempo. Io capitano è “la chiusura di un cerchio” cominciato con i primi lungometraggi, spiega il regista. “Mi ricorda che nel cinema devo sempre rischiare”.
Annalisa Camilli
6/9/2023 https://www.internazionale.it/
Immagine: Io capitano. (Greta De Lazzaris)
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