Irpef, una controriforma che aggrava le disuguaglianze
Per alcuni potrà apparire strano, ma c’è stato un tempo in cui il nostro era un altro paese.
Un paese diverso, nel quale le parole avevano un senso compiuto e la politica – che, delle stesse, si nutre – ne esaltava il significato.
Cosicché, nel corso della tanto vituperata 1° Repubblica, al termine “riforme” ne associavamo pratiche politiche tese a realizzare provvedimenti legislativi per adeguare l’esistente situazione a migliori e più godibili condizioni sociali e civili.
Lo verificammo, ad esempio, attraverso la nazionalizzazione delle imprese elettriche, con la nascita dell’Enel (legge 6 dicembre 1962, nr. 1643), l’istituzione della Scuola media unificata (legge 31 dicembre 1962, nr. 1859), l’approvazione dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, nr. 300), il divorzio (legge 1 dicembre 1970, nr. 898), l’aborto (legge 22 maggio 1978, nr. 194) e la costituzione del SSN (legge 23 dicembre 1978, nr. 838).
Alle riforme, quindi, corrispondevano (sempre) conquiste private e collettive!
Da oltre un ventennio, invece, al solo riecheggiare del termine “riforma” si avverte una diffusa sensazione di pericolo.
E’ stato così all’epoca dei governi Berlusconi e Monti, attraverso l’avvio della stagione della flessibilità quale sinonimo di precarietà diffusa e grazie ai provvedimenti della Fornero in materia previdenziale.
Dello stesso segno le “riforme” operate rispetto alla Legislazione del lavoro e, più specificamente, alla legge 300/70, dal governo Renzi.
A conferma delle più fosche previsioni, l’attuale Premier – con la complicità della silente “ammucchiata” che lo sostiene – non ha operato alcuna soluzione di continuità rispetto al più recente passato!
Il recente Ddl sulla “concorrenza” – in linea con la sua smania di “razionalizzare privatizzando” – aveva già chiaramente indicato quali fossero gli obiettivi del “banchiere solitario al comando” rispetto alle riforme economiche ritenute più urgenti; la sua ipotesi di “riforma fiscale” ne conferma il quadro e gli obiettivi.
Risale, infatti, al 5 ottobre scorso la riunione del Consiglio dei ministri che ha approvato la bozza della legge delega per la riforma fiscale. Si tratta di dieci articoli che vanno dal taglio dell’Irpef, all’Iva, alla riforma del catasto
Naturalmente, come da copione e in ossequio alla consolidata prassi che accompagna qualsiasi – pur insignificante – parola/silenzio di Mario Draghi, tutti i quotidiani nazionali, ad eccezione de “Il Fatto”, hanno presentato con grande enfasi la sua ultima “magia”.
Si tratta di una bozza di “riforma complessiva” del sistema fiscale da attuare, attraverso specifici decreti legislativi, entro il termine di 18 mesi dalla data di approvazione della legge delega.
Per comprensibili motivi di spazio e tempo a disposizione, anticipo che limiterò le mie considerazioni al taglio dell’Irpef.
Su questo punto, la bozza approvata dal CdM prevede minori imposte sui redditi da lavoro dipendente e pensioni, con una riduzione del numero degli scaglioni da 5 a 4.
Si tratta, in effetti, del più sostanzioso taglio fiscale operato nel corso degli ultimi anni.
Il punto dirimente è, però, rappresentato da ciò che ne consegue e dai soggetti che ne godranno i maggiori benefici.
Prima di fare questo, è opportuno evidenziare qual è la situazione attuale.
In questo senso, è interessante rilevare che: –
- Ben l’85 per cento della base imponibile (oggi) soggetta all’Imposta sui Redditi delle Persone Fisiche (Irpef) è rappresentato da redditi derivanti da lavoro dipendente e dalle pensioni;
Il restante 15 per cento è relativo a redditi fondiari, di capitale, lavoro autonomo, d’impresa e altri.
- Come ben noto, una consistente parte dei redditi da lavoro autonomo soggetto a Irpef è contraddistinta da elevati livelli di evasione ed elusione fiscale.
- Redditi di diversa natura (finanziari, d’impresa, immobiliari, di locazione, ecc.) sono stati, volta per volta, esclusi dalla base imponibile Irpef ed assoggettati a regimi “sostitutivi” molto meno onerosi.
- Per i redditi da capitale è già prevista una tassazione di tipo “proporzionale”, con un’aliquota, quindi, uguale per tutti.
Ne consegue (1) che l’onere fiscale grava, in maniera eccessiva – rispetto ai percettori di pari reddito ma di diversa natura – sui lavoratori dipendenti e sui pensionati. Gli stessi che, tra l’altro, finiscono con il patire, effettivamente, il peso della “progressività” delle imposte.
Già questo dimostra che la bozza approvata dal CdM avrebbe dovuto prevedere ben altro tipo di riforma per cercare di porre fine a un’evidente disparità di trattamento (2) tra chi acquisisce il proprio reddito attraverso una prestazione lavorativa o previdenziale e chi, invece, gode di un minore onere contributivo solo perché il proprio reddito è frutto di rendita immobiliare, interessi e/o dividendi azionari.
Ciò detto, pare opportuno evidenziare che gli attuali 5 scaglioni prevedono una trattenuta Irpef pari al:
a) 23 per cento per i redditi compresi tra 0 e 15 mila €
b) 27 per cento per i redditi tra 15.001 e 28 mila €
c) 38 per cento per i redditi tra 28.001 e 55 mila €
d) 41 per cento per i redditi tra 55.001 e 75 mila €
e) 43 per cento per i redditi superiori
Seguono, naturalmente, le diverse deduzioni e detrazioni cui ha titolo ciascun soggetto.
Come previsto dalla bozza in esame, le nuove aliquote Irpef dovrebbero corrispondere, a partire dal 2022, ai seguenti (3) valori:
23 per cento per i redditi fino a 15 mila €
25 per cento da 15 .001 a 28 mila
35 per cento da 28.001 a 50 mila
43 per cento per i redditi superiori a 50 mila €
Interessante rilevare che, secondo quanto consultabile(4) on line, “Oltre i 15 mila € il risparmio fiscale inizia a crescere e raggiunge il massimo (con un reddito di 50 mila €), con 920 euro di minori imposte. Poi decresce fino a 270 per i redditi superiori ai 75 mila euro“.
Considerato pari a circa 21.600 euro annui lo stipendio medio (5) netto di un lavoratore italiano, qualche esempio consentirà di comprendere meglio gli effetti – a mio pare non condivisibili – della “riforma” Draghi.
Infatti, se lo specifico decreto legislativo confermerà i valori previsti dalla bozza in oggetto, su di un lavoratore, con un reddito annuo di 22 mila euro, graverà, nel 2022, un’ Irpef lorda pari a 5.200 euro; con un risparmio di 140 euro e uno sgravio, in termini percentuali, rispetto all’attuale imposta, dello 0,64% %.
Di contro, su di un lavoratore con un reddito di 50 mila euro, graverà un’ Irpef pari a 14.400 euro, con un risparmio di 920 euro e uno sgravio, in termini percentuali, pari a 1,84 per cento rispetto all’attuale imposta.
Inoltre, sul primo, l’Irpef inciderà per il 23,63 per cento sui 22 mila euro, rispetto all’attuale 24,27 per cento.
Per il secondo, invece, le nuove aliquote incideranno nella misura del 28,8 per cento (sui 50 mila complessivi), rispetto all’attuale 30, 64 per cento.
Infine, un lavoratore con un reddito di 70 mila euro si ritroverà con un’Irpef lorda di 35.900 euro, con un risparmio pari a 270 € e uno sgravio, in termini percentuali, dello 0,27 per cento; infatti la nuova Irpef inciderà nella misura 35,9 per cento rispetto all’attuale 36,17 per cento.
In definitiva, si tratta dell’ennesima contro/riforma che “lascia al palo” chi ha un reddito inferiore ai miseri 15 mila euro e premia in misura maggiore chi percepisce 50 mila euro rispetto a chi ne percepisce meno della metà!
E non solo questo. Considerata l’ulteriore (già prevista) riduzione del numero degli scaglioni – da 4 a 3, a partire dal 2023 – si tratta di un altro, rilevante, passo verso il sostanziale superamento del carattere “progressivo” della capacità contributiva.
Con buona pace del dettato costituzionale!
Identica politica, da dooH niboR (6), è quella di Draghi nei confronti dei pensionati!
Considerato l’importo medio (7) delle pensioni italiane corrispondente a 18.290 euro, è superfluo evidenziare gli ininfluenti effetti prodotti dalla riforma dell’Irpef per la stragrande maggioranza degli stessi.
Tra l’altro, a confermare che, per Draghi e la variegata “ammucchiata” che lo sostiene, la giustizia sociale è un problema di trascurabile rilevanza, è opportuno evidenziare alcuni dati che, nel contesto, definirei eclatanti.
Ben il 44 per cento dei contribuenti italiani, che dichiara il 4% dell’Irpef totale, rientra nella classe di reddito fino ai 15 mila euro, in quella tra i 15 mila e i 50 mila si colloca il 50% dei contribuenti (56 per cento dell’Irpef totale) e solo il 6% dei contribuenti dichiara più di 50 mila euro, versando circa il 40 dell’Irpef totale.
Ciò significa che, sommando il 44 per cento dei contribuenti cui la riforma Draghi non riserva alcuna attenzione (fino a 15 mila euro di reddito), a buona parte di coloro che dichiarano redditi compresi tra gli attuali 2° e 3° scaglione, i maggiori benefici prodotti dalla riforma fiscale andranno a vantaggio di coloro che già godono di redditi di gran lunga superiori a qualsiasi media.
Tornando a quello che considero un altro punto meritevole di particola attenzione, evidenzio che, anche in questa occasione, il governo del “banchiere” non ha tradito le aspettative dei suoi degni sponsor. Tra l’altro, è sconcertante che tutto ciò avvenga con la piena disponibilità di tutte le forze politiche. Anche di quelle che pretenderebbero di rappresentare l’ormai famigerato ed impalpabile Centrosinistra!
Al Pd, ad esempio (in qualità di indegni eredi dell’ex Pci, ex Pds ed ex Ds), andrebbero poste non poche domande. Perché i contribuenti con minori redditi non godono di alcuna riduzione dell’imponibile? Che senso ha concedere agevolazioni fiscali a chi già dispone di redditi superiori ai 75 mila euro? Perché mai concedere maggiori riduzioni d’imposta a chi gode di un reddito pari a 50 mila euro rispetto a chi ne guadagna 20/25 mila?
Oltretutto, se a ciò si aggiunge che, a partire dal 2023, si prevede che gli scaglioni Irpef da 4 diventino 3, ci si rende conto della portata distruttiva anche della seconda parte della legge delega sul fisco. Il già ridotto grado di progressività delle imposte finirà per essere ulteriormente eroso a favore dei contribuenti che dispongono di redditi superiori e l’attuale livello di insopportabile diseguaglianza ulteriormente accentuato!
Per concludere, confesso di non riuscire ad immaginare i tempi, individuare gli alleati e le occasioni nelle quali poterlo fare, ma di una cosa sono sicuro. Verrà un tempo in cui saremo costretti a chiederci fino a quando consentire che tutto ciò avvenga!
NOTE
1- Fonte: “La tassazione regressiva”, di Salvatore Morelli e Antonio Scialà; su “jacobinitalia.it”
2- Si tratterebbe, in sostanza, di pervenire a una effettiva “equità orizzontale”, operando un riequilibrio tra le imposte su lavoro e capitale. Ma ciò, evidentemente, non rientra nel piano “classista” dell’attuale Premier
3- Fonte: “Il Sole 24 Ore”
4- Fonte: “Il taglio delle imposte sul reddito, ovvero il trionfo della disuguaglianza”, di Rocco Artifoni; su “volerelaluna”, del 29 novembre 2021
5- Fonte: “Ministero dell’Economia e delle Finanze”; dato relativo all’anno di imposta 2018. Senza dimenticare che il valore “medio” – piuttosto che il “mediano”, più realistico – risente di una “forbice”, tra minimo e massimo, molto ampia
6- Robin Hood all’incontrario
7- Vedi nota 5
di Renato Fioretti
9 dicembre 2021
Fonte: www.micromega.it
(Nota Redazione Lavoro e Salute. Renato Fioretti autore di un blog su Micromega e collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute)
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