Israele: dalla rissa tra gli assassini in capo saltano fuori due parole inattese: abisso, disfatta…
Nel contesto di un movimento internazionale di solidarietà con la resistenza palestinese e di condanna senza appello di Israele per il genocidio in atto che non accenna ad esaurirsi, le crescenti difficoltà che l’esercito israeliano incontra sul territorio palestinese di Gaza, tanto a Sud quanto a Nord, stanno facendo esplodere i contrasti all’interno della cupola sionista apparsa finora piuttosto coesa.
Per primo è uscito allo scoperto il ministro della guerra Gallant, a nome – così pare – dei comandi militari al completo e, forse, di un settore dell’amministrazione statunitense. In genere, si sa, nelle situazioni di guerra i leader politici sono più oltranzisti degli stessi capi militari: vuoi per inesperienza, vuoi perché inseguono una vittoria sul campo a tutti i costi per glorificare sé stessi o, più spesso, per evitare di venire travolti e fatti fuori dalla sconfitta, anche parziale. Netanyahu non fa eccezione, avendo fissato per l’attuale operazione-genocidio il più oltranzista degli obiettivi: l’espulsione da Gaza dei suoi due milioni di palestinesi e il definitivo controllo israeliano su Gaza, insomma la “soluzione finale” della questione palestinese. Data l’enorme disparità di mezzi militari tra apparati sionisti e guerriglia palestinese, la banda Netanyahu immaginava di compiere a Gaza qualcosa di simile a una passeggiata, da concludere in poche settimane con il gran finale del ritorno a casa di tutti gli “ostaggi” del 7 ottobre liberati manu militari dall’“invincibile” esercito. Le cose stanno andando in modo assai lontano dalle previsioni, se appena quattro giorni fa il comando delle Brigate Al-Qassam poteva dichiarare, con il suo portavoce Abu Obaida, quanto segue:
*I nostri combattenti sono riusciti a prendere di mira 100 veicoli militari sul fronte di battaglia di Gaza in 10 giorni.
*Il nemico [israeliano] sta entrando di nuovo nell’inferno e sta affrontando una resistenza più forte.
*Il nemico conta decine di morti e feriti in tutte le zone della sua incursione.
*Il nemico annuncia parte delle sue perdite, ma quelle che stiamo monitorando sono molto maggiori.
*I nostri combattenti affrontano il nemico sui fronti di battaglia con grande intensità utilizzando tutti i tipi di armi a loro disposizione.
In un altro dispaccio proveniente dalle formazioni della resistenza si afferma che “la periferia di Rafah a Sud e il campo di Jabalia al Nord della Striscia di Gaza sono diventati nelle ultime 48 ore il cimitero dell’IDF. Oltre 200 operazioni militari condotte in 2 giorni da parte di 13 differenti brigate guidate da al-Qassam, operazioni documentate da 7 lunghissimi video.”
Per quanto le si voglia depurare da una componente di propaganda, queste notizie aiutano a capire perché Gallant si sia deciso ad andare allo scoperto giovedì scorso, 16 maggio, con questa dichiarazione: «Chiedo al primo ministro di decidere e dichiarare che Israele non governerà la Striscia di Gaza con i civili e che non ci sarà alcun governo militare. (…) La fine della campagna militare deve essere accompagnata da un’azione politica. Il ‘giorno dopo Hamas’ può essere raggiunto solo con entità palestinesi che prendono il controllo di Gaza, con attori internazionali e l’istituzione di un governo alternativo al potere di Hamas». Questo, a suo parere, «è l’interesse dello Stato di Israele» se non si vogliono «costi non necessari di vite israeliane»; l’istituzione di un governo militare israeliano a Gaza «è un’opzione negativa e pericolosa per lo Stato di Israele strategicamente, militarmente e dal punto di vista della sicurezza».
Molto chiaro: le operazioni sul campo stanno costando abbastanza “vite israeliane” (le uniche che contano, per Gallant) per immaginare di estenderle a tempo indeterminato. Escluso. Sarebbe troppo rischioso. Come è troppo rischioso, a suo dire, non cercare di coinvolgere i paesi arabi nella costruzione di un “protettorato internazionale”, di evidentissima natura neo-coloniale, incaricato di tenere a bada, con le catene strette ai polsi e alle caviglie, la residua popolazione gazawi perché non rialzi mai più la testa, con o senza Hamas. Altrettanto secca l’immediata replica di Netanyahu: non se ne parla! «Finché Hamas resta a Gaza, nessun altro governerà la Striscia: certamente non l’Autorità nazionale palestinese. Non sono disposto a passare da Hamastan a Fatahstan».
Passano due-tre giorni e arriva il vero e proprio ultimatum da parte di Gantz, da quel che si può capire una replica al diniego di Netanyahu, alzando il tiro: «entro l’8 giugno ci vuole un piano per il dopo-Hamas, altrimenti andiamo a schiantarci contro il muro». In assenza di un piano che preveda sforzi per normalizzare i rapporti con i paesi arabi e un’amministrazione di Gaza congiunta tra Israele, Stati Uniti, Unione europea, paesi arabi (l’Arabia saudita anzitutto) e una qualche rappresentanza palestinese, il suo partito (Unità nazionale) lascerà il governo. Nessun dubbio, ovviamente, sulla necessità di “entrare a Rafah” per raderla al suolo come Gaza. Anzi a detta di Gantz, Netanyahu è responsabile di avere esitato troppo nel dare il via libera al genocidio-atto II. Bisognava farlo mesi fa, secondo lui. E qui traspare l’insicurezza: più passa il tempo, più crescono le difficoltà per Tel Aviv, dentro l’esercito, nell’economia israeliana e sulla scena politica di area e internazionale – «mentre i soldati israeliani stanno mostrando un coraggio incredibile al fronte, alcune delle persone che li hanno mandati in battaglia agiscono con codardia e mancanza di responsabilità», pensando “solo a sé stessi” (il riferimento è ai ministri Ben Gvir e Smotrich).
Durissima la nuova replica di Netanyahu a Gantz, che lo aveva accusato di portare il paese “verso l’abisso”: «Le tue condizioni sono la sconfitta di Israele». «Mentre i nostri eroici combattenti combattono per distruggere i battaglioni di Hamas a Rafah, Gantz sceglie di lanciare un ultimatum al primo ministro, invece di lanciarne uno a Hamas». E ribadisce il suo assoluto no «all’introduzione dell’Autorità Palestinese a Gaza e alla creazione di uno Stato palestinese, che sarà inevitabilmente uno Stato terroristico».
Ancora più risoluti gli esponenti della destra dichiaratamente fascista che pretendono la sostituzione di Gallant («Un simile ministro della difesa deve essere sostituito per raggiungere gli obiettivi della guerra»), e la rottura di Netanyahu con Gantz.
Inutile, osceno, provare a distinguere in questo consesso i falchi dalle “colombe”. Tutti questi esponenti della macchina di oppressione del colonialismo di insediamento sionista sono concordi nella necessità di “portare a termine” il genocidio a Gaza e la pulizia etnica in Cisgiordania, e nella determinazione a trasformare quel tanto di popolazione di Gaza che sopravviverà allo sterminio in una massa di accampati da tenere sotto strettissima sorveglianza israeliana e internazionale, senza nessun diritto all’“autodecisione” (basta elezioni!), e da eliminare via via nel tempo come residui indesiderati. Tutti costoro aspirano alla “grande Israele” e a mettere in atto il faraonico progetto del canale Ben Gurion. Tutti costoro intendono proseguire nella “costruzione” della nuova Gaza sionistizzata tagliata in due dal “corridoio” militarizzato di Netzarim, protetta da un’ampia zona di sicurezza tutt’intorno (di oltre un chilometro), serrata a sud rispetto all’Egitto, collegata per i limitatissimi aiuti alimentari esclusivamente con il molo costruito dagli Stati Uniti in mare. I conflitti tra di loro (che sono reali) rispecchiano esclusivamente la possibilità, o meno, di portare a termine i loro piani di ulteriore colonizzazione della Palestina “da soli” e con mezzi esclusivamente militari, oppure costruendo alleanze politiche ancor più strette con l’Arabia saudita e gli altri stati del Golfo, non essendo più sufficienti l’Egitto e la Giordania, e prospettando una qualche forma di amministrazione “civile” a Gaza, che, essendo comunque controllata da Israele e dai suoi alleati, sia anche in minimissima parte “palestinese” (con collaboratori ancora più servili di Abu Mazen) per gestire l’eventuale “dopo Hamas”.
La rissa tra loro è indicativa di quanto siano stati messi in difficoltà dall’estrema dignità e dalla forza politico-militare che hanno mostrato, nelle condizioni più terribili, sia le masse di Gaza tra le quali Israele non è riuscita in questi mesi a reclutare circuiti di amici, sia la resistenza armata, e dal forte impatto del moto di solidarietà internazionale con il popolo palestinese. Inoltre, negli ultimi tempi, nelle dimostrazioni per il rilascio degli “ostaggi” (che giustamente i resistenti palestinesi chiamano prigionieri) si sono finalmente sentite delle prime voci contro la guerra, chiedere la fine immediata della guerra di Gaza. Merita segnalare che di recente un movimento prevalentemente studentesco composto da ebrei e da arabo-palestinesi, Standing together, molto legato alle proteste nelle università statunitensi, sta riuscendo a mobilitare su queste richieste anche migliaia di persone, e si sta impegnando nel contempo a portare camion di aiuti materiali a Gaza, dichiarandosi disposto, per difenderli, anche a scontrarsi con i coloni kahanisti protetti dalla polizia e dall’esercito (si sono per questo auto-denominati “The Humanitarian Guard”). Una dinamica che potrebbe portare ad una loro radicalizzazione, e alla separazione tra gli elementi più istituzionali e quelli disposti a andare fino in fondo sulla via della solidarietà militante ai palestinesi.
Ci viene da dire: se non ora che la catastrofe per la massa della popolazione palestinese è al suo culmine, quando?
Ce lo chiediamo mentre le immagini accuratamente filtrate che ci rimandano i telegiornali non possono fare a meno di mostrare bande di coloni israeliani mossi dal cieco fanatismo e da una rivoltante ferocia assaltare i pochi camion di aiuti alimentari destinati ad una popolazione gazawi stremata in modo indicibile, e fare scempio di riso e farina. Non sia mai che un bimbo palestinese possa scampare, grazie a quel cibo, alla morte per fame che l’esercito di Tel Aviv ha pianificato con cura, mentre le bombe sui campi profughi e sugli accampamenti nelle stesse “aree sicure” continuano il genocidio. La ferocia dei coloni è la stessa mostrata nei loro selfie dai soldati dell’IDF, sprezzanti e felici (i “coraggiosi”, gli “eroici”, l’esercito “più morale del mondo”), dopo aver fatto strage di civili, di mostrare come trofei oggetti e indumenti appartenuti ai palestinesi e alle donne palestinesi.
Abbiamo più volte affermato che l’occupazione israeliana della Palestina e la macchina bellica genocida del sionismo non potranno essere sconfitti solo dalla resistenza dei palestinesi, per quanto coriacea questa sia, e lo è. Per il ruolo cruciale che lo stato di Israele ha nel Medio Oriente, per la protezione internazionale di cui gode Tel Aviv da parte di tutte le potenze imperialiste, per la complicità dei paesi arabi (interessati a denunciare strumentalmente l’oppressione esercitata contro le masse palestinesi, ma decisi a sabotare qualunque movimento di massa nell’area che possa metterne in discussione gli interessi), la sconfitta del colonialismo sionista potrà essere solo la risultante di una sollevazione, di una rivoluzione d’area capace di terremotare l’ordine imperialista in tutto il Medio Oriente, e quindi anche di aggredire il sionismo “in casa propria”. Nell’immediato un movimento reale, pur limitato nei numeri, che dall’interno di Israele almeno denunci senza ambiguità la guerra di sterminio contro i Palestinesi ed entri in lotta per porvi fine senza indugio, come quello che sembra profilarsi, creerà ulteriori difficoltà alla macchina bellica del governo Netanyahu che già deve ammettere nei suoi vertici che non è in grado di schiacciare a lungo le genti di Gaza sotto i propri cingolati, che già ha paura di pagarne un prezzo troppo alto per essere sostenuto, che già ora si lascia sfuggire parole vietate come abisso, sconfitta (o disfatta)…
Allo stesso tempo, è evidente l’importanza del movimento di solidarietà con la causa palestinese che si è sviluppato in tantissimi paesi (tra le eccezioni Russia e Cina…) e che ha mostrato, in tutta evidenza, che la resistenza a Gaza (e in Cisgiordania) è diventata a tal punto la bandiera della lotta e della resistenza degli oppressi di tutto il mondo che anche le stesse ciniche istituzioni internazionali del capitale (dall’Onu alla Corte penale internazionale) debbono in qualche modo tenerne conto. E debbono ancor più tenerne conto i reazionari regimi arabi che sanno di essere seduti su un’autentica polveriera, e di essere invisi alle loro masse per la viltà con cui assistono da spettatori, e più spesso da complici attivi con Israele, all’orrido spettacolo della distruzione dell’habitat ecologico e civile di Gaza e al massacro dei suoi abitanti. Ma senza un salto di qualità della loro collaborazione appare del tutto impossibile – lo certificano pure le sortite di Gallant e di Gantz – progettare un “dopo-Hamas” che non sia fatto di quella guerra permanente ai palestinesi in tutto il territorio di Gaza che sia l’esercito sionista che l’economia israeliana non sono in grado di sopportare a lungo, per quanti aiuti e sovvenzioni ricevano dall’estero. Le parole inaspettate (abisso, sconfitta, disfatta) non sono venute fuori a caso. La clamorosa sconfitta politica di Israele, degli Stati Uniti e dell’UE è già evidente, formalizzata sul piano diplomatico dalla richiesta del procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan. Le crescenti difficoltà militari ed economiche, per quanto coperte e dissimulate, emergono allo scoperto giorno dopo giorno. Oramai è chiaro: Israele e i suoi protettori possono distruggere e massacrare, non possono vincere. Tanto meno conquistare “le menti e i cuori”. Ma non per questo demorderanno dai loro piani di dominio: vanno sconfitti!
Questo ci deve spingere ad intensificare anche qui gli sforzi per estendere l’appoggio alla causa e alla resistenza palestinese ovunque sia possibile, scavando un solco sempre più profondo fra lo stato sionista, i “nostri” Stati e gli sfruttati di tutto il mondo. Qui in Italia occorre denunciare con ancora più forza la complicità con gli apparati sionisti del “nostro” governo, delle “nostre” aziende (a cominciare da Leonardo e Fincantieri), delle “nostre” università, dei “nostri” porti. Una complicità che accomuna le forze politiche di maggioranza e di “pseudo”-opposizione, che mentre parlano di pace, diritti umani e necessità di uno stato palestinese (?!?), riforniscono Israele di armamenti, sono parte integrante del dispositivo bellico nazionale e cooperano perché giunga a termine la “soluzione finale” contro i palestinesi.
Opporsi con tutte le forze al genocidio in corso e denunciare fin da adesso i piani che le cancellerie dei paesi imperialisti cercano di mettere a punto perché, in un modo o nell’altro, vada avanti la colonizzazione della Palestina, la dispersione della sua popolazione e la costruzione di una “nuova Gaza” sionistizzata, è un compito della massima importanza, a cui un movimento di classe non può sottrarsi senza venir meno ai suoi elementari doveri. La resistenza palestinese è parte integrante della nostra resistenza ai poteri capitalistici nazionali e globali. Far avanzare la lotta contro il governo Meloni può contribuire ad intralciare i piani sionisti in Palestina e spingere davvero, e definitivamente, i loro ideatori ed esecutori nell’abisso.
21/5/2024 https://pungolorosso.com/
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