Israele e la pacificazione globale

Quali sono le circostanze politiche globali che hanno permesso a Israele di mantenere cinque decenni di occupazione di fronte a una comunità globale che formalmente sostiene il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale e di poter proporre a più riprese un modello sofisticato di apartheid come esempio di pacificazione interna ed esterna dei confini nazionali?

Molti hanno provato a rispondere a questa domande, ma una risposta particolarmente convincente ha a che fare con il ruolo di Israele nell’”industria della pacificazione globale”, un termine coniato dall’antropologo e attivista Jeff Halper nel suo libro del 2015 War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification[1]La tesi sostenuta da Halper, grazie anche ad uno studio analitico della tecnologia militare israeliana, è che uno stato così piccolo (attualmente con meno di 10 milioni abitanti) è riuscito ad essere una potenza economica (e politica) globale grazie alla capacità di ritagliarsi un ruolo di primo piano in particolari “nicchie” economiche fondamentali per la tenuta complessiva del capitalismo odierno e futuro, come quella delle guerre ibride e securocratiche.

In particolare, spiega Halper che l’occupazione non rappresenta un peso finanziario per lo Stato, ma esattamente il contrario, dato che la Palestina è un inestimabile campo di prova per nuove attrezzature militari al servizio dello stato di Israele e di altre forze armate in tutto il mondo.

Un testo più recente del giornalista Antony Loewenstein – The Palestine Laboratory: how Israel exports the technology of occupation around the world – è una raccolta aggiornata ricca di fonti in linea con le tesi di Halper, che illustra bene come Israele sia potuto diventare uno dei primi dieci esportatori di armi a livello mondiale con circa il 10% della forza lavoro coinvolta nel commercio di armi, con esportazioni relative alla “difesa” che hanno raggiunto un record storico nel 2022 di 12,546 miliardi ed imprese nel settore della cibersicurezza che hanno raccolto 8,8 miliardi di dollari nel 2021, rappresentando il 40% del finanziamento mondiale nel settore.

Questi primati economici sono il frutto di un lungo percorso in cui Israele ha tessuto relazioni economiche e politiche internazionali senza “guardare in faccia nessuno”, ovvero esportando armi, tecnologie ed addestramenti militari a paesi che le categorie politiche occidentali non esiterebbero a definire dittature, tra cui: il regime di Pinochet in Cile, dove Israele addestrò il personale e divenne un importante fornitore di armi dopo l’embargo degli Stati Uniti nel 1976; la Colombia, dove sia Israele che gli Stati Uniti addestrarono e armarono squadre della morte; il Guatemala negli anni ’70 e ’80 durante la guerra civile, dove Israele fornì copertura militare e installò un sofisticato centro di ascolto informatico per monitorare l’attività antigovernativa; il Nicaragua, dove armò il regime Somoza fino al suo collasso nel 1979 e si unì agli Stati Uniti contro i sandinisti; l‘Argentina durante la dittatura militare (1976-1983), dove Israele fornì armi al regime; Haiti dove fornì armamenti alla dinastia Duvalier (1957-1986); l‘Indonesia, dove dopo l’epurazione dei comunisti nel 1965-1966 Israele cercò di approfondire i legami con il regime di Suharto. Israele ha tessuto una rete globale di relazioni economico-militari davvero immensa di circa 130 paesi.

Questo spiega parzialmente come mai, nonostante “denunce e rimproveri” da mezzo mondo, Israele può continuare impunemente un genocidio ed un’occupazione militare che durano ormai da più di mezzo secolo: la “comunità internazionale” per alcuni aspetti dipende dallo stato d’Israele. Questa dipendenza lungi dall’essere una semplice compravendita di armi sofisticate, è piuttosto la capacità di vendere un modello di “pacificazione” testato e perfezionato sul campo. Ma cosa si intende per “pacificazione”?

Pacificazione, polizia ed esercito

Il concetto di “pacificazione” è stato studiato e approfondito dal professor Mark Neocleous che ne ha fatto un concetto centrale della teoria critica dell’economia politica per comprendere la natura produttiva della violenza  nella fabbricazione dell’ordine capitalista, legata in particolar modo ad un altro concetto centrale nel linguaggio sociale e politico contemporaneo: quello della sicurezza[2].

L’esplicito rifirimento al termine si trova nelle guerre di conquista spagnole ai danni degli Indios, quando ne 1573 Filippo II proclamò che tutte le future estensioni dell’impero fossero chiamate “pacificazioni” e non “conquiste”. Il concetto è sviluppato in una forma che rimane sostanzialmente intatta fino ai nostri giorni dal capitano Bernardo de Vargas Machuca nella sua ‘Milizia indiana’ (Milicia y/o descripción de las Indias, 1599): questo testo è, secondo Neocleous, a tutti gli effetti il primo manuale controrivoluzionario globale in situazioni di conflitto armato. La Spagna era coinvolta in un contesto di relazioni militari su larga scala con altre nazioni, ma era anche coinvolta nella colonizzazione di altre terre, situazione che spinse Machuca ad ignorare il modello generalizzato del conflitto armato europeo e a sostenere invece che nelle colonie era necessario un diverso modello tattico: l’idea innovativa di Machuca, in altre parole, non era l’idea classica degli scontri militari basati su unità nazionali organizzate militarmente che si confrontavano tra loro. Piuttosto, la sua idea era quella di un impero che doveva confrontarsi con popolazioni autoctone ribelli e recalcitranti in maniera duratura nel tempo. 

Non a caso il termine pacificazione è stato riesumato dal governo statunitense nel 1964-1965 come sostituto del termine “controinsurrezione”, dove per pacificazione si intendeva la strategia statunitense in Vietnam che ha dato al termine forti connotazioni di natura imperiale-militare.[3] Il concetto di pacificazione ci permette di comprendere i poteri convergenti dell’esercito e della polizia all’interno di una concezione della guerra più ampia: il potere militare e quello poliziale hanno sempre lavorato congiuntamente come strumenti attraverso cui si costituisce l’ordine sociale. Per Neocleous “mantenere la pace” e assicurare uno spazio sociale pacificato è, più o meno, la definizione di potere poliziale, ed è con l’ascesa della modernità borghese che la categoria di “polizia” è divenuta centrale nel pensiero politico, mettendo in evidenza la regolamentazione amministrativa e legislativa della vita interna di una comunità al fine di promuovere il benessere generale e le condizioni necessarie per un buon ordine: l’ordine dei mercati e della finanza internazionale.

Halper sostiene che questa nuova forma di sfruttamento economico ha introdotto una lotta di classe globale affrontata attraverso un sistema di polizia altrettanto globale, che si inserisce in quello che lui chiama ‘sistema di pacificazione globale’ sostenuto da una relativa industria in cui Israele e Stati Uniti giocano un ruolo chiave. Questo sistema può essere schematicamente diviso in un “nucleo” dominante, una semi-periferia di stati relativamente forti e le periferie con differenti “compiti egemonici” fondamentali, ognuno richiedente una diversa costellazione di strutture militari, di sicurezza e di polizia, insieme ad armi e sistemi di controllo appropriati.  La pacificazione si attua attraverso la guerra ‘securocratica’, fondamentalmente diversa dalla guerra tradizionale tra stati a causa della sua somiglianza con le pratiche di polizia. La differenza principale tra guerra e polizia è l’asimmetria di forza tra le parti in opposizione: mentre la guerra tradizionale tra stati si combatte tra forze relativamente simmetriche, la polizia è praticata sotto condizioni di dominio pre-stabilite e asimmetriche, come già chiaramente individuato da Machuca circa mezzo millennio fa. Il passaggio dalla guerra tra stati alla guerra securocratica ha coinciso con la diffusione del capitale globale e la formazione di un blocco egemonico globale: con la diffusione del capitale in tutto il mondo, si diffondono anche le forze che ne garantiscono i circuiti.

Il salto di qualità nella guerra contro il popolo

Negli ultimi vent’anni le classi dirigenti hanno sempre più focalizzato l’attenzione pubblica sulle minacce alla sicurezza, aprendo così la strada alla securitizzazione come una sorta di pacificazione.

Questo non è un trend destinato a decrescere e la “messa in sicurezza” delle frontiere è un importante aspetto della pacificazione dove i paesi egemoni si trasformano sempre più in fortezze, ghettizzandosi in stile israeliano per “difendersi” dai paesi delle periferie e dai loro flussi migratori: entro il 2025, si stima che il complesso industriale di sorveglianza delle frontiere varrà oltre 68 miliardi di dollari. Ciò significa concretamente muri più alti e confini più stretti, una maggiore sorveglianza dei rifugiati, riconoscimento facciale, droni, recinzioni intelligenti e database biometrici. Aziende israeliane come Elbit Systems, già coinvolta in imprese simili nei confini brasiliani e tra USA e Messico, sono destinate a essere tra i principali beneficiari di queste politiche.

La pacificazione ha fatto un salto di qualità dopo il 2001 estendendosi sempre di più dalle “periferie del mondo globalizzato” alle periferie delle città degli stati economicamente più avanzati, fino ad espandersi a tutta la popolazione[4]. L’industria globale della sicurezza interna (global homeland security & emergency management market) era economicamente insignificante prima del 2001; entro il 2007 era un settore da 200 miliardi di dollari e nel 2013 era cresciuta a 415,5 miliardi di dollari, guidata dalla minaccia del terrorismo transfrontaliero, dal crimine informatico, dalla pirateria, dal traffico di droga, dalla tratta di persone, dalla dissidenza interna e dai movimenti separatisti. Alcune stime proiettano la crescita dai 631 miliardi del 2023 ai 914 miliardi nel 2030. Anche la spesa militare sta ovviamente stabilendo record anno dopo anno, con il 2023 che ha raggiunto i 2.2 trilioni.

La pacificazione negli stati egemoni ha le sue particolari modalità: è confezionata in una forma “consensuale” quanto più possibile in linea con l’etica della democrazia statale. Israele ha avuto un ruolo di prim’ordine in questo progetto, come abbiamo già detto in particolar modo grazie alle sue tecnologie dual-use di eguale importanza per i mercati militari e civili, ma anche grazie al modello egemonico definito da Stephen Graham come “urbanesimo militare” (Cities Under Siege: The New Military Urbanism, 2010). Scrive Halper nel 2015:

La guerra viene così resa endemica, poiché non è né possibile né auspicabile porre fine alla “emergenza permanente” che minaccia di rendere ingovernabile la vita nel nucleo. In effetti, l’emergenza governa. Pacificare l’umanità diventa l’unico modo per rimuovere la guerra, ma tale sforzo stesso diventa un progetto violento, senza fine, totalitario – una guerra con mezzi illimitati a scopi illimitati. Il “modello” che si prevede che le persone interiorizzino costituisce la governamentalità di Foucault, una “tecnologia di dominio” che crea e impone un ordine globale autoregolante apparentemente senza fonti evidenti di sovranità e potere. Tuttavia, quando il “soft power” si dimostra inadeguato, il nucleo agisce su di esso, se non attraverso l’applicazione del diritto internazionale o appelli a regolatori sovranazionali, attraverso guerre unilaterali e operazioni di polizia “per il bene pubblico”. (trad. mia, War Against the People , p. 26)

Dopo l’11 settembre 2001 un importante salto di qualità nella pacificazione globale in cui Israele è riuscita a distinguersi è stato il periodo dell’emergenza COVID-19: questo è stato l’opportunità perfetta per le aziende israeliane di sorveglianza di attirare affari, autopromuovendosi come le migliori al mondo. Già nel marzo 2020 il Ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett annunciò che il governo stava collaborando con la società di spyware israeliana NSO Group per affrontare la pandemia, e ad aprile 2020 la NSO si promuoveva come salvatrice nei confronti dei media internazionali. (Loewenstein, The Palestine Laboratory, pp. 90-94 e p. 137).

Israele ha intensivamente utilizzato il suo servizio di sicurezza interna, lo Shin Bet, al punto da suscitare ampie reazioni dai guppi per i diritti umani israeliani che si lamentavano di come questo fosse al di sopra della legge. «Milioni di israeliani sono ora soggetti allo stesso monitoraggio in stile Shin Bet riservato principalmente ai sospetti terroristi», si lamentava Haaretz (il più importante quotidiano israeliano nell’aprile 2020) ignorando il fatto che tutti i palestinesi sotto sorveglianza dello Shin Bet non erano affatto terroristi. L’azienda israeliana Supercom, esperta in monitoraggio elettronico alle caviglie per seguire i detenuti che lasciavano il carcere negli Stati Uniti, ha visto i suoi affari crescere durante la Covid-19, con la pubblicità che menzionava esplicitamente che la sua esperienza su individui imprigionati o condannati poteva essere utilizzata per monitorare il Covid-19 nella popolazione generale. Nei media israeliani in modo non molto differente, Elbit e Rafael vantavano il loro servizio nella lotta alla pandemia da Covid, incluso l’adattamento di sistemi di comando e controllo e telecamere termiche per i missili. Un articolo su Haaretz nell’aprile 2020 citava il Dr. Oren Caspd del Rambam Medical Center di Haifa, il quale diceva: «Siamo molto bravi nelle scienze e nella tecnologia belliche, e questa è una guerra. Dobbiamo prendere le tecnologie che usiamo in guerra e implementarle nel campo medico». In nessun punto dell’articolo veniva menzionato su chi venissero normalmente utilizzate queste tecnologie: i palestinesi. Non da ultimo, Israele ha regalato al mondo il Green Pass nel febbraio 2021 nella forma più o meno inalterata in cui l’abbiamo conosciuto in Italia più tardi[5]: un concentrato di disciplina e disciplinamento militare applicato alla popolazione sotto forma di nudging (“spinta gentile”) estremo.

Arrivando ai giorni nostri, se ciò che sta accadendo a Gaza ha molteplici moventi, come nota Sophia Goodfriend in un recente articolo,[6] il genocidio a cui stiamo assistendo è «lo strumento di marketing definitivo per le aziende di armamenti israeliane». Dopo gli attacchi del 7 ottobre e la falla nella difesa del sistema antimissilistico Iron Dome, paventato come punta di diamante della sua tecnologia militare, ad Israele non è rimasto che un macabro show sul campo per rilanciare internazionalmente i suoi prodotti militari e mostrarsi al mondo come superpotenza high-tech. Le numerose start-up legate alla tecnologia militare non hanno infatti aspettato a sfruttare l’occasione per rilanciarsi, dimostrando come sia possibile capitalizzare sullo spargimento di sangue mentre si esporta il più antico ed efficace modello di pacificazione: l’annientamento.


[1]       Traduzione italiana del 2017, La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale, Edizioni Epoké.

[2]             Vedasi ad esempio War as peace, peace as pacification oppure per un articolo tradotto in italiano La logica della pacificazione.

[3]             La terminologia militare ha ormai abbandonato il termine “pacificazione”, in favore di termini più sottili come “conflitto a bassa intensità”, “operazioni non belliche” e “fenomeno a scala di grigi”.

[4]             Con la scusa di combattere la guerra tra le persone, come la battezza il generale britannico Rupert Smith nel suo trattato di guerra contemporanea The Utility of Force (2005), si è passati alla guerra contro le persone.

[5]             Va infatti notato che nella legislazione italiana il certificato è chiamato ufficialmente “certificazione verde COVID-19” e Green Pass è l’adattamento dall’inglese di Tav Yarok, come si può tranquillamente leggere su Wikipedia.

Norberto Albano

12/3/2024 https://www.lafionda.org/

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