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LE LOTTE IN FRANCIA: TRA SCIOPERO E SOGNO
Editoriale di Eliana Como
A volte le parole sono importanti. In francese la parola sciopero si dice “grève”. La grève, perché in francese lo sciopero è femminile. La parola “grève” è bella, ma ne contiene un’altra più bella ancora: “rêve”, il sogno.
Quello che sta accadendo in Francia, visto da qui, è davvero un sogno. Un paese intero che, in massa, si ribella al proprio Governo contro una riforma delle pensioni imposta dall’alto, al grido di “NO a 64 anni! Non rubateci due anni di vita!”.
Non difendono solo il salario o i diritti. Difendono la vita. E da mesi, sotto questa rivendicazione generale e unificante, portano in piazza e allo sciopero categorie di lavoro, generi e generazioni diverse. Hanno dichiarato in tre mesi più scioperi generali che noi in dieci anni, portato in piazza milioni di persone, svuotato le fabbriche, bloccato il paese. Macron non si è fermato e ha imposto la riforma che porta l’età pensionabile a 64 anni. Ma, per la cronaca, non si sono fermati nemmeno loro. Il 1 maggio sono tornati a invadere le città e promettono nuove mobilitazioni. Macron sa di non avere il consenso del mondo del lavoro, che equivale a dire che ha il paese contro.
Visto da quaggiù, sotto le Alpi, è davvero un sogno. Quando nel 2011, fu approvata la legge Fornero e portata l’età pensionabile di vecchiaia a 67 anni (mica 64!), non si mosse foglia. Tre ore di sciopero convocate svogliatamente da Cgil Cisl Uil, contro la peggiore riforma pensionistica d’Europa, imposta dall’allora governatore della BCE Draghi, per mano del Governo Monti. Una riforma che ha aumentato, in una sola notte, per le donne l’età pensionabile di ben 7 anni e sfondato per tutti quello che allora era il tetto dei 40 anni per la pensione di anzianità (oggi siamo a 42 anni e 10 mesi per gli uomini, un anno in meno per le donne). E ha introdotto il meccanismo infernale dell’adeguamento alla speranza di vita, quello per cui, senza che ne siamo consapevoli, l’età pensionabile, già più alta d’Europa, è destinata ad aumentare ancora, mentre per effetto contrario, con la revisione, anch’essa automatica, dei coefficienti di calcolo del sistema contributivo, diminuisce l’importo complessivo dell’assegno di pensione. È complicato da spiegare ma facile da capire: in Italia si va in pensione più vecchi e più poveri.
Più rassegnati, anche, visto che almeno in Francia hanno provato a ribellarsi difendendo la loro dignità a testa alta. Qui, ogni anno che passa, a prescindere dal Governo in carica, promettono un tavolo per modificare la legge Fornero, che poi regolarmente viene rimandato a data da destinarsi.
Anche quando, come in questo caso, hanno preso valanghe di voti in campagna elettorale promettendo proprio la cancellazione della riforma delle pensioni più odiosa d’Europa.
Perché in Francia, ma anche in Germania, nel Regno Unito e in altri grandi paesi occidentali il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici si ribella, mentre in Italia no?
Eppure di ragioni ne avremmo da vendere, non soltanto le pensioni, ma il salario e l’inflazione, la sanità pubblica, l’Autonomia Differenziata, la legge delega fiscale, la nuova legge sugli appalti, la drastica riduzione del reddito di cittadinanza. Senza considerare che, dal 25 settembre, a Palazzo Chigi, siede il Governo più a destra della storia della Repubblica.
Allora, cosa succede in Italia? Possibile che la Cgil inviti Meloni al suo Congresso a marzo (ve lo immaginate Macron al Congresso della CGT!) e il massimo della mobilitazione siano tre manifestazioni interregionali di sabato, senza sciopero, a maggio insieme a Cisl e Uil?
Dai giornali, il segretario generale della Cgil tuona che “non ci fermeremo fino a che non avremo risposta e siamo pronti anche allo sciopero generale a giugno”. Ma siamo certi che sia credibile?
Facciamo un passo indietro. Questo Governo è il peggiore dei nostri incubi. Le più alte cariche delle istituzioni non distinguono il confine tra fascismo e antifascismo nemmeno su Via Rasella e sulle Fosse Ardeatine. Il 25 aprile diventa la festa della Libertà e giurano di aver letto la Costituzione senza mai trovare la parola antifascismo. È un Governo che ha vissuto per anni sulla retorica del “prima gli italiani”, che odia i migranti e li considera “carico residuale” nelle operazioni di salvataggio. Un Governo che senza averci ancora spiegato cosa è davvero accaduto a Cutro, dichiara lo stato di emergenza sull’immigrazione e depotenzia la protezione speciale, con il rischio di creare ancora più clandestini alla mercé di caporali e lavoro nero. È un Governo che considera normale parlare di “sostituzione etnica”, un argomento che non è solo da ignoranti, ma razzista. Palesemente falso. Non c’è nessuna invasione. La vera emergenza che in Italia è l’emigrazione dei giovani che lasciano in massa le regioni del Sud, perché manca una politica di sviluppo. Altro che la retorica da regime dei tagli alle tasse per chi fa tanti figli. Se vogliono sostenere la libera scelta della maternità, servono nidi e asili pubblici, serve ridurre il gender gap e la precarietà, che è la vera piaga per le donne che decidono di rimandare la scelta di fare figli. Servono lavoro e infrastrutture diffuse, non il Ponte sullo Stretto o l’autonomia differenziata.
È un Governo, ancora, che ha scelto di schierarsi con i paesi ultraconservatori di Visegrad, come Ungheria e Polonia, gli stessi con cui condivide l’odio verso il movimento Lgbt+ e l’adesione medioevale ai valori del manifesto pro-life, quello per cui l’omosessualità è una devianza e l’aborto la soppressione di una vita umana (tanto che in Parlamento è depositato un emendamento per riconoscere la personalità giuridica di un feto).
In un paese normale, basterebbe questo per avere l’opposizione sociale in piazza non solo di sabato e senza il contagocce. Ma c’è molto di più. Questo è un Governo che, al netto della astensione di massa, ha preso voti anche tra i lavoratori e i pensionati, facendo promesse che non ha mantenuto. Perché, come e più dei precedenti, ha deciso di schierarsi e non dalla parte del mondo del lavoro, delle pensioni e dello stato sociale. Usano il razzismo per dire “prima gli italiani”, ma in realtà pensano “prima le imprese, prima la Confindustria, primi i liberi professionisti, prima gli evasori”.
Prima il Nord, anche, o meglio quel ceto politico e imprenditoriale del Nord, legato ai grandi potentati della sanità privata, che pretende l’autonomia differenziata per fare altre privatizzazioni in Lombardia e Veneto, a costo di dividere ancora di più un paese già diviso e abbandonare ancora di più un Sud dove già oggi lo stato sociale è al collasso.
Basterebbe spiegare ai lavoratori e alle lavoratrici che la promessa, tanto sbandierata in campagna elettorale, di abrogare la legge Fornero non viene rispettata. Nel DEF non ci sono risorse. Siamo fermi a quota 103, con “opzione donna” che, oltre alle precedenti penalizzazioni economiche, di fatto è diventata “opzione mamma”, dentro a quella stessa logica sessista e familista degli sconti fiscali a chi fa più figli, quella che considera le donne in quanto mamme, non in quanto lavoratrici. Bisogna anche spiegare che nel DEF non ci sono le risorse per i contratti del settore pubblico. Non ci sono le risorse per la sanità pubblica e per rendere effettiva la legge sulla non autosufficienza.
Che la precarietà non soltanto non è contrastata ma viene favorita, prima con la reintroduzione dei voucher, poi, nel decreto del 1 maggio, con l’estensione a 24 mesi del periodo in cui non è meno stringente la causale per i contratti a termine e in somministrazione.
Va spiegato anche che, mentre la legge delega fiscale promette sgravi fiscali alle aziende e riduzione delle aliquote ai liberi professionisti autonomi, per il lavoro dipendente, il taglio del cuneo fiscale, annunciato quasi come il “nuovo miracolo italiano”, si tradurrà più o meno in 50 euro netti in busta paga da luglio a dicembre. Una tantum, quindi, tutt’altro che miracolosa e soprattutto ottenuta con la contemporanea drastica riduzione del reddito di cittadinanza. Con una mano si dà qualcosa (poco) ai lavoratori e alle lavoratrici dipendenti con meno di 35mila euro di reddito annuo, con l’altra si toglie a lavoratori e lavoratrici povere e disoccupate l’unica misura di contrasto alla povertà che avevano.
Per esplicita ammissione del Governo, il taglio del cuneo fiscale serve a ottenere moderazione salariale. Si sta dicendo che, in questo paese, 30 anni di moderazione salariale non bastano ancora, ne serve altra! Nonostante abbiamo i salari ultimi in Europa per aumento del potere d’acquisto, con un costo del lavoro che compete, insieme a Grecia e Spagna, con Polonia, Ungheria, Romania, distante 10 punti da Francia e Germania.
A questo risponde anche il taglio del reddito di cittadinanza, che è una misura che, oltre a essere una misura contro la povertà, è stato anche un modo per scoraggiare i salari da fame, quelli da 700/800 euro al mese, quelli che dovrebbe vergognarsi chi li offre, non chi, giustamente, si rifiuta di accettarli.
Per la stessa ragione, sono contrari al salario minimo. Lo hanno detto chiaramente, Meloni anche al Congresso della Cgil, giocando sulle contraddizioni di chi da anni discute se sia meglio il salario minimo o la riforma della contrattazione, come l’uovo o la gallina, senza accorgersi che intanto, non si fa né uno né l’altro.
Per me salario minimo e contrattazione non sono in contraddizione, anzi. Lo dice il modello tedesco, dove il salario minimo è la paga minima oraria, quella che sta in alto a sinistra nella busta paga, che non comprende gli altri istituti della contrattazione, le ferie, il TFR, i contributi. È la soglia oraria sotto la quale non può andare nessun contratto nazionale e nessuno che svolga quella mansione.
Il salario minimo serve a tutelare i più deboli e questo spinge verso l’alto i contratti nazionali più forti. Non possiamo far finta di non vedere che ci sono contratti in settori deboli, che non vengono rinnovati da anni.
Il contratto della distribuzione commerciale è scaduto a dicembre 2018, lavoratori e soprattutto lavoratrici che erano essenziali durante la pandemia, che non si sono fermate un giorno, ma il cui contratto a oggi ancora non si riesce a rinnovare. Per non parlare del settore del multiservizi, anche in questo caso soprattutto lavoratrici senza cui ogni ospedale, scuola o fabbrica si fermerebbe, rinnovato dopo quasi 10 anni. O il contratto della vigilanza privata, da 4 euro l’ora, firmato anche da Cgil Cisl Uil, incostituzionale per la stessa Cassazione. A questo serve il salario minimo, a tutelare i settori più deboli.
Poi, certo, discutiamo anche di riforma della contrattazione, che non è possibile che esistano 900 contratti nazionali, di cui due terzi firmati da sindacati di comodo per fare dumping contrattuale e salariale.
Discutiamo anche di come si rinnovano i contratti nei settori relativamente forti, del fatto che il salario non può essere una variabile dipendente della produttività o del merito, soprattutto nei settori pubblici, nella sanità, nella scuola, dove il lavoro è legato alla cura, alla conoscenza, ai servizi e il merito è ancor meno quantificabile di chi fa bulloni.
E discutiamo, nei settori industriali, del fatto che l’indice IPCA, a cui sono legati gli aumenti, non ha mai funzionato: non faceva aumentare i salari quando l’inflazione era a zero e i metalmeccanici, come nel 2017, hanno preso il 1,5 euro lordi di aumento; non li fa aumentare ora che l’inflazione è alle stelle e gli stessi metalmeccanici prendono 80 euro avendone persi il doppio per effetto dell’inflazione.
In questo quadro, è davvero possibile rimandare ancora una mobilitazione del mondo del lavoro? Il paese andrebbe mobilitato oggi. Anzi ieri, perché siamo già in ritardo. Le manifestazioni di sabato, senza sciopero, sono poco e anche se diciamo che “andremo avanti fino a che non avremo ottenuto ciò che chiediamo”, se non mettiamo in campo iniziative più radicali, rischiamo di non essere credibili. Tanto più che questo Governo non ha nessun rispetto del sindacato. Ci ha convocati la sera prima di varare un decreto sul lavoro che provocatoriamente ha voluto presentare il 1 maggio, tentando la maldestra operazione di appropriarsi della nostra festa, permettendosi pure di commentare che avremmo dovuto dire che bravi che sono a tagliare il cuneo fiscale e addirittura ringraziarli.
È fin troppo evidente che lo sciopero non basta dichiararlo, altrimenti avremmo risolto il problema: scioperi generali dichiarati da sigle di base ne abbiamo già due in calendario, pure in date diverse. Ma non è quello che ci serve. Lo sciopero va costruito, perché sui risultati siamo misurati e se sono impietosi l’effetto è controproducente. È per questo che non è comprensibile per la Cgil attendere ancora, passando maggio a fare cortei di sabato, frenata dalla Cisl, per poi arrivare a giugno a dichiarare lo sciopero tardi, come è stato a dicembre, accorgendosi solo allora che abbiamo 10 giorni per prepararlo.
È ora il tempo per iniziare a costruire la prospettiva dello sciopero generale, intrecciando le manifestazioni già decise a un percorso di scioperi articolati nei posti di lavoro, nei territori e nelle categorie. Anche da soli. Anzi, forse meglio da soli, perché è chiaro che la Cisl non è disponibile a fare opposizione sociale al Governo e cerca il dialogo a tutti i costi, anche in cambio di poco o niente. D’altra parte, lo sciopero non è necessario soltanto per radicalizzare la mobilitazione, ma perché, alla radice, nelle nostre rivendicazioni salariali la controparte non può essere solo il Governo, come è stato anche con Draghi, ma le imprese.
Con questa inflazione, non c’è sgravio fiscale che tenga. Serve una svolta sulla politica salariale. Anche se ottenessimo sgravi fiscali maggiori, se non c’è una riforma fiscale patrimoniale, cioè se non si prendono i soldi da chi li ha, il risultato non possono essere che altri tagli allo stato sociale, cioè al salario indiretto. Le risorse vanno prese dai profitti. Questa spirale inflazionistica non dipende dall’aumento dei salari, che è l’unica cosa che non è aumentata in questi mesi. L’inflazione, in questo caso, dipende dalla spirale dei profitti, lo ammette la stessa BCE. Sono i profitti che vanno tassati e sono le imprese che devono alzare i salari. Altro che moderazione salariale.
Questo che va spiegato ai lavoratori e alle lavoratrici. Questo Governo si è schierato contro il mondo del lavoro: moderazione salariale, niente abrogazione della Fornero, niente salario minimo. Si è schierato contro i poveri con il depotenziamento del reddito di cittadinanza. Contro la sicurezza sul lavoro, anche, a partire dalla liberalizzazione dei subappalti pubblici. Contro lo stato sociale e esplicitamente contro il Sud con l’autonomia differenziata.
E se è così, va anche detto, finalmente che è ora di cambiare passo: basta fare come in Italia, iniziamo a fare come in Francia, archiviando anni ormai di immobilismo del sindacalismo confederale, da un lato; di divisione e settarismo di quello di base, dall’altro.
Non è facile, perché pesano anche decenni di arretramenti salariali e di precarietà, di divisioni, frammentazioni, chiusure corporative anche. Ma per questo è ancora più urgente una visione complessiva, che sappia tenere dentro a una unica grande vertenza i rinnovi contrattuali: dall’industria, alla grande distribuzione commerciale, al settore pubblico, alla logistica.
Un minimo comune denominatore, che, come in Francia quando dicono “non rubateci la vita”, tenga insieme, dentro a una nuova stagione di mobilitazione, chi vuole andare in pensione, chi non arriva a fine mese, chi ha un contratto precario, chi lotta per i diritti, la pace e l’ambiente.
Già perché il Governo non si è schierato solo contro il mondo del lavoro, ma anche contro la pace, in continuità con il precedente. L’Italia continua a essere uno dei principali paesi europei che, sotto l’egida della Nato, invece che cercare una soluzione diplomatica, invia armi che alimentano una guerra disastrosa. Il Governo si è schierato anche contro la transizione energetica e a favore dei rigassificatori e delle multinazionali dell’energia fossile.
È grave il decreto contro Ultima Generazione: 40mila euro di multa e 3 anni di carcere. Come per l’immigrazione, quando non riescono a risolvere un problema, usano il pugno di ferro e gestiscono la politica come fosse un problema di ordine pubblico, inventandosi una nuova emergenza o un’altra ondata di repressione e criminalizzazione. Se usassero la stessa determinazione per la siccità e la transizione energetica forse saremmo un paese migliore. Anche se venisse usata altrettanta fermezza contro chi inquina, devasta, saccheggia, cementifica, distrugge valli, fiumi, laghi, territori interi.
È molto ipocrita anche l’indignazione di quelli che usano la sacralità dell’arte per mettere alla gogna chi denuncia che è il pianeta a essere in pericolo. Ad oggi, nessuna opera d’arte «si è fatta male» a causa di Ultima Generazione, la vernice si lava e se piovesse, se ne andrebbe da sola. Il pianeta, il clima, la natura, nel frattempo, invece bruciano. Se è dovere dell’umanità tramandare l’arte ai posteri, assicuriamoci che ci sia un pianeta da tramandare ai posteri.
Parliamo piuttosto di quali sono i danni causati sulle opere d’arte dalle piogge acide, dall’inquinamento, dal turismo di massa. A Roma insorgono per il carbone vegetale nella Barcaccia a Piazza Spagna. Magari avessero tirato fuori la stessa rabbia, quando costruivano la metropolitana sotto il Colosseo e i Fori Imperiali. Se l’arte è un bene primario e inviolabile, poi, spieghino perché chi lavora in questo settore ha salari da fame, gavette infinite, lavoro gratuito, catene di appalti e subappalti, precarietà senza fine.
La verità è che aveva proprio ragione Peppino Impastato, di cui questo mese, il 9 maggio ricorrono 45 anni dall’assassinio per mano della mafia. “Se si insegnasse la bellezza si fornirebbe la gente di un’arma contro la rassegnazione, l’omertà, la paura”. La bellezza è un’arma ed è per questo che non la insegnano. Perché fa più profitto inquinare, cementificare, devastare. E la rassegnazione, la paura, l’omertà sono funzionali al sistema. Le lotte in Francia in questi mesi non sono soltanto radicali, sono belle! Forse perché da loro la parola sciopero fa rima con sogno. Torniamo a sognare anche noi.
Eliana Como
Prima fimataria del documento alternativo “Le radici del sindacato” al XIX congresso della CGIL
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