Italia operaia. Uno stato di crisi. Guarda la mappa
Un messaggio via Whatsapp, un’email o una video-conferenza su una piattaforma informatica. Ad alcune aziende basta poco per licenziare. “Non mi interessa quello che succede a quelle persone. Non è un problema mio perché altrimenti diventiamo non più un’azienda che deve stare sul mercato, ma una Croce Rossa dei dipendenti della vecchia Alitalia”, ha detto il 12 gennaio alla commissione Trasporti Alfredo Altavilla, ex manager Fiat e presidente di Ita Airways, azienda che ha raccolto la pesantissima eredità della compagnia aerea. Sembra un film di Ken Loach, ma è cronaca di tutti i giorni: le aziende chiudono e i lavoratori restano a casa. Al ministero per lo Sviluppo economico del leghista Giancarlo Giorgetti, la struttura che si occupa delle crisi d’impresa guidata da Luca Annibaletti nel 2021 ha affrontato 69 tavoli di crisi, di cui 55 tavoli attivi e 14 di monitoraggio, cioè di aziende uscite dalla tormenta, ma comunque da tener d’occhio. In totale, si stimano oltre 80mila lavoratori coinvolti, che poi vuol dire intere famiglie e comunità locali in un baratro economico e sociale. La Fim, sindacato dei lavoratori metalmeccanici della Cisl, in un suo recente report conta, soltanto nel suo settore, 51 tavoli di crisi al Mise e 56 tavoli regionali, per un totale di 54mila lavoratrici e lavoratori coinvolti.
Le riconversioni difficili
“Le crisi sono di natura finanziaria, industriale o legate alla chiusura o riconversione di impianti produttivi”, diceva Annibaletti all’Ansa a inizio 2022. A gravare sull’industria questioni con origini lontane nel tempo e, adesso, anche l’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia o la carenza di componenti. Quest’ambito, che nel 2018 dava lavoro a 212mila persone, è tra i più colpiti e risente della sfida della transizione ecologica e del passaggio dai motori a benzina a quelli elettrici. Il ritardo nella riconversione colpisce anche il settore siderurgico (secondo i sindacati, sono quasi 60mila i lavoratori quelli dell’acciaio), legato non soltanto alla crisi dell’ex Ilva, ma anche alla partita della decarbonizzazione. Molto colpito il settore degli elettrodomestici, in cui l’Italia la faceva da padrona, e quello aeronautico, in sofferenza per il netto calo del traffico. Alla lista si aggiungono il settore petrolchimico, legato anche al calo di consumi energetici e dove la prospettiva della transizione energetica secondo Fim-Cisl lascia “presagire ripercussioni sul piano occupazionale”; quello dei porti, influenzati dalle crisi delle aree industriali vicine, e delle telecomunicazioni, in particolare intorno al futuro di Tim.
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Delocalizzare conviene ancora
A inizio gennaio il viceministro Alessandra Todde (M5s) ha sottolineato come il numero di tavoli (69) sia sceso rispetto ai 149 del dicembre 2019: “I dossier sono stati affrontati e portati avanti, proponendo soluzioni dove era possibile farlo”. Ci sono però alcuni aspetti di cui tener conto nella conta delle vertenze: alcune aziende sono ormai chiuse; altre trattative sono passate dal Mise al ministero del Lavoro (ad esempio Air Italy ed Embraco) per stabilire le indennità di disoccupazione o altri ammortizzatori sociali; altre ancora – come Tirrenia – al ministero dei Trasporti. Per di più nel conteggio non figurano le aziende con meno di 250 dipendenti, che restano ai tavoli regionali, come la Saga Coffee.
Nonostante gli annunci del governo “i numeri restano drammatici”, sostiene Silvia Spera, responsabile della contrattazione nazionale della Cgil che partecipa a molti tavoli. Lo Stato ha tentato di tamponare. Con lo scoppio della pandemia ha bloccato i licenziamenti per alcuni settori e ha introdotto la specifica cassa integrazione covid. Nell’ultimo anno ha adottato una nuova strategia: tramite il Fondo di salvaguardia d’impresa è entrato in otto aziende (Corneliani, Sicamb, Canepa, Slim Fusina, Jabil e altre) per risanarle. Il governo è al lavoro su alcune norme anti-delocalizzazione, ma lo scorso dicembre il previsto aumento delle sanzioni contro le multinazionali che chiudono gli stabilimenti ha registrato una forte mediazione al ribasso. Le difficoltà del Mise hanno avuto un’ulteriore epifania, a fine gennaio, nell’ipotesi di dimissioni del ministro Giorgetti: “Manca una politica industriale generale, capace di sostenere le filiere e guidare la transizione, mentre invece si procede caso per caso. Il governo interviene coi sostegni, ma non si può fare soltanto assistenzialismo. Confindustria partecipa ai tavoli, ma non si attiva a cercare imprenditori”, denuncia la sindacalista.
I dati
22.919.000 – Gli occupati in Italia
58,4% – Il tasso di occupazione | 9,2% – Il tasso di disoccupazione
(Dati Istat – Dicembre 2021)
3,947 milioni – I lavoratori (dipendenti e non) dell’industria manifatturiera a fine 2020 (dati Istat)
270mila – Automotive
760mila – Tessile, calzature, legno, carta e altri
199mila – coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, fabbricazione di prodotti chimici e farmaceutici
1,39 milioni – gomma, materie plastiche e altri prodotti di minerali non metalliferi, attività metallurgiche e fabbricazione di prodotti in metallo, esclusi macchinari
742mila – computer, elettronica e ottica, fabbricazione di macchinari e apparecchiature n.c.a
452mila – mobili, altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine e apparecchiature
314 mila – energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata, fornitura di acqua, reti fognarie, attività di trattamento dei rifiuti e risanamento
19 – Aree di crisi complesse: sono zone in cui l’economia e la società subiscono le ripercussioni delle crisi di una o più grandi imprese e del loro indotto oppure o di uno specifico settore industriale
Andrea Gianbartolomei, Davide Romanelli
27/4/2022 Da lavialibera n° 12
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