Jobs Act, demansionati e precari.
Il Jobs Act – la votazione del Parlamento si limitò a “delegare” al governo il potere di agire di testa propria – si riempie ora di contenuti. Evitiamo di dire di quale materia organica, perché ci scapperebbero gli insulti.
I media padronale strombazzano l’avvio del “contratto a tutele crescenti”, quell’aborto teorizzato alcuni anni fa da Pietro Ichino e oggi diventato legge. In pratica, l’impresa può fare come vuole. Può assumere con “contratto a tempo indeterminato” (e così incassare le agevolazioni statali), ma non sarà affatto vincolata a tenersi il lavoratore assunto. Le “tutele crescenti”, infatti, sono una foglia di fico a copertura della totale assenza di tutele.
Nei primi tre anni, per esempio, è come se fossi un normale precario. Licenziabile in ogni momento, senza particolari cerimonie, e un indennizzo ridicolo (parametrato sulla durata del periodo di assunzione). Poi… resti comunque nella stessa condizione, perché l’articolo 18 non esiste – di fatto – più. Un indenizzo e via, anche in caso di licenziamento per “ingiusta causa”. Anche se siete al lavoro da anni, però, non illudetevi di prendere cifre favolose: “indennizzo monetario crescente, in base all’anzianità di servizio (con un tetto a 24 mensilità)”. Ben che vada, insomma, vi danno due anni di stipendio e un calcio nel sedere.
Il governo aveva promesso che questa boiata serviva a “disboscare” la giungla dei contratti atipici. Falso assoluto. Il disboscamento non è stato nemmeno preso in considerazione: delle 47 tipologie ci contratto precario, infatti, ne restano “solo” 45. Una presa per i fondelli di dimensioni galattiche, cui i sindacati concertativi hanno opposto un pensoso “ohibò”. Iniziative di lotta: zero.
In pratica il “decreto sul riordino dei contratti” si limiterà a stabilire i criteri per cui una “collaborazione” potrà essere considerata “lavoro subordinato” (prestazioni reiterate secondo un orario definito dal committente, eseguite in base a ordini gerarchici). In più, ma a partire dall’anno prossimo, verranno cancellate le collaborazioni a progetto. Ma non tutte: resteranno quelle disciplinate da “accordi collettivi” firmati da sindacati disponibili.
Spariscono soltanto due fattispecie contrattuali; l’associazione in partecipazione e il jobs sharing (che però nessuna impresa usava: meno di 300 contratti). Al contrario, per lo staff leasing si parla di cancellazione delle causali, quindi di totale libertà per le imprese, che non dovranno più “motivare” perché ricorrono a questa modalità di assunzione anziché con contratto a tempo indeterminato. I contratti a termine restano invece come sono: tetto massimo di durata di 36 mesi, comprensivo di 5 proroghe.
Peggio ancora per i licenziamenti collettivi, da cui persino una parte del Pd aveva chiesto di stralciare le norme che consentiranno all’azienda di selezionare i lavoratori da licenziare in barba a ogni criterio già definito dalla legislazione esistente (anzianità di servizio, reddito familiare, figli a carico, ecc). Renzi ci ha pensosamente pensato su e pi ha deciso che no, meglio lasciare all’arbitrio padronale scelte di questo tipo. Ci mancherebbe solo che ci fossero ancora delle leggi che difendono anche solo in piccola misura il lavoratore… Non sarebbe “moderno e civile”.
Inutile dire che era proprio questa la soluzione pretesa dalle imprese. basta ascoltare il presidente di Federmeccanica, Fabio Storchi: «I licenziamenti collettivi devono rimanere inseriti nel contratto a tutele crescenti perché sono per definizione licenziamenti economici e quindi oggettivi. Una differente disciplina dei licenziamenti economici collettivi rispetto a quelli individuali non è presente in alcun Paese europeo e neppure fuori dall’Europa e, se si dovesse attuare, ridurrebbe l’efficacia e quindi la credibilità della riforma».Come detto: non sarebbe “moderno e civile”.
Pessime notizie ovviamente anche sul fronte ammortizzatori sociali. Prenderà corpo da maggio il Naspi, definizione che mette insieme Aspi e mini-Aspi della Fornero (sembra passato un secolo, vero?). Durerà al massimo due anni. Potrebbe sembrare un tempo congruo per sostenere il reddito di chi è alla ricerca di un nuovo lavoro in questo paese disgraziato. E infatti il governo ha fià previsto di ridurlo a solo un anno e mezzo, a partire dal gennaio 2017.
Ma ancora più infame è la parte che riguarda il “demansionamento”. Come riferisce anche IlSole24Ore: “
Le imprese, in via unilaterale, potranno variare le mansioni di un lavoratore in tutti i casi di «modifica degli assetti organizzativi» (una nozione più ampia di quella contenuta nella delega, che limitava tale facoltà alle sole ipotesi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale). Se si percorrerà questa strada, l’attribuzione unilaterale a nuove mansioni non potrà scendere «sotto un livello di inquadramento» e non dovrà comportare «modifiche alla retribuzione in godimento» al momento del cambio dell’incarico.
La contrattazione collettiva, compresa quella aziendale, avrà comunque sempre la possibilità di individuare ulteriori ipotesi di modifica, anche in pejus, delle mansioni. Spazio anche a un rafforzamento normativo dei patti modificativi delle mansioni “certificati”, quelli cioè sottoscritti in sede protetta”
Praticamente un mobbing autorizzato.
Insomma: tutto il peggio della “vecchia” precarietà coniugato con tutto il peggio della “nuova” assenza di tutele legislative. Per il lavoro dipendente si profila un futuro medioevale.
20/2/2015 www.contropiano.org
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