KAMALA HARRIS: LA SORPRESA E LE INCOGNITE

L’improvvisa esigenza, per il Partito Democratico Usa, di prendere atto dell’atto di rinuncia di Joe Biden in quella che, credo, sarà la “feroce” campagna elettorale che caratterizzerà l’imminente confronto per la corsa alla Casa bianca, potrebbe alla fine rivelarsi un inaspettato quanto inimmaginabile “stroke of luck”!

In effetti, nonostante già da alcuni mesi non pochi parlamentari e dirigenti del Partito avessero mostrato poco entusiasmo e scarsa partecipazione nel continuare a sostenere la candidatura di un Joe Biden che appariva in stato confusionale e con momenti di scarsa lucidità, ancora nessuno aveva azzardato alcun nuovo nome da opporre alla (apparentemente inarrestabile) “massa d’urto” rappresentata da Donald Trump.

Quindi, Kamala Harris – in quanto donna e, per giunta, di colore – designata direttamente da “nonno” Biden quale sua erede naturale, è apparsa l’ultima e, soprattutto, felice intuizione dell’anziano leader democratico.

Un’investitura che, supportata dal sostegno assicuratole venerdì 2 agosto da 2.350 delegati – in numero superiore alla soglia prevista per la <nomination> – e da circa 1,5 mln di persone che hanno già donato 80 mln di dollari(1) per finanziare la sua campagna elettorale, rappresenta un indubbio successo per i Democratici Usa.

Una corroborante iniezione di fiducia per un partito che, dopo il crollo di Biden nei sondaggi successivi al confronto televisivo con Trump (del 27 giugno u.s.), si apprestava ad affrontare una difficilissima campagna elettorale condizionata da due importanti fattori che considero determinanti: l’aumentata popolarità di Trump dopo l’attentato in Pennsylvania ed il consistente ridimensionamento delle donazioni, sia di quelle che ciascuno elettore può effettuare, per un massimo di qualche migliaio di dollari, attraverso i Comitati di Azione Politica (Pac) che raccolgono fondi a favore di un partito o di un singolo candidato, sia di quelle che, attraverso i c.d. “Super Pac”, rappresentano i contribuiti (di qualsiasi importo) offerti dai grandi donatori.

Basti pensare che solo le “piccole donazioni” a favore del Partito Democratico ammontavano mercoledì 24 luglio a circa 126 mln di dollari(1), mentre pare che i donatori con grandi disponibilità economiche abbiano già versato qualcosa come 150 mln di dollari(1).

Alle stesse andranno aggiunti circa 95 mln donati al Partito prima che Joe Biden assumesse la decisione di fare un passo indietro.

Si tratta, in definitiva, di un’enorme quantità di denaro che, naturalmente, come nella migliore (o, forse, peggiore) tradizione Usa, finirà con lo svolgere un ruolo determinante rispetto alle scelte politiche dell’Amministrazione vincente, senza grandi e sostanziali differenze tra Democratici e Repubblicani; soprattutto su temi di politica interna.

È in questo senso che, credo, gli elettori statunitensi dovrebbero chiedersi se allo “stroke of luck” del Partito Democratico – nell’essersi improvvisamente ritrovato con una candidata che potrebbe facilmente sfondare nell’immaginario collettivo statunitense – corrisponderanno diffusi vantaggi e benefici sociali.

Per il momento, rinvio ad altra occasione, un approfondimento su quelle che potrebbero essere le conseguenze, sia in termini di politica interna che estera, di un eventuale successo dei repubblicani. Rilevo solo che, come spesso verificatosi in passato nella storia politica d’oltre Atlantico, molto probabilmente anche un nuovo governo Trump si differenzierebbe dal precedente (di matrice democratica) soprattutto rispetto ad alcuni temi di politica estera.

Penso, ad esempio, a un diverso approccio e a qualche sostanziale cambio di rotta rispetto alla questione Russia/Ucraina piuttosto che a quella Israele/Palestina.

Comunque, quello che veniva rappresentato quale confronto tra un Presidente in carica sostanzialmente semi/rimbambito e un potenziale delinquente autore di più reati, è subentrato uno scontro tra due personalità politiche entrambe molto controverse.

Dico questo in ragione del passato politico della nuova candidata democratica che, oggettivamente, pare non offrire sufficienti garanzie in termini di coerenza di principi e, conseguenzialmente, linearità nelle decisioni e nelle scelte.

Infatti, il passato di Kamala Harris appare particolarmente articolato. Qualcuno la definisce una personalità per lo meno camaleontica, se non, addirittura, quale cinica trasformista e spietata opportunista!

Il suo percorso politico ebbe inizio, successivamente ai ruoli di Procuratore a San Francisco (dal 2004 al 2011) e di Procuratore generale della California, attraverso l’elezione al Senato, nel 2016, ai danni di una collega democratica con numerosi anni di esperienza politica alle spalle: la molto più nota Loretta Sanches.

Da lì, un’esperienza ed un’attività politica, fino al livello di Vice di Biden, senza particolari acuti; con un gradimento, da parte del grande pubblico democratico, tutt’altro che esaltante e una serie di “scivoloni”.

Le note a mio parere più dolenti e, in quanto tali, meritevoli di riflessione ed approfondimento, soprattutto da parte di quanti auspicano di ritrovarla quale futura inquilina della Casa Bianca, sono però rappresentate tanto da ciò che definirei il suo non condivisibile (perchè reiterato) “trasformismo” quanto dai (troppo) frequenti cambi di opinione rispetto a questioni e problematiche di grande rilevanza politico-sociale ed importante impatto mediatico.

In questo senso, le cronache raccontano che già in occasione della corsa per la rielezione(2) a Procuratore generale della California Kamala Harris era clamorosamente riuscita a recuperare il voto di tutti i poliziotti – che nella precedente tornata elettorale glielo avevano negato – cambiando radicalmente posizione rispetto all’eventuale applicazione della pena capitale.

La seconda volta, infatti, il sostegno dei poliziotti le era stato garantito in quanto, nel corso del suo primo mandato da Procuratore generale della California, aveva ritenuto opportuno (e utile ai suoi fini personali) impugnare la decisione di un giudice che aveva dichiarato incostituzionale il ricorso alla pena di morte, impedendo – di conseguenza – che venisse per sempre bandita nello stesso Stato del quale, in precedenza, era stata semplice Procuratore distrettuale, all’epoca in cui si dichiarava convintamente contraria all’esecuzione capitale!

La stessa esigenza di continuare a godere dell’appoggio dei poliziotti la indusse, nel 2015, ad opporsi a un disegno di legge del legislatore californiano teso a prevedere un’indagine <indipendente> dopo ogni morte provocata dalla polizia.

Così come, poco più tardi, operò per impedire l’applicazione di una regola generale che imponesse a tutti i poliziotti della California di avere addosso una video camera. Salvo ricredersi successivamente e, una volta eletta al Senato (nel 2017), diventare una strenua sostenitrice di simili provvedimenti!

E non solo questo.

All’epoca in cui era in corsa, per la prima volta, per la carica di Procuratore generale aveva sostenuto (e scritto in un suo libro) che ad una maggiore presenza di poliziotti nelle strade sarebbe certamente corrisposta maggiore sicurezza sociale.

Però, appena alcuni anni dopo, quando ritenne di non avere più bisogno del sostegno elettorale dei poliziotti, la senatrice Kamala Harris – in ossequio al suo ormai consolidato trasformismo politico – espresse una posizione diametralmente opposta, sostenendo: “In America abbiamo confuso la sicurezza delle comunità con l’assunzione di un maggior numero di poliziotti che presidino le strade, invece di investire nelle comunità stesse”.

Altrettanto ondivaga e sufficientemente variabile, rispetto ai possibili vantaggi politici che ne sarebbero scaturiti, fu la posizione di Harris rispetto all’eventuale legalizzazione della marijuana. Partì da una posizione di assoluta contrarietà salvo poi approdare (da senatrice) alla totale legalizzazione. Naturalmente, aveva anche attraversato una fase intermedia, prevedendone l’uso ad esclusivo scopo terapeutico.

Altrettanto mutevole, in ossequio alla convenienza politica del momento, la posizione di Kamala Harris su di una legge californiana che, richiamando il gioco del baseball, è nota quale: “Terzo strike(3)”.

Si tratta di una legge che, frutto di una volontà repressiva senza uguali al mondo, prevedeva una pena tra i 25 anni e l’ergastolo per coloro che si fossero resi responsabili di un terzo reato (indipendentemente dalla sua gravità). Una norma semplicemente vergognosa e, a mio parere, indegna di un Paese civile!

Successivamente però, all’epoca della sua prima ma sfortunata avventura presidenziale (nel 2019), Harris aveva già cambiato idea sulla bontà della legge ed esprimeva contrarietà rispetto a norme che fino a pochi anni prima aveva condiviso e solo successivamente, per scopi esclusivamente elettoralistici, definiva responsabili di “incarcerazioni di massa” e causa del sovraffollamento delle carceri.

Inoltre, come se tutto ciò non fosse già sufficiente per attivare più di un segnale d’allarme, altre cupe nubi si addensano sull’orizzonte a stelle e strisce. Soprattutto su quello dei lavoratori dipendenti.

Una di queste è rappresentata da quella che appare una vera e propria crociata che le più importanti Corporation, con il sostegno del grande business, hanno intrapreso nei confronti di Lina Kahn, nominata da Joe Biden, nella primavera del 2021, Commissario della Federal Trade Commission; un Organismo federale a tutela del consumatore e per la prevenzione delle pratiche anticoncorrenziali.

In sostanza, secondo il parere di alcuni osservatori internazionali(4), coloro che si oppongono a Lina Kahn punterebbero sull’elezione di Kamala Harris – contribuendo, allo scopo, con finanziamenti pari a centinaia di mln di dollari – per ridimensionare la capacità operativa della FTC, allontanare Lina Kahn e, tra l’altro, ripristinare quelle clausole contrattuali <non compete-clauses> che “ingabbiano” i lavoratori statunitensi perché non consentono loro di dare le dimissioni per ricercare un posto di lavoro, nello stesso settore produttivo, meglio pagato.

Una norma vessatoria che, da sola, denuncia quanto, in realtà, possa rivelarsi fragile una Democrazia soltanto dichiarata, più che concretamente applicata!

Concludo e, naturalmente, rifuggo dal ricorrere ai termini cui Donal Trump ha ormai abituato gli elettori statunitensi, secondo i quali, ad esempio, la Harris non è affidabile perché “è una stupida con un basso Q.I.”.

Sostengo, però, che la candidata progressista sia portatrice di una linearità politica poco rassicurante e presenti un’incoerenza personale davvero preoccupante per essere un soggetto cui, eventualmente, affidare la propria sorte personale ed il destino di una nazione.

NOTE

  1. Fonte: “volerelaluna”, del 1agosto 2024)
  2. Come noto, negli Usa, le cariche sostanzialmente corrispondenti al nostro Pm sono di carattere elettivo
  3. Di pregevole fattura, al riguardo, “Il terzo strike, la prigione in America”, di Elisabetta Grande
  4. Autorevolissima, in questo senso, Elisabetta Grande

Renato Fioretti

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

5/8/2024

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