La “buona università” e la società dell’ignoranza.
Non si può dire che i fautori delle politiche neo-liberali non abbiano avuto pazienza: hanno smontato pezzo per pezzo il cosiddetto Stato sociale, affermatosi in Europa dopo la seconda guerra mondiale in un contesto mondiale diviso in due blocchi antagonistici, anche per effetto del protagonismo di una parte importante della popolazione, che aveva partecipato alla sconfitta del nazi-fascismo.
Ovviamente mi limiterò a descrivere per sommi capi come questo processo di smantellamento abbia riguardato anche l’università pubblica italiana, il cui compito avrebbe dovuto essere quello di contribuire, insieme alla scuola, alla formazione di un cittadino consapevole delle proprie scelte politiche e in grado valutare criticamente i diversi punti di vista, che si scontrano nella dialettica sociale. Avrebbe anche dovuto favorire l’ascesa di almeno alcuni appartenenti alle classi popolari, allo scopo di attutire le forti differenze sociali e culturali presenti in Italia e di rafforzare le basi democratiche del paese. Non per caso ho usato il condizionale, perché di fatto tali compiti non sono mai stati assolti dall’università italiana prima delle cosiddette “riforme”, ma certamente dopo di esse tali obiettivi vengono completamente abbandonati ed etichettati come “ideologici”.
Innanzi tutto bisogna dire che lo stravolgimento dell’università italiana deve essere inserito in un disegno elaborato alla fine degli anni settanta dalla Banca Mondiale e immaginato per essere esteso a livello planetario, in particolare in quei paesi in cui vigeva ancora il modello franco-tedesco di università. Tale modello considera l’università un’istituzione di primaria importanza per la nazione e la lega fortemente allo Stato, che deve garantire con i suoi ordinamenti la qualità della ricerca e della didattica, in essa praticate, salvaguardando i docenti da possibili ingerenze esterne, di varia natura, che possano mettere a rischio la libertà di indagare e di insegnare i temi da loro scelti. I consulenti della Banca Mondiale ritengono che tale modello sia obsoleto e che invece debba essere “implementato” il modello anglosassone, che possiede caratteristiche opposte e che è “molto più aperto alle imprese”. Ma di questo ho già parlato in un articolo del 2004, cui rimando il lettore volenteroso ((https://criticamarxistaonline.files.wordpress.com/2013/06/1_2004ciattini.pdf).
Bisogna aggiungere che per la Banca Mondiale l’educazione non deve essere più un diritto né un servizio garantito dallo Stato, ma un investimento fatto dallo studente e dalla sua famiglia, che darà i suoi frutti nel futuro, quando le competenze “acquistate” consentiranno al giovane di entrare nel mercato del lavoro e ricevere un salario proporzionato al denaro investito e alle abilità acquisite (oggi infatti si tratta soprattutto di “saper fare”, senza necessariamente saper pensare). Tale concezione “monetarista” è stata ed è supportata dall’Organizzazione mondiale del commercio, che ha lavorato affinché anche l’educazione, insieme alla cultura, ai servizi pubblici, alla sanità, venisse inclusa negli accordi relativi alla liberalizzazione del commercio e dei servizi. Insomma, anche l’educazione è stata trasformata in merce, mostrando così la pervasività capillare del capitalismo che, quando non incontra ostacoli, tende a trasformare ogni aspetto della vita sociale in occasione di profitto.
Procediamo con ordine e analizziamo ora alcuni dati che ci mostrano come quelle politiche propagandate come apportatrici della “società della conoscenza”, da cui si sono fatti ammaliare anche tanti docenti, hanno di fatto portato alla “società dell’ignoranza”. E non si dica che si è trattato di un incidente di percorso o di un danno collaterale; è invece un obiettivo scientemente perseguito e portato avanti con pazienza e lucidità, anche se i suoi fautori hanno sempre evitato di comunicarci cosa stavano realmente facendo, anzi hanno avvolto il loro progetto con iperboliche menzogne.
Traggo le informazioni che qui riporto da un articolo (La nostra buona università) pubblicato dal giornale della effelleci (FCL CGIL) del 4 maggio 2015, n° 4, (scaricabile da http://www.flcgil.it/files/pdf/20150528/il-giornale-della-effelleci-2015-n-04-di-maggio.pdf), che denuncia “la nuova stagione di privatizzazioni” intrapresa dal neo-conservatore Renzi, il cui obiettivo è riproporre la trasformazione delle università in fondazioni, come sostenuto da tempo dalla Confindustria e dalla Treelle, associazione collaterale alle prima.
Primo dato: gli iscritti al primo anno nelle nostre università erano nel 2003-2004 338.482, nel 2013-2014 sono diventati 260.245, mentre le tasse di iscrizione sono aumentate in media del 50% e sono tra le più elevate in Europa. Inoltre, solo il 21% dei giovani tra i 25 e i 34 anni è laureato, e per questa ragione – secondo un’indagine condotta dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – l’Italia si colloca al 34° posto tra 37 paesi. Secondo quanto scrive l’autore dell’articolo, Francesco Sinopoli, tale indicatore, che è in Italia è stabile, in altri paesi continua a crescere; per esempio, in Corea si è passati dal 37% del 2000 al 64% del 2011. In paesi, come la Russia e il Canada la percentuale è del 57%, in Giappone del 59% e in Gran Bretagna è del 47%.
La diminuzione degli immatricolati, determinata anche dal fatto che in molti casi il titolo universitario non significa l’inserimento nel mondo del lavoro, è stata accompagnata dal mancato ricambio generazionale del corpo docente dovuto al de-finanziamento dell’università pubblica – secondo la logica che prima si descriveva – e dal blocco delle assunzioni. Ciò ha innescato la crescita del precariato universitario, di fatto sempre presente negli atenei e gestito dal potere baronale, la cui consistenza è difficile quantificare stante la varietà delle figure precarie e la difficoltà di individuare le diverse forme di collaborazione all’attività didattica e di ricerca, che in molti casi si basano su una relazione di tipo personale e talvolta ricattatoria.
Secondo quanto scrive Sinopoli, attualmente i docenti e i ricercatori strutturati (non è mai stato chiaro se questi ultimi sono docenti o no) costituiscono il 48,35% del corpo accademico, gli assegnisti di ricerca (contratto precario) sono il 17,4%, i dottorandi, (a cui bisognerebbe aggiungere anche gli specializzandi e i post-doc) che dovrebbero dedicarsi esclusivamente alla propria formazione, rappresentano il 28,1%, infine i ricercatori a tempo determinato, che sono di due tipi A e B, sono il 6,2% (solo i B hanno una reale possibilità di ingresso stabile). Ci sono poi i professori a contratto, spesso anche gratuito o con contratto a termine (collaborazioni coordinate e continuative, a progetto, prestazioni occasionali o a contratto gratuito), che tengono corsi di 6 cfu (48 ore), fanno parte delle commissioni di laurea, fanno attività di tutoraggio degli studenti e spesso non hanno nemmeno una scrivania, su cui lavorare.
La FLC CGIL afferma che i professori a contratto nel 2011 sarebbero stati 42.669, ma bisogna notare che talvolta essi si sovrappongono ai gruppi precedentemente menzionati (http://www.flcgil.it/universita/docenti-a-contratto-un-po-di-chiarezza.flc), rendendo sempre più difficile comprendere quanti precari lavorano effettivamente nelle università. A causa del grande numero di pensionamenti dei docenti universitari, questi ultimi possono essere ora computati (fino al 2018) ai fini dell’accreditamento di un corso (procedura che insieme ai crediti mira alla standardizzazione dell’insegnamento universitario e alla valutazione della sua “spendibilità” nel mercato; V. http://www.cimea.it/files/fileusers/Accreditamento_Italia_IT.pdf, pag. 7)). Sinopoli non menziona i cultori della materia, una singolare figura, non so se presente in altri paesi, i quali – come gli altri tipi di precari – sono membri delle commissioni d’esame, possono tenere in alcuni casi lezione e seguire degli studenti nell’elaborazione della tesi. E tutto ciò a titolo gratuito.
Come si vede più della metà del corpo accademico è costituito da docenti precari, i quali sperano di ottenere – mediante la loro attività non retribuita e la loro disponibilità – il riconoscimento, in molti casi dovuto, del loro contributo al funzionamento di un’istituzione come l’università, che dovrebbe avere un ruolo centrale nella vita culturale, scientifica e politica del paese.
Secondo un censimento fatto nel 2006 da un gruppo di ricercatori precari dell’università di Ferrara e riguardante 33 università italiane (sulle 77 esistenti pubbliche e private) e da me citato in un intervento all’Université d’hiver de Sauvons la recherche (http://sauvonslarecherche.fr/spip.php?article3062), i docenti precari erano in quel momento circa 36.000, ossia il 37% del personale docente universitario. Se ci atteniamo, dunque, ai dati indicati da Sinopoli, negli ultimi 9 anni sarebbero aumentati di circa 11 punti; fenomeno inarrestabile se permangono le condizioni di decrescita dell’economia italiana e di dominio anche ideologico del capitalismo nella sua fase neo-liberale.
Molto probabilmente, a causa del ridimensionamento del ruolo di contrappeso culturale e politico dell’università italiana e della progressiva diminuzione degli studenti, i docenti strutturati sono destinati a ridursi, per far sì che il potere accademico residuale, alleatosi sempre più strettamente con quello imprenditoriale, già presente nei consigli di amministrazione degli atenei, si concentri sempre di più in poche mani, aprendo le porte dell’istituzione universitaria alle sue appendici ideologiche, politiche e finanziarie, secondo una logica che i “grandi” editorialisti hanno la sfrontatezza di chiamare “meritocrazia”.
Che questo sia il percorso che la classe dirigente ha deciso di intraprendere si può evincere anche da una proposta di legge elaborata dalla deputata di Scelta Civica Ilaria Capua, nota virologa formatasi nell’ateneo di Perugia, la quale in sostanza sostiene che l’attuale condizione di precariato nelle università e nella ricerca debba essere eternizzata. Infatti, la Capua propone l’istituzione del “ricercatore indipendente”, ossia di quel ricercatore che ottiene fondi da soggetti pubblici e privati, sia a livello europeo che internazionale, sulla base di progetti di ricerca ben definiti, e che dovrebbe portare avanti la sua attività anche con l’ausilio di collaboratori, godendo di una serie di garanzie e di agevolazioni fiscali. Naturalmente anche la deputata moderata si richiama al merito, il cui riconoscimento sarebbe garantito dal procedimento da lei prefigurato, il quale avrebbe anche il vantaggio di fornire finanziamenti a un settore, in cui il contributo pubblico è ormai scarso (le ragioni di quest’ultimo fatto restano occulte) (http://www.ilariacapua.eu/i-ricercatori-indipendenti).
Passiamo ora ad esaminare, sia pure rapidamente, le ulteriori innovazioni che si paventano per l’università e che possiamo ricavare dalle sortite del Presidente del Consiglio e dei suoi collaboratori, in particolare facendo riferimento al documento redatto da Francesca Puglisi, responsabile della scuola e dell’università del PD nel gennaio 2015, e che è rimasto immutato anche dopo la giornata di “ascolto” del mondo universitario (http://www.roars.it/online/wp-content/uploads/2015/04/la-buona-universita_ricerca_Rev.pdf). Non esaminerò nel dettaglio tale documento, ma mi limiterò a mettere in risalto il punto principale, che del resto racchiude il sé tutta la logica dell’ulteriore disastroso intervento sugli atenei. Sto facendo riferimento all’auspicata (dalla Puglisi) “uscita delle università dal campo di applicazione del diritto amministrativo”, uscita che prefigurerebbe la restituzione delle vera autonomia agli atenei (obiettivo individuato negli anni novanta con la legge sull’autonomia dell’allora ministro Luigi Berlinguer).
Alessandra Ciattini
28/6/2015 www.lacittafutura.it
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