LA CARTA DEI DIRITTI DEL LAVORO CGIL
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Si intitola “Carta dei diritti universali del lavoro – Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori” il testo con cui la Cgil intende rilanciare la propria azione sindacale. Non l’ennesimo testo unico ma una raccolta di norme che già dal titolo si intuisce voler andare a beneficio sia “del lavoro” sia “di tutti i lavoratori”, vale a dire tanto delle esigenze del comando capitalista sulla forza-lavoro regolarmente acquistata, quanto delle esigenze della persona che alla forza-lavoro venduta non è mai completamente riducibile. Un testo difficile e corposo, fatto di 97 articoli divisi in 64 pagine e scritto direttamente sotto forma di legge dello Stato borghese, con tutti quei bizantinismi che rendono il lavoro di chi voglia provare a capirci qualcosa estremamente impegnativo e senza neanche quegli accorgimenti che si usano per relazionare i Ddl ai parlamentari. Insomma, una Carta dal contenuto pressoché inaccessibile alla stragrande maggioranza della popolazione.
Per avere una buona legge utile ai lavoratori, però, non basta una cultura giuridica adeguata. In una democrazia rappresentativa serve anche un partito in grado di sostenerla, un parlamento disposto ad approvarla ed un governo deciso ad implementarla; che mancano perché in questa crisi all’offensiva padronale si somma l’assenza di un movimento di massa realmente capace anche solo di resistere. Non a caso Luigi (Gino) Giugni descrisse la legge 300/1970 (lo statuto dei lavoratori) come “il frutto di una felice congiunzione tra la cultura giuridica e il movimento di massa”.
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Per tanto, presa nel suo complesso, la Carta non è adeguata al contesto sociale odierno e non ha alcuna possibilità di vernir realizzata. A mancare, però, non è solo la consapevolezza, nei lavoratori, della mobilitazione organizzata quale via maestra per risolvere i propri problemi. Se così fosse saremmo comunque di fronte ad un manifesto, un programma, degno del massimo supporto, utile a dar forza, visibilità, credibilità e chiarezza ad alcune necessità dei lavoratori. Purtroppo, però, a mancare è anche il coraggio di tornare ad affrontare se non proprio le cause dei problemi quanto meno i nodi centrali che fluidificano il trasferimento degli oneri della crisi dall’accumulazione di capitale ai lavoratori. In primis quello dell’esercito industriale di riserva, che rende variamente inesigibili i diritti solennemente posti quali “universali”. Inoltre, alcune delle conquiste più importanti dei lavoratori vengono riformulate senza aggiungere nessuna misura concreta per il loro effettivo esercizio. Per tanto, il combinato disposto tra il mantenimento di forme contrattuali precarie, seppure riformate, e l’assenza di disposizioni cogenti in grado di trasformare i diritti dei lavoratori in obblighi per i datori di lavoro, le libertà dei primi in divieti per i secondi, rende questi diritti universali uno sterile esempio della tipica cultura giuridica borghese di sinistra.
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Paradossalmente, però, non è la presenza di astratti diritti opportunamente depurati dagli obblighi nei confronti dei datori di lavoro ad essere la principale fonte dell’inadeguatezza della Carta quale testo normativo rispetto al contesto odierno. Ancora più inadeguato è il modo in cui si riformano i contratti precari e alcuni istituti del rapporto di lavoro. Il mantenimento del diritto a non rinnovare contratti o di licenziare per giusta causa oggettiva o soggettiva, infatti, sono condizioni necessarie tanto al mantenimento del modo di produzione capitalistico quanto alla ricezione di qualunque testo normativo nello stato borghese. Tale mantenimento, per tanto, è adeguato al contesto. Ad essere inadeguate sono le modalità con cui la borghesia dovrebbe esercitare questi diritti, assai più stringenti rispetto alla realtà attuale. Senza entrare nello specifico, la Carta presuppone che tali proposte siano collegate dialetticamente ad un movimento di massa organizzato che manifesti nei territori e sui luoghi di lavoro l’esigenza cosciente di riformare gli istituti suddetti in un senso meno sfavorevole ai lavoratori. Inoltre, presuppone la presenza di una classe imprenditoriale egemonizzata da elementi interessati a far risalire l’Italia la china nella divisione internazionale del lavoro e non a farne luogo secondario nello scacchiere internazionale. Infine, presuppone una ripresa dell’accumulazione in grado di pagare i maggiori costi derivanti dalle maggiori tutele offerte ai contratti precari e ai lavoratori licenziati. Insomma, presupposti inesistenti che non possono neanche essere creati attraverso il dibattito che la Carta può suscitare dal momento che l’istinto di conservazione di ogni lavoratore induce a lottare contro la precarietà e non per una sua riformabilità, che al limite scaturisce come risultato di questa lotta.
La Carta, però, presenta anche degli elementi che presi isolatamente potrebbero anche costituire materiale utile alla borghesia. Il primo è il tentativo di dare attuazione all’articolo 39 Cost., il tanto agognato riconoscimento giuridico dei sindacati, conditio sine qua non per la validità generalizzata dei contratti nazionalistipulati. In concreto, la Cgil riprende il contenuto del c.d. Testo Unico sulla rappresentanza siglato nel gennaio 2014 tra i confederali e Confindustria. Seppure la Carta non menziona le sue parti peggiori, essa riprende e approfondisce quanto previsto in termini di limitazione al godimento dei diritti sindacali alle organizzazioni relativamente piccole o non federate e la validità degli accordi firmati dai sindacati rappresentativi della minoranza dei lavoratori. Una proposta che prevede grosse limitazioni alla costituzione di sindacati di comodo e che le associazioni padronali potrebbero anche accettare, visto che in fondo gli si chiede unicamente di estendere anche al livello nazionale la validità erga omnes dei contratti (già prevista, per i livelli aziendali e territoriali, dal decreto legge 138/2011) e di convincere Marchionne a tornare sui propri passi.
Scheda: Attuazione dell’art. 39 Cost.
Altro elemento di interesse per il padronato è la regolamentazione del tempo di lavoro. La Carta, fatte salve disposizioni di maggior favore, prevede un riposo giornaliero di almeno 11 ore, uno settimanale di 24 consecutive e uno annuale di 4 settimane. Disciplina anche l’orario di lavoro prevedendo una giornata di massimo 10 ore (inclusi gli straordinari, contro cui si è smesso di combattere da tempo) aumentabile a 13 per particolari mansioni (dirigenti, vigilanti, custodi e simili) e una settimana lavorativa di massimo 48 ore per tutti e che includa anche gli straordinari. Molto simile a quanto prevede il D.lgs 66/2003. La novità, però, non è tanto nelle disposizioni quanto nel loro rapporto con la realtà. La Carta, infatti, imporrebbe al massimo di effettuare 2496 ore di lavoro lorde annue (48 ore settimanali per 52 settimane, da cui poi vanno scalate le ferie, i congedi, le aspettative, etc). Attualmente, però, secondo i dati Istat le ore di lavoro lorde annue nel settore privato sono molte di meno. Per la maggior parte dei settori si arriva a 2080 ore (le famose 40 ore settimanali) con un massimo di 2163 per i vigilanti inquadrati come operai. Ore a cui vanno aggiunte gli straordinari. Per arrivare a quanto stabilito dalla Carta, dunque, all’orario tipico di 2080 ore lorde/anno andrebbero aggiunte ben 416 ore di straordinario (333 nel caso dei vigilanti) mentre attualmente il limite legale è di 250 ore annue. Limite derogabile dai contratti collettivi nazionali, nessuno dei quali, ad oggi, prevede un tetto così alto (per gli addetti alle riparazioni metalmeccaniche, ad esempio, si arriva a 280 ore l’anno). La Carta, dunque, fornisce la misura delle ore di straordinario teoricamente accettabili dalla Cgil, senza aggiunger nulla per limitarne l’abuso (tra i vigilanti privati si arriva a 2000 ore l’anno in più oltre l’orario di lavoro). A conti fatti, proprio un bell’affare per lorsignori!
La terza proposta potenzialmente interessante per i padroni è quella relativa all’attuazione dell’art. 46 Cost. (il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende). Tutto quanto scritto insieme agli altri sindacati nel documento intitolato “un moderno sistema di relazioni industriali“, si concretizza in due soli articoli. Nel primo si modifica il D.lgs 25/2007 introducendo l’obbligo di contrattazione, e rafforzando il diritto sindacale all’informazione e alla consultazione. Sempre in questo articolo, poi, si dà facoltà di contrattare a livello aziendale la partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa mediante assegnazione a titolo gratuito di vere e proprie azioni subordinate, senza diritto di voto; ma anche senza il divieto di sostiture con queste azioni i premi e le altre forme di salario accessorio e senza neanche limitare i danni che i lavoratori subiscono da questi strumenti! Nel secondo articolo, poi, si introduce il diritto per i rappresentanti dei sindacati di partecipare alle riunioni degli organi di controllo delle società a partecipazione statale operanti nei settori strategici di interesse pubblico. Complessivamente, un salutare regresso, rispetto a quanto sottoscritto con Cisl e Uil, che però, è sufficientemente rappresentativo della deriva neocorporativa e collaborazionista del maggior sindacato italiano.
Scheda: Attuazione dell’art. 46 Cost.
Infine, ma non da ultimo, ci sono le disposizioni per garantire l’effettività della tutela dei diritti. Da buon sindacato neocorporativo, la Cgil incentra tutto sulla tutele giurisdizionale. Il ricorso al giudice, però, oltre a costituire il tipico intervento post festum che solo raramente funziona da deterrente, non garantisce il precario o il lavoratore autonomo dal vedersi non rinnovato il contratto o la consulenza successivamente alla scadenza dei termini. Le modifiche al codice di procedura civile e i diversi indirizzi dati ai giudici nell’interpretazione delle norme e nei fatti e situazioni da prendere in considerazione, poi, soffrono degli stessi vizi di cui si è detto per le riforme proposte ai contratti precari. Ben più utili sarebbero delle norme che aumentassero il potere di autotutela dei lavoratori. Data questa Cgil, però, sarebbe stato inutile scrivere qualcosa relativamente al sabotaggio, di cui troppo spesso i lavoratori vengono accusati (ma di cui ci sarebbe tanto bisogno). Ma se proprio si voleva dare attuazione agli articoli della Costituzione, perché non metterci anche quell’articolo 40 secondo cui “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”? Sarebbe stata una bella sfida. Non solo ai vari garanti e alla legge sulla limitazione degli scioperi nei servizi pubblici essenziali (la L. 146/1990) ma anche a questo governo che la sta estendo senza trovare opposizione. Ma, sopratutto, sarebbe stata una sfida con sé stessi, un modo per confrontare la teoria con la pratica sindacale. E forse proprio per questo è meglio soprassedere.
Alessandro Bartoloni
19/2/2016 www.lacittafutura.it
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