La cattiva accoglienza: un nuovo trauma per i rifugiati
Una ricerca di Medici per i Diritti Umani appena pubblicata sull’International Journal of Social Psychiatry evidenzia che fattori di stress post-migratori, come ad esempio condizioni di vita precarie in grandi e sovraffollati centri di accoglienza, producono effetti negativi sulla salute mentale dei rifugiati e dei richiedenti asilo al pari delle violenze subite nei paesi di origine o lungo la rotta migratoria. Nel caso specifico dello studio, i pazienti provenienti dal CARA di Mineo, prototipo dei mega centri nel nostro paese, presentavano un quadro clinico di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) significativamente più grave rispetto ai pazienti provenienti da centri di accoglienza di minori dimensioni. Questo aspetto è particolarmente rilevante in quanto rifugiati e richiedenti asilo sono sempre più ospitati in hotspot e centri di prima accoglienza enormi e sovraffollati, anche nei paesi occidentali ad alto reddito. Il campo di Moria in Grecia, recentemente devastato da un drammatico incendio, ne è uno degli esempi più eclatanti in Europa. Del resto, anche il nuovo patto per l’immigrazione e l’asilo appena presentato dalla Commissione europea rischia di alimentare proprio il modello dei grandi centri alle frontiere esterne dell’Unione europea. Le conclusioni della ricerca pongono questioni assai attuali anche per il nostro paese, posto che nelle prossime settimane il governo ed il parlamento si apprestano ad emendare i decreti sicurezza. Medici per i Diritti Umani auspica che le forze politiche sappiano trarre insegnamento dalle esperienze fallimentari del recente passato. E’ necessario promuovere un sistema di accoglienza basato su realtà di piccole dimensioni, dotate di servizi adeguati ed integrate nel territorio, in grado di favorire una reale inclusione per il beneficio delle persone accolte e di tutta la collettività.
Background. Come è noto, negli ultimi anni, un numero rilevante di richiedenti asilo e rifugiati è arrivato in Italia e in Europa dall’Africa sub-sahariana (secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati [UNHCR] [2020] più di 600.000 migranti e rifugiati sono sbarcati in Italia attraversando il Mediterraneo centrale nel periodo 2013-2019), la maggior parte dei quali ha subito detenzioni, gravi violenze e abusi nei paesi di origine o lungo la rotta migratoria e in particolare in Libia (Medici per i Diritti Umani [MEDU], 2020). Più in generale, nell’ultimo decennio, la popolazione globale di migranti forzati è cresciuta in modo allarmante, passando da 43,3 milioni nel 2009 alla cifra record di 79,5 milioni di persone nel 2019 (UNHCR, 2020). D’altra parte, rifugiati e richiedenti asilo non sono solo esposti in modo sproporzionato a ripetuti eventi traumatici nei loro paesi di origine o lungo le rotte migratorie, ma sperimentano anche una molteplicità di fattori di stress nella fase post-migratoria nei paesi di accoglienza (Li et al., 2016). Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è di conseguenza particolarmente frequente in tali gruppi (Bogic et al., 2015; Fazel et al.,2005; Steel et al., 2009). Sebbene sia estremamente rilevante dal punto di vista clinico e sociale comprendere le diverse modalità con cui il PTSD si manifesta nei rifugiati e nei richiedenti asilo, ad oggi poche ricerche hanno studiato il modo in cui i sintomi del PTSD si manifestano in queste popolazioni.
Obiettivi. Questo studio ha cercato di indagare le caratteristiche del PTSD in un campione di richiedenti asilo e rifugiati africani che si erano rivolti ai centri clinici di MEDU per situazioni di disagio psichico conseguenti a traumi subiti nel paese di origine o lungo la rotta migratoria. Abbiamo cercato di indagare anche quali fattori socio-demografici potessero facilitare l’insorgenza di particolari forme di PTSD.
Metodi. I partecipanti alla ricerca erano 122 rifugiati e richiedenti asilo africani residenti in Italia i quali hanno completato un questionario sull’esposizione a potenziali eventi traumatici ed un altro sui sintomi del PTSD secondo i criteri del DSM-5, uno dei sistemi di classificazione dei disturbi mentali più utilizzati nel mondo. E’ stato poi eseguito uno studio statistico chiamato analisi delle classi latenti (LCA) che ha permesso di identificare alcuni sottogruppi di pazienti con peculiari quadri sintomatologici di PTSD. Infine, un’ulteriore analisi statistica chiamata regressione logistica multinomiale ha permesso di identificare i fattori predittori di ciascuno dei sottogruppi identificati.
Partecipanti. I richiedenti asilo (94%) e rifugiati (6%) partecipanti alla ricerca erano giunti in Italia da poco tempo (in media da 11 mesi) ed erano ospitati sia in centri di accoglienza di grandi dimensioni con oltre mille ospiti (16%) sia in centri medio piccoli con meno di mille ospiti (80%) che in altre piccole strutture di accoglienza (4%). La maggior parte dei pazienti proveniva dall’Africa occidentale (91%) mentre un minor numero proveniva dal Nord Africa (6%) e dal Corno d’Africa (3%).La gran parte di loro (91%) aveva raggiunto l’Italia attraversando il Sahara, transitando per la Libia e poi affrontando il Mediterraneo centrale con imbarcazioni di fortuna. Tutta la rotta era ed è controllata da trafficanti di esseri umani e gruppi criminali. Il campione dei partecipanti rifletteva in termini di genere (86% uomini) ed età (25 anni in media) la composizione dei migranti e rifugiati giunti in Italia negli ultimi anni attraverso la rotta del Mediterraneo centrale.
Risultati. Tra i partecipanti alla ricerca, il 79,5%
presentava una probabile diagnosi di PTSD. Studi precedenti hanno
rilevato una prevalenza di PTSD nei gruppi di rifugiati di circa il 30%
(Steel et al., 2009). Come considerazione generale, gli alti tassi di
PTSD nella nostra ricerca sono probabilmente dovuti a due ragioni. In
primis, il nostro campione non è stato reclutato tra la popolazione
generale di richiedenti asilo e rifugiati bensì è rappresentato da
pazienti inviati ai nostri servizi per la presenza di varie forme di
disagio psichico per cui veniva ipotizzata una possibile origine
post-traumatica. In secondo luogo, i nostri pazienti erano tutti
sopravvissuti a molteplici traumi complessi, vale a dire ad eventi
traumatici di natura interpersonale, ripetuti e prolungati nel tempo.
Tali tipi di trauma sono quelli a più alto contenuto psicopatogeno;
un’ampia letteratura attesta infatti che i tassi più alti di PTSD si
riscontrano in seguito ad eventi psicotraumatogeni intenzionali
(violenze, abusi, torture etc.) rispetto ai traumi di natura impersonale
(per esempio incidenti). I pazienti del nostro campione erano stati
esposti a una media di 8 tipi di eventi traumatici (ma alcuni sono
arrivati ad affrontare 18 eventi traumatici!), tra i quali tortura
(82%), detenzione (68%), aggressioni fisiche (65%), aver assistito
all’uccisione di una o più persone (51%), essere vicini alla morte
(47%), rapimento (46%), violenza sessuale (18%) e molti altri ancora.
L’analisi delle classi latenti ha poi permesso di identificare tre
gruppi di pazienti con quadri post-traumatici che presentavano un
differente profilo clinico: un gruppo caratterizzato da elevata
probabilità di sintomi intrusivi e di evitamento (45%), come ad esempio
ricordi intrusivi, incubi e flashback delle esperienze traumatiche
oppure evitamento e tentativo di evitamento di ricordi, pensieri,
emozioni o fattori esterni che richiamano le esperienze traumatiche; un
gruppo con moderata severità clinica ed elevata probabilità di sintomi
di evitamento (22%) ed infine un gruppo che presentava elevata
probabilità di presentare tutti i sintomi (32%), vale a dire sintomi
intrusivi e di evitamento, pensieri ed emozioni negativi, alterato
arousal (insonnia, comportamento irritabile ed esplosione di rabbia,
comportamenti autolesivi, difficoltà di concentrazione, persistente
sensazione di essere in pericolo ecc.). Come è facile intuire, tale
ultimo gruppo di pazienti, da noi definito PTSD pervasivo, è quello che
presenta una maggiore severità clinica e che richiede pertanto gli
approcci terapeutici più intensivi e prolungati. Un dato particolarmente
interessante rilevato dal nostro studio è che nessuna delle variabili
esaminate (status giuridico, sesso, età, istruzione, mesi trascorsi in
Italia, numero di eventi traumatici, occupazione) ha predetto in modo
significativo l’appartenenza ai tre gruppi con l’unica notevole
eccezione delle condizioni di accoglienza. In particolare, vivere in
grandi centri di accoglienza per richiedenti asilo (oltre 1.000 persone)
piuttosto che in centri di piccole-medie dimensioni (meno di 1.000
persone) è stato associato a una maggiore probabilità di appartenere al
gruppo con il quadro clinico più grave ed invalidante di disturbo da
stress post-traumatico ovvero il gruppo PTSD pervasivo.
Conclusioni. Questa scoperta rafforza la crescente
letteratura scientifica che sottolinea l’influenza dell’ambiente
post-migratorio sulle condizioni di salute mentale di migranti e
rifugiati. La nostra scoperta è anche coerente con il modello ecologico
del distress nei rifugiati proposto da Miller e Rasmussen (2017)
costruito sulle ricerche che dimostrano che la salute mentale dei
rifugiati e dei richiedenti asilo dipende non solo dall’esposizione a
eventi traumatici precedenti, ma anche dall’ecologia sociale di un
individuo, comprendente sia i fattori di stress legati al percorso
migratorio sia quelli legati alle condizioni di vita nei paesi di
accoglienza. A questo proposito, i pazienti del nostro campione che
vivevano in un grande centro di accoglienza provenivano tutti dal centro
di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) di Mineo in Sicilia. Al
momento della nostra ricerca questo centro, voluto nel 2011 dal governo
Berlusconi come nuovo modello di accoglienza, era caratterizzato da un
maggior numero di fattori di stress quotidiani rispetto a quelli dei
centri medio-piccoli: forte sovraffollamento (la struttura è arrivata ad
ospitare 4mila persone a fronte di 2mila posti disponibili); isolamento
geografico e sociale della struttura; permanenza molto lunga, in attesa
del completamento delle procedure legali per l’ottenimento del permesso
di soggiorno (18 mesi in media); difficoltà di accesso al Sistema
Sanitario Nazionale, difficoltà di accesso al supporto psicosociale e /o
legale; episodi di degrado sociale, violenza e illegalità (MEDU, 2015).
Del resto, numerosi studi sottolineano l’importanza, oltre ai traumi
pre-migratori, di diversi fattori post-migratori come predittivi della
sintomatologia PTSD nei rifugiati. Tra questi, vi sono diversi fattori
che caratterizzano “il modello di mega-centro di accoglienza” di cui
Mineo è stato il prototipo: difficoltà nella vita quotidiana (Minihan et
al., 2018; Aragona et al., 2012), prolungato soggiorno in centri
istituzionali (Porter & Haslam, 2005; Rangaraj, 1988), solitudine
(Chen et al., 2017), scarsa integrazione sociale (Chen et al., 2017),
difficoltà di accesso all’assistenza sanitaria e ai servizi sociali
(Steel et al., 1999) , attesa prolungata della concessione del permesso
di soggiorno (Nickerson et al., 2019; Chu et al., 2012; Laban et al.,
2004; Steel et al., 1999).
Tutti questi fattori costituiscono altrettanti elementi di stress
quotidiani che generano insicurezza e paura, ovvero stati emotivi già
elicitati dalle precedenti esperienze traumatiche dei migranti forzati. A
questo proposito, i grandi centri di accoglienza, come il CARA Mineo,
possono essere considerati a tutti gli effetti come “luoghi
ri-traumatizzanti” con effetti deleteri sulla salute mentale dei
richiedenti asilo e dei rifugiati. Questo aspetto è particolarmente
rilevante in quanto rifugiati e richiedenti asilo sono sempre più
ospitati in centri di prima accoglienza enormi e sovraffollati, anche in
paesi occidentali ad alto reddito (Agenzia dell’UE per i diritti
fondamentali, 2019). Il campo di Moria sull’isola di Lesbo in Grecia,
recentemente devastato da un drammatico incendio, ne è uno degli esempi
più eclatanti in Europa. Al momento del rogo, in uno spazio progettato
per accogliere 3mila persone, vivevano in pessime condizioni di
accoglienza circa 13mila profughi. L’hotspot di Moria era stato
costruito nel 2015 per volere dell’Unione europea nell’ambito
dell’Agenda europea sulle migrazioni che prevedeva che nel centro le
persone arrivate dalla Turchia via mare rimanessero solo per pochi
giorni, per essere identificate prima di essere trasferite sulla
terraferma e in altri paesi dell’Unione europea attraverso i
ricollocamenti. Nel 2017 tuttavia il programma di reinsediamento dalla
Grecia e dall’Italia è stato sospeso e i tempi di permanenza a Moria si
sono allungati a dismisura. Del resto, anche il nuovo patto per
l’immigrazione e l’asilo appena presentato dalla Commissione europea
rischia di alimentare proprio il modello dei grandi centri alle
frontiere esterne dell’Unione europea.
Tornando dunque allo studio, mentre gli interventi di salute mentale per
rifugiati e richiedenti asilo sono stati in gran parte incentrati sul
trauma (Miller & Rasmussen, 2017), i nostri risultati implicano che
anche le condizioni di accoglienza post-migratorie dovrebbero essere
considerate nella concettualizzazione e implementazione dei trattamenti e
della prevenzione del disturbo da stress post-traumatico. Ignorare i
fattori di stress quotidiani subiti dai rifugiati che vivono in
condizioni di accoglienza inadeguate può vanificare i risultati del
trattamento. Il disturbo e la psicopatologia possono essere infatti
erroneamente attribuiti in via esclusiva ai traumi subiti mentre gli
individui potrebbero non avere la capacità emotiva e/o cognitiva per
impegnarsi efficacemente nel trattamento prima che le negative e attuali
condizioni di vita siano affrontate e modificate. A questo proposito il
nostro studio sottolinea l’importanza per i paesi ospitanti di
implementare modelli di prima accoglienza che forniscano protezione
efficace, integrazione concreta, alloggi e servizi adeguati. Già nel
2002 Silove ed Ekblad osservavano acutamente che “sebbene la prevenzione
dei traumi inflitti ai rifugiati nei paesi di origine possa essere al
di fuori del nostro controllo, i paesi di accoglienza possono esercitare
un’influenza decisiva sulle sfide post-migratorie affrontate dai
rifugiati in arrivo. Nella loro risposta, è necessario che i paesi di
accoglienza estendano le proprie iniziative oltre l’obiettivo a breve
termine del controllo dell’immigrazione verso una prospettiva più
globale di salute pubblica. In caso contrario, i sintomi post-traumatici
nei rifugiati e nei richiedenti asilo potrebbero prolungarsi e
intensificarsi e la società nel suo insieme dovrebbe poi in ultima
analisi sostenere i costi (sanitari, sociali ed economici, ndr) di
questo fenomeno”. É innegabile che le parole dei due autori suonino oggi
come profetiche in Italia e in Europa. I quadri post-traumatici e le
sindromi depressive ad essi spesso associate rappresentano infatti un
formidabile ostacolo al processo di integrazione dei migranti forzati
alimentando un circolo vizioso in cui il disturbo post-traumatico
favorisce l’isolamento dell’individuo che a sua volta amplifica il
disagio psichico.
In conclusione, riteniamo che un elemento di particolare interessa della
nostra ricerca risieda nel fatto che, sebbene numerosi studi precedenti
abbiano dimostrato l’impatto delle condizioni di vita post-migratorie
sul disturbo da stress post-traumatico dei migranti forzati, essa è la
prima indagine che dimostra in modo scientifico gli impatti negativi di
uno specifico modello di accoglienza (i mega-centri sovraffollati e
isolati dal contesto sociale di cui in Italia il CARA di Mineo è stato
il prototipo) sulla salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati.
In altri termini, i mega centri in cui ammassare richiedenti asilo e
rifugiati, non solo si sono dimostrati dannosi per la salute dei
migranti ma in ultima analisi rappresentano anche una scelta miope da un
punto di vista meramente utilitaristico in quanto le conseguenze
producono nel medio e lungo termine gravosi costi economici e sociali
per l’intera collettività. Riteniamo queste considerazioni assai attuali
per il nostro paese nel momento in cui nelle prossime settimane il
governo ed il parlamento si apprestano ad emendare i due decreti
sicurezza fortemente voluti da Salvini quando era ministro dell’interno e
dunque a rivedere anche il sistema di accoglienza per richiedenti asilo
e rifugiati gravemente indebolito da questi provvedimenti legislativi.
Auspichiamo che le forze politiche sappiano trarre insegnamento dalle
esperienze fallimentari del recente passato per promuovere un sistema di
accoglienza basato su realtà di piccole dimensioni, dotate di servizi
adeguati ed integrate nel territorio, in grado di favorire una reale
inclusione per il beneficio delle persone accolte e di tutta la comunità
nazionale.
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