La Cedu condanna l’Italia per il trattenimento nell’Hotspot di Lampedusa e i respingimenti collettivi in Tunisia
1.A partire dal 2002 Lampedusa è stata non solo un’isola di approdo, ma una frontiera sulla quale si sono giocate partite politiche molto più grandi di quanto il territorio ed i suoi abitanti potessero sopportare. Già nel 2004 dal piccolo aeroporto dell’isola e dal connesso centro di detenzione, chiamato centro di permanenza temporanea (CPT) si sperimentavano tecniche di rimpatrio collettivo che violavano apertamente tutte le Convenzioni internazionali e le norme interne allora in vigore, con voli di rimpatrio su aerei, prima militari e poi civili, che riportavano i migranti da respingere direttamente in Libia. E ci volle un giornalista travestito da migrante, come Fabrizio Gatti, per scoprire quello che succedeva all’interno del centro di detenzione dell’aeroporto. Erano quelli gli anni in cui si rimetteva in moto il processo di militarizzazione dell’isola, non per difendersi da un ipotetico pericolo proveniente dalla Libia, ma per bloccare i migranti che vi sbarcavano ed allontanare chiunque volesse manifestare nei loro confronti solidarietà.
2. Con sentenza del 01.09.2015 (Corte EDU, 01.09.2015, Khlaifia e altri c. Italia, n. 16483/12), la Seconda Sezione della Corte aveva condannato l’Italia per l’illegittima privazione della libertà personale (art. 5 CEDU) subita da alcuni cittadini tunisini, sbarcati irregolarmente sulle coste siciliane nel settembre 2011, per le condizioni disumane e degradanti da questi ultimi patite presso il Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa (art. 3 CEDU), nonché per la successiva espulsione collettiva degli stessi (Art. 4, Prot. 4 alla CEDU). Il 15 dicembre 2016, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si pronunciava di nuovo sul caso Khlaifia e altri c. Italia, a seguito della richiesta di rinvio formulata dal Governo italiano, ridimensionando la portata della precedente condanna, ma ribadendo le violazioni imputabili al governo italiano e dichiarando in particolare: -all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione; -all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 2 della Convenzione; – all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 4 della Convenzione; -con cinque voti contro due, che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione per le condizioni di accoglienza dei ricorrenti nel CSPA de Contrada Imbriacola; -all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione per quanto riguarda le condizioni di accoglienza dei ricorrenti a bordo delle navi «Vincent» e «Audacia»; -con cinque voti contro due, che vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione; – con cinque voti contro due, che vi è stata violazione dell’articolo 13 in combinato disposto con l’articolo 3 della Convenzione; -con cinque voti contro due, che vi è stata violazione dell’articolo 13 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 4 del Protocollo n. 4.
Il 2 dicembre 2021 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ufficialmente chiuso la procedura di supervisione sull’attuazione della sentenza della Corte europea dei diritti umani sul caso Khla,ifia, rilevando che l’Italia aveva adottato misure che avrebbero impedito per il futuro la reiterazioni delle violazioni accertate dalla sentenza di condanna della Corte, ed esaltando il ruolo di collaborazione con la “società civile” e l’Ufficio del garante nazionale per le persone private della libertà personale. Una decisione che, come è stato denunciato, ha assunto il carattere di una scelta politica, in un momento in cui si continuavano a verificare gli stessi abusi e le stesse violazioni di legge e di Convenzioni internazionali già riscontrati nel caso Khlaifia. Una decisione, comunque, che non ha impedito adesso una seconda condanna dell’Italia, per una situazione di grave violazione dei diritti fondamentali nei centri Hotspot risalente al 2017, che evidentemente appare destinata a riprodursi nel tempo. Come si verificava nel 2018 e come si può verificare ancora oggi, andando a Lampedusa o parlando con le persone che, dopo essere state trasferite dall’isola, hanno ricevuto un provvedimento di respingimento differito dalla Questura di Agrigento.
Come riferisce La Presse, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT), nel suo rapporto annuale, invita gli Stati europei a porre fine alla “pratica illecita” dei “respingimenti” e ai maltrattamenti inflitti da parte delle forze dell’ordine a cittadini stranieri “privati della libertà durante gli allontanamenti forzati”. Il rapporto è stato pubblicato sul sito del Consiglio d’Europa. Secondo il CPT, “ogni cittadino straniero intercettato o arrestato alla frontiera dovrebbe essere identificato e registrato individualmente, dovrebbe essere sottoposto a un esame medico e a una valutazione della vulnerabilità e dovrebbe avere l’opportunità di presentare domanda d’asilo. Gli ordini di allontanamento dovrebbero essere individualizzati e consentire la possibilità di ricorso in base a una valutazione individuale. Fin dall’inizio della privazione della loro libertà, le persone dovrebbero ricevere accesso a un avvocato e a un medico e dovrebbero essere informate dei loro diritti e della loro situazione giuridica” . Sono le stesse prescrizioni violate dall’Italia nel caso Khlaifia, nel 2011, e in altri casi successsivi, non solo nel 2017 e nel 2018, e ancora lo scorso anno, come documentato da riprese video inconfutabili, ma anche fino a questi ultimi giorni. Nessuno ha saputo provvedere in tempo. Evidentemente le misure di privazione della libertà personale praticate in Italia all’interno degli Hotspot, e in particolare a Lampedusa, danno luogo ancora oggi a prassi in contrasto con le garanzie costituzionali e con il riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali delle persone migranti, sanciti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali.
3. Con i sequestri delle navi umanitarie e con il rifiuto di indicare un porto di sbarco sicuro, fino al decreto sicurezza bis imposto da Salvini a giugno del 2019, per dare copertura legislativa alle prassi illegittime di respingimento in mare già adottate dal mese di giugno del 2018 (caso Aquarius), si svuotava il Mediterraneo centrale ma si favoriva così la ripresa dei cd. sbarchi autonomi su Lampedusa. Lo smantellamento del sistema di prima accoglienza, conseguenza del Decreto sicurezza n.113 del 2018, primo tassello del disegno di Salvini per clandestinizzare la maggior parte di coloro che chiedevano protezione in Italia, determinava negli anni ritardi nei trasferimenti da Lampedusa, solo in parte nascosto, durante la fase dell’emergenza COVID, dall’uso, e dall’abuso, delle navi quarantena, che periodicamente evacuavano i migranti sbarcati nell’isola. Ed è a quel Decreto sicurezza che oggi si vorrebbe tornare, con provvedimenti ancora più restrittivi. A Lampedusa, addirittura, si vorrebbe attivare un secondo centro di prima accoglienza (hotspot ?). Esattamente l’opposto di quanto chiedono da anni i residenti lampedusani, che sulla richiesta della chiusura dell’Hotspot di Contrada Imbriacola, da sempre al centro di polemiche, hanno dato il loro voto alla Lega. E adesso si potrebbero ritrovare con due centri Hotspot.
4. Dopo la fine della fase dell’emergenza Covid, con la dismissione delle navi traghetto utilizzate di fatto come centri di prima accoglienza/detenzione galleggianti, ad ogni aumento degli arrivi a Lampedusa si sono determinate situazioni di sovraffollamento nella struttura di Contrada Imbriacola, ormai abbandonata ad uno stato di permanente degrado, alla quale il governo Meloni vorrebbe porre rimedio con la proclamazione dello “stato di emergenza”. Una misura di chiara impronta autoritaria, già fallita in passato, con cui oggi si vorrebbero forse legittimare irregolarità amministrative ed abusi sulla pelle delle persone migranti ammassate nel centro. Abbiamo denunciato da anni come alle condizioni di degrado fisico delle strutture Hotspot -ed assimilate- corrisponda, soprattutto a Lampedusa, e quindi ad Agrigento, l’adozione di provvedimenti arbitrari ed illegittimi di privazione della libertà personale, da parte delle autorità di polizia. Che, in particolare, nei confronti di cittadini tunisini, ricorrono alla prassi dei “respingimenti collettivi”, vietati dalle Convenzioni internazionali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Questi allontanamenti forzati con “procedure semplificate” sarebbero giustificate dagli accordi esistenti tra i governi, ma gli accordi bilaterali tra Stati non possono violare consolidati principi di diritto internazionale riconosciuti anche dalla nostra Costituzione. Ed adesso i giudici della Prima sezione della Corte europea dei diritti dell’Uomo lo confermano.
5. La Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso di J.A. e altri c. Italia (ricorso n. 21329/18) ha di nuovo condannato l’Italia per il trattenimento nel’centro “Hotspot” di Lampedusa, ed ha dichiarato, all’unanimità, che si è verificata:
-una violazione dell’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) della normativa europea Convenzione sui diritti umani,
-una violazione dell’articolo 5 §§ 1, 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza), e
-una violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 (divieto di espulsione collettiva degli stranieri) allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.
Il caso riguardava la presenza dei ricorrenti, cittadini tunisini presenti nell’ottobre del 2017 presso l’”hotspot” sull’isola di Lampedusa, dove erano stati condotti dopo essere stati salvati da una nave italiana nel Mar Mediterraneo. Come riporta l’AGI, gli stessi ricorrenti erani stati trasferiti poi a Palermo in aereo. Durante il volo le fascette bloccapolsi erano state rimosse e poi rimesse all’aeroporto di Palermo. Una pratica denunciata anche dal Garante nazionale per i diritti dei detenuti nel novembre del 2017, dopo i monitoraggi effettuati nell’aeroporto di Punta Raisi. Una volta lì, i ricorrenti avevano incontrato un rappresentante del consolato tunisino che registrava le loro identità e, lo stesso giorno, il 26 ottobre 2017, venivano respinti in Tunisia con accompagamento forzato e scorta di polizia in aereo.
La Corte di Strasburgo ha rilevato in particolare che il governo italiano non ha dimostrato la infondatezza delle accuse secondo cui le condizioni nell’hotspot di Contrada Imbriacola erano inadeguate, e che il trattenimento in quel luogo doveva essere considerata una forma di detenzione che non era stata decisa in base ad provvedimento conforme a legge. I ricorrenti lamentavano in particolare di non avere potuto ottenere copie dei provvedimenti di respingimento differito adottati dalla Questura di Agrigento.
La Corte europea aggiunge alle ragioni della condanna la circostanza che non era stato concesso alcun termine per comprendere la portata dei provvedimenti adottati nei loro confronti e fare valere eventuali ricorsi giurisdizionali; ma soprattutto che le singole situazioni dei ricorrenti non erano state valutate individualmente prima che fossero emessi i provvedimenti di respingimento, che di fatto equivalevano per questa ragione ad un’espulsione collettiva vietata.
6. Questa seconda condanna dell’Italia per il trattenimento arbitrario nell’isola di Lampedusa e per il respingimento collettivo verso la Tunisia ai tempi del governo Gentiloni, con Minniti al Viminale, dimostra come dal 2011 (caso Khlaifia) al 2017 (caso J.A. e altri), e potremmo aggiungere fino ad oggi, nell’ambito degli accordi stipulati con la Tunisia nel corso del tempo, le autorità italiane, anche se i governi cambiano, continuino a violare diritti garantiti dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, e consolidati principi come il principio di legalità e la riserva di giurisdizione sanciti anche dalla Costituzione italiana. Già nel 2017 una Commissione parlamentare di inchiesta sui centri per stranieri non era riuscita a trovare una relazione finale convergente su queste strutture, e le prove delle violazioni di legge e degli abusi amministrativi già disponibili a quell’epoca non avevano avuto alcuna conseguenza. Tutto era continuato, a Lampedusa, come negli altri centri Hotspot, all’insegna di un’emergenza che sembrava giustificare qualunque violazione di legge, di Convenzioni internazionali, e di principi costituzionali. Fino a questa seconda condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, proprio per il trattenimento nel centro Hotspot di Lampedusa e per i respingimenti collettivi in Tunisia. Che sono continuati anche negli anni successivi, salvo una temporanea pausa nei mesi della prima ondata di Covid. Ed oggi è forte la pressione italiana per intensificare i voli di rimpatrio con procedure sempre più sommarie.
E’ probabile che il governo italiano attualmente in carica tenti di ricorrere in appello alla “Grande Camera” della Corte europea dei diritti dell’Uomo, come si è già verificato nel caso della condanna su Khlaifia ed altri nel 2016, verso una decisione che si pone come un macigno contro le misure annunciate dalla Meloni e da Piantedosi, che a breve ritornerà in Tunisia, in ordine al rafforzamento degli accordi di rimpatrio ed alla dichiarazione di uno “stato di emergenza” nell’isola di Lampedusa. Una proclamazione dello “stato di emergenza” che, se può sospendere temporaneamente l’efficacia della normativa in materia di gestione amministrativa dei centri Hotspot, NON può sospendere la garanzie della libertà personale ed il divieto di trattamenti inumani o degradanti, sanciti dalla Convenzione EDU e dalla nostra Costituzione.
In ogni caso i giudici italiani, se verranno raggiunti da ricorrenti che si trovino nelle medesime condizioni delle persone ristrette nell’Hotspot di Lampedusa e poi respinte collettivamente in Tunisia, o comunque a rischio di respingimento collettivo, dovranno tenere contro di quanto deciso dalla Corte di Strasburgo ed adottare provvedimenti conseguenti, anche sotto il profilo della tutela cautelare. Per impedire che si protraggano le condizioni di trattenimento in condizioni disumane nel centro Hotspot di Contrada Imbriacola, e che vengano messi in esecuzione provvedimenti di respingimento collettivo con accompagnamento forzato che risultano in contrasto, oltre che con le norme della Convenzione EDU richiamate nella più recente condanna dell’Italia, con consolidati principi della nostra Costituzione (agli articoli 10, 13 e 24). Come era stato avvertito già nel 2001 dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.105/2001. In quella sentenza, che ebbe solo portata interpretativa, ma che avrebbe dovuto portare ad una pronuncia di incostituzionalità dell’istituto del respingimento differito e del conseguente trattenimento amministrativo, si affermava che “Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale. Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’art. 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso art. 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’art. 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto”. Questioni di costituzionalità che adesso vanno riproposte di fronte alle prassi adottate dalle autorità di polizia dopo gli sbarchi ed ai nuovi provvedimenti d’urgenza che il governo Meloni si appresta ad adottare.
7. Nessuna persona migrante deve essere respinta o espulsa senza che il suo caso sia stato valutato singolarmente, considerato che nessuna norma attribuisce alle forze dell’ordine la facoltà di distinguere un richiedente protezione internazionale da un migrante cosiddetto “economico”, dunque irregolare, ammesso che questa distinzione regga ancora oggi, senza che un giudice convalidi il provvedimento di respingimento e di accompagnamento forzato. Nessuna persona può essere trattenuta nei centri di prima accoglienza a tempo indeterminato, al solo fine di essere identificato e vanno comunque garantiti specifici percorsi protetti destinati alle categorie più vulnerabili, come donne, minori e vittime di tortura. Occorre ripristinare i controlli giurisdizionali sul trattenimento all’interno di tutte le strutture destinate al cd. Approcio Hotspot, fino ad oggi disciplinate esclusivamente in base alla normativa adottata in via amministrativa. All’interno dei centri Hotspot, o nelle altre strutture nelle quali si proceda con questo approccio, occorrerebbe stabilire criteri certi per i casi di temporanea limitazione della libertà personale, con un ritorno al principio di legalità ed al rispetto dell’habeas corpus di tutte le persone “comunque presenti nel territorio nazionale”, base del riconoscimento dei diritti fondamentali ai quali fa espresso richiamo l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.
Secondo l’art. 13 della Costituzione “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria, e se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Questa norma non può valere a discrezione dei decisori politici, o essere piegata da superiori esigenze di difesa dei confini. Lo vietano la Costituzione e le fonti normative sovranazionali.
Anche senza un intervento della Corte Costituzionale, va riaffermato in tutti i gradi del giudizio il primato del diritto dell’Unione Europea sul diritto nazionale contrastante, ribadendo i principi stabiliti dalla giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. I giudici europei hanno fornito una rigorosa interpretazione dell’art. 5 della CEDU, ribadendo i limiti delle misure restrittive della libertà personale applicate su iniziativa delle autorità di polizia a carico degli immigrati irregolari e le garanzie correlate, anche nei casi di trattenimento amministrativo, in cui, in vista dell’allontanamento forzato del cittadino straniero, si proceda alla sua identificazione e quindi alla preparazione del rimpatrio. La riserva di giurisdizione, il principio di legalità, l‘habeas corpus, sono alla base dello Stato democratico. Tocca adesso ai giudici nazionali dare effettiva attuazione a questi principi nei casi in cui dovranno decidere in materia di approcio hotspot e di trattenimento nei centri di prima accoglienza comunque denominati.
Richiamo di Strasburgo, stop ai respingimenti dei migranti ai confini europei
“C’è un ricorso sempre più frequente ai respingimenti violenti durante le intercettazioni in mare, ai valichi di frontiera”
I governi devono porre fine ai respingimenti alle frontiere terrestri e marittime, in particolare ai confini dell’Unione europea, e garantire che i migranti non subiscano maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine.
È quanto domanda il Cpt la Commissione europea contro le torture e i trattamenti inumani, organo del Consiglio d’Europa, nel suo rapporto annuale evidenziando che “i respingimenti sono atti illegali” e che è vietato sottoporre chiunque a maltrattamenti.
Nel documento il Cpt evidenzia che c’è un ricorso sempre più frequente ai respingimenti violenti durante le intercettazioni in mare, ai valichi di frontiera, o di persone già entrate sul territorio, e che queste sono pratiche che “alcuni Stati membri del Consiglio d’Europa tentano di legalizzare”.
Fulvio Vassallo Paleologo
30/3/2023 https://www.a-dif.org/
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