La censura anti-palestinese colpisce anche sui social
A seguito dell’esplosione del conflitto israelo-palestinese, lo scorso 7 ottobre, in tutto il mondo si è sollevato un coro di voci a sostegno della Palestina, per chiedere la fine dell’aggressione israeliana a Gaza e dell’apartheid contro i palestinesi. Tali manifestazioni, tuttavia, sono spesso state criminalizzate con il pretesto che contenessero un implicito sostegno ad Hamas, un’opera di mistificazione volta a reprimere qualsiasi forma di dissenso contro Israele. Dal caso del ministro della Cultura Sangiuliano, che ha vietato di esporre bandiere palestinesi sui monumenti italiani in quanto simboli «anti-Israele», a quello del governo francese, che ha proibito qualsiasi manifestazione di piazza “pro-Palestina”, passando per le dimissioni di Moni Ovadia da direttore del Teatro di Ferrara per le sue posizioni critiche su Israele e dalla sospensione del premio letterario ad Adania Shibli, scrittrice palestinese, affinché fosse data maggiore visibilità a «voci israeliane ed ebraiche», gli esempi sono innumerevoli. La censura anti-palestinese non poteva non colpire anche i social media, dove sempre più utenti denunciano la rimozione o l’oscuramento di contenuti per il semplice fatto di riportare posizioni a sostegno della causa palestinese. Una problematica segnalata al nostro giornale anche da molti lettori de L’Indipendente, tra i quali anche Gabriele Lorenzoni, ex parlamentare del M5S.
Uno dei casi più eclatanti è probabilmente quello che ha riguardato Motaz Azaiza, giornalista palestinese residente a Gaza e collaboratore dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) che, attraverso la propria pagina Instagram, documenta giorno dopo giorno la realtà dell’aggressione israeliana all’interno della Striscia. Il suo profilo è stato oscurato diverse volte, al punto da rendere necessaria la creazione di un profilo secondario. La stessa cosa è successa all’attivista italo-palestinese Karem Rohana, che sulla propria pagina pubblicava quotidianamente aggiornamenti sulla guerra e riflessioni sulla questione palestinese. «Il mio profilo era già stato chiuso due volte in via preventiva dopo la segnalazione di un’utente, questa è la terza volta che succede – spiega a L’Indipendente Karem – In genere nel giro di un giorno fanno i controlli e lo riattivano, ora sono passati tre giorni e ancora niente. La cosa assurda è che facciano una cosa del genere in via preventiva, non credo si tratti di una procedura normale, se qualcuno segnala il profilo di Chiara Ferragni non è che di punto in bianco glielo chiudono. Peraltro le prime due volte avevano già avuto modo di verificare che non vi sono contenuti vietati all’interno della mia pagina, quindi è inspiegabile perché questa cosa continui a succedere. Prima che me lo bloccassero, tra l’altro, diversi utenti avevano segnalato di non riuscire a vedere o condividere i contenuti che pubblicavo. Io in 24 ore facevo anche 50-60 mila visualizzazioni, all’improvviso sono passate a 100, capisci che qualcosa non va». Per di più, una volta chiuso il profilo «non riuscivo a rifarlo da nessun browser, né col numero israeliano, né con quello italiano, né con nessuna mail. Ho dovuto chiedere a mio fratello, che sta in Italia, di crearne uno e mandarmi le credenziali per accedere». Le stesse problematiche sono state segnalate al nostro giornale da diversi lettori.
Gli utenti che hanno denunciato problematiche simili sono sparsi in tutto il mondo. La problematica è comune: a seguito della pubblicazione di contenuti filo-palestinesi, può capitare di essere sospesi dalle piattaforme o subire shadow banning (letteralmente: divieto ombra), processo per il quale la piattaforma limita la visibilità di un post di un utente senza notificarlo. Su Instagram, moltissimi hanno denunciato come le visualizzazioni delle proprie storie siano calate drasticamente a seguito della pubblicazione di hashtag o contenuti che avessero a che fare con la difesa della Palestina. La stessa cosa accade anche ai siti di informazione: Mondoweiss, sito di informazione dedicato alla Palestina, ha denunciato la temporanea sospensione di alcuni dei propri canali social. Nadim Nashif, direttore esecutivo e cofondatore di 7amleh, organizzazione no profit palestinese per i diritti digitali, ha dichiarato che l’organizzazione ha «ripetutamente documentato» come i contenuti palestinesi vengano eccessivamente moderati e controllati dalle principali piattaforme online. «Nel contesto più recente – ha dichiarato Nashif – abbiamo notato un doppio standard nel modo in cui Meta ha nascosto i risultati di ricerca su un hashtag arabo onnicomprensivo associato alla recente escalation, ma non ha intrapreso un’azione simile sull’hashtag parallelo in ebraico, perché era usato principalmente da attori statali che vengono trattati in modo preferenziale».
Dal canto suo, Meta (che già in passato è stata ripetutamente accusata di shadow banning e di censura) ha fatto sapere di aver istituito un “centro operativo speciale” composto da “esperti”, tra i quali “persone che parlano correntemente l’ebraico e l’arabo”, per monitorare la situazione, iniziativa presa proprio nel contesto dell’attuale conflitto per contenere la “disinformazione” al riguardo. L’azienda ha anche ammesso che alcuni contenuti riguardanti la guerra tra Israele e Palestina sono stati oscurati “per errore”. Inoltre, sia Meta (quindi Facebook e Instagram) che TikTok hanno fatto sapere di aver bandito Hamas dalle proprie piattaforme e di aver eliminato i contenuti ad esso affiliati, senza tuttavia specificare in base a quale criterio un contenuto possa essere ritenuto affiliato o meno al gruppo. Nel frattempo, l’Unione europea ha messo sotto inchiesta X (ex Twitter) proprio perché non avrebbe censurato contenuti filo-palestinesi.
Valeria Casolaro
17/10/2023 https://www.lindipendente.online/
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