La CISL trasferisce la sua ragione sociale, tutta a destra
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La ragione sociale di un sindacato e le scelte della Cisl per rivalutare l’approccio marxiano alle relazioni industriali
di Francesco Barbetta
Recentemente su Jacobin Italia è uscito l’articolo Il nuovo corporativismo della Cisl di Stefano Poggi e Stefano Bartolini i quali leggono il discorso di Giorgia Meloni all’Assemblea nazionale della Cisl dell’11 febbraio 2025 come un momento significativo nel panorama politico e sindacale italiano perché evidenzia una convergenza tra la destra italiana e una parte del mondo cattolico, non necessariamente maggioritaria, che ha abbracciato l’idea di una nuova alleanza tra datori di lavoro e lavoratori.
Questo approccio mira a superare la visione conflittuale tradizionale tra imprese e lavoro, proponendo invece una collaborazione armoniosa che riflette una reinterpretazione moderna del corporativismo, un concetto che ha radici storiche nel fascismo e nella dottrina sociale della Chiesa cattolica. Questa è una chiave di lettura utile per comprendere la sua proposta di legge di iniziativa popolare che cerca di formalizzare la partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale, in linea con l’articolo 46 della Costituzione. La proposta è stata criticata, si veda la critica di Salvo Leonardi nell’ultimo numero di Sinistra Sindacale, per la sua mancanza di ambizione e per il fatto che è stata notevolmente depotenziata dalla destra al governo, riducendola a una serie di misure opzionali e poco incisive.
La proposta prevede, ad esempio, una quota minima di rappresentanza dei lavoratori nei consigli di sorveglianza delle società per azioni ma si tratta di un quinto dei componenti, una cifra che molti considerano insufficiente per garantire una reale influenza. Abbiamo detto che la convergenza tra la Cisl e la destra politica non è un fenomeno nuovo perché, dicono Poggi e Bartolini, affonda le sue radici in una lunga storia di collaborazione e di ideologie comuni. Già nel 1891, con l’enciclica Rerum novarum, la Chiesa cattolica aveva promosso l’idea di una società armoniosa in cui le disuguaglianze sociali erano viste come naturali e necessarie, in cui il conflitto tra le classi era demonizzato.
Questa visione è stata ripresa e sviluppata dal fascismo che ha cercato di creare un sistema corporativo in cui lavoratori e imprenditori collaboravano per il bene comune della nazione, sotto la guida dello Stato. Dopo la fine del fascismo queste idee non sono scomparse del tutto. Anche durante la Costituente i cattolici hanno tentato di mantenere una certa disciplina sui sindacati, sebbene senza successo. Negli anni Cinquanta la Democrazia Cristiana ha continuato a promuovere un’idea di società armoniosa tramite figure come Amintore Fanfani che aveva già appoggiato il corporativismo durante il regime fascista. Negli anni successivi il mondo cattolico ha vissuto un profondo rinnovamento, con movimenti come quello dei preti operai e il Concilio Vaticano II che hanno messo in discussione molti degli assunti tradizionali. Negli anni Sessanta e Settanta la Cisl stessa ha partecipato attivamente ai conflitti sociali, come durante l’Autunno caldo del 1969, dimostrando che non tutte le correnti del sindacalismo cattolico erano orientate verso una visione armoniosa e pacificatrice del conflitto.
Il ritorno di una prospettiva corporativa non sembra produrre risultati sul terreno degli aumenti salariali ma ha prodotto una spaccatura netta con la Uil e sopratutto la CGIL aspramente bersagliata da Meloni e Sbarra per il suo approccio eccessivamente conflittuale e ideologico. Un esempio emblematico di questa frattura è l’accordo siglato dalla Cisl nel novembre 2024 per il rinnovo del contratto delle funzioni centrali della pubblica amministrazione che riguarda circa 195.000 dipendenti pubblici. L’intesa prevede un aumento salariale del 5,78%, equivalente a 160 euro lordi mensili, una cifra ben al di sotto dell’inflazione accumulata tra il 2022 e il 2024, pari al 15,4%. Questo ha portato Cgil, Uil e USB a rifiutarsi di firmare l’accordo.
Una situazione analoga potrebbe verificarsi in Poste Italiane, dove la Cisl, storicamente molto influente, ha richiesto tavoli di trattativa separati durante le negoziazioni del settembre 2024, irritando Cgil e Uil, che hanno invece sottolineato l’importanza dell’unità sindacale di fronte a sfide come la riorganizzazione logistica e la possibile privatizzazione dell’azienda. Ai problemi fatti emergere dalla condotta della Cisl i comunisti devono rispondere rimarcando il valore scientifico dell’approccio marxiano alle relazioni industriali.
Secondo Marx le relazioni industriali non possono essere comprese isolandole dal più ampio sistema capitalistico poiché sono l’espressione diretta della struttura economica e sociale della società. Il cuore di questa analisi sta nell’idea secondo cui il capitalismo
non è semplicemente un modo di organizzare la produzione bensì una relazione sociale che determina la posizione dei lavoratori e dei capitalisti nella struttura produttiva. I capitalisti, essendo proprietari dei mezzi di produzione, esercitano il controllo sul processo lavorativo e ne traggono profitto attraverso l’estrazione del plusvalore, ossia la differenza tra il valore prodotto dai lavoratori e il salario che ricevono. Questa appropriazione è il fulcro dello sfruttamento capitalistico e definisce la natura conflittuale delle relazioni industriali.
Il lavoro salariato è un elemento centrale di questo sistema, in quanto i lavoratori, non possedendo mezzi di produzione propri, sono costretti a vendere la propria forza-lavoro per sopravvivere. Questa vendita non garantisce loro il controllo sulle condizioni di lavoro né sulla destinazione del prodotto del loro lavoro, generando un processo di alienazione. Marx sottolinea che il lavoratore è separato dai mezzi di produzione e che il suo stesso lavoro diventa un’attività estranea, imposta da necessità economiche e regolata dalle esigenze del capitale. Questo rapporto parte dall’atto produttivo e si estende alle condizioni generali della vita sociale.
Infatti il capitale determina il livello dei salari, la sicurezza dell’occupazione, la disciplina industriale e le condizioni materiali del lavoro. Il capitale, per sua natura, mira alla massimizzazione del profitto e alla continua espansione della produzione, il che implica un costante sforzo per ridurre il costo della forza-lavoro. Questo obiettivo viene perseguito attraverso diverse strategie: l’intensificazione del lavoro, l’allungamento della giornata lavorativa, l’introduzione di nuove tecnologie per aumentare la produttività e la creazione di una sovrabbondanza di forza-lavoro, nota come esercito industriale di riserva. Quest’ultimo, composto da disoccupati e lavoratori precari, esercita una pressione costante sui salari e indebolisce la capacità contrattuale della classe lavoratrice.
La disoccupazione non è quindi un’anomalia del capitalismo ma una sua caratteristica strutturale, funzionale al mantenimento del potere del capitale sulle condizioni di lavoro. Le relazioni industriali, quindi, sono il luogo in cui si manifesta e si articola la lotta di classe che si esprime attraverso le rivendicazioni sindacali, gli scioperi, i conflitti sulla gestione del processo produttivo e il tentativo da parte dei lavoratori di limitare il potere del capitale.
Tuttavia Marx sottolinea che le forme di resistenza sviluppate dai lavoratori all’interno del capitalismo sono spesso contenute nei limiti imposti dal sistema stesso. I sindacati, pur essendo strumenti di difesa della classe operaia, operano dentro una cornice capitalistica e tendono a limitare la loro azione alla contrattazione delle condizioni di sfruttamento piuttosto che alla loro abolizione.
La stessa contrattazione collettiva, per quanto possa migliorare le condizioni immediate dei lavoratori, non modifica la struttura fondamentale dello sfruttamento poiché il potere di decisione resta saldamente nelle mani dei capitalisti. L’industrializzazione e lo sviluppo tecnologico avrebbero il potenziale per ridurre la fatica del lavoro e garantire una produzione sufficiente per soddisfare i bisogni sociali senza necessità di condizioni oppressive ma nel capitalismo il progresso tecnico non viene utilizzato per il benessere collettivo perché è subordinato alla crescita del controllo del capitale sul lavoro e alla massimizzazione del profitto.
L’aumento della produttività porta spesso a una maggiore disoccupazione e a una concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi piuttosto che a una riduzione del tempo di lavoro o a un miglioramento generale delle condizioni di vita. Marx individua in queste contraddizioni il motore delle crisi economiche e delle tensioni sociali che caratterizzano il capitalismo. La competizione tra capitalisti porta a un’accumulazione sproporzionata di ricchezza e a una crescente instabilità economica che si riflette in forme acute di conflitto industriale.
.Periodicamente il sistema attraversa crisi che non derivano dalla scarsità di risorse ma dall’incapacità del mercato di assorbire la produzione a causa della distribuzione ineguale della ricchezza. Queste crisi si traducono in licenziamenti di massa, chiusure di fabbriche e una compressione dei salari, aggravando ulteriormente la precarietà della classe lavoratrice. Per Marx la soluzione a questi problemi è una trasformazione radicale del sistema economico. L’obiettivo ultimo della lotta dei lavoratori non dovrebbe essere solo il miglioramento delle condizioni salariali o la riduzione dell’orario di lavoro ma il superamento del lavoro salariato e la socializzazione dei mezzi di produzione. Solo attraverso il controllo collettivo e democratico della produzione si può eliminare lo sfruttamento e porre fine alla separazione tra capitale e lavoro.
Le relazioni industriali sono allora il campo di battaglia in cui si gioca il destino della società: o la perpetuazione di un sistema fondato sullo sfruttamento, o la sua trasformazione in una forma di organizzazione economica basata sui bisogni umani e non sul profitto.
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