La classe degli Agnelli
Osservando gli scandali fiscali e le sorti dell’impresa industriale degli Elkann sorge un dubbio: e se questa, al di là della retorica mainstream, fosse la cifra dell’intero capitalismo familiare?
Raccontava Carlo Caracciolo, fondatore con Eugenio Scalfari dell’Espresso e cognato di Gianni Agnelli che aveva sposato sua sorella, che la cosa che lo impressionava di più del rampollo della più importante dinastia italiana era «il desiderio di piacere»: «Era un giovane gaio, con disponibilità economiche ovviamente inesauribili cui facevano riscontro poche occupazioni». Un esempio di questa gaiezza: «Ricordo che mi chiamò un pomeriggio convocandomi in serata a Torino, a casa sua. Doveva essere maggio. ‘Prendi un aereo e vieni, domani andiamo in Costa Azzurra’… Dopo un po’ montiamo su un piccolo aereo. Quando mi sveglio siamo in Costa Azzurra ma è cattivo tempo. ‘Atterreremo a Malta’. Ma troviamo pioggia anche lì. ‘Allora dirottiamo verso Roma’… Poco dopo siamo di nuovo a bordo dell’aereo ‘tascabile’».
Per mezzo secolo l’immagine degli Agnelli è stata veicolata dalle gesta giovanili e poi da quelle più anziane improntate alla cosiddetta eleganza, charme e «paraculaggine» del capo della Fiat italiana, impresa che di fatto non esiste più e che ha fatto il bello e cattivo tempo nel nostro paese. La vicenda giudiziaria che sta riguardando gli eredi di quello che si soleva chiamare l’Avvocato disegna un volto tutt’affatto diverso, quasi un risvolto nero di una storia che si è voluta sempre bianca. E se invece fosse vero il contrario? Se la storia vera degli Agnelli fosse esattamente quella squadernata dalle indagini della Guardia di Finanza alla ricerca di gioielli, beni immobiliari, quadri di valore nascosti con frodo per aggirare il fisco e non pagare le tasse di successione?
Una storia degna di Successione
La vicenda affolla i giornali, anche se con un risalto ben inferiore all’importanza della notizia. I quotidiani del gruppo Gedi, di proprietà della famiglia Agnelli, leggi gli Elkann, hanno posizionato i fatti in spazi angusti e indietro nella foliazione, lo stesso ha fatto il Sole 24 Ore giornale di Confindustria. Le televisioni ne parlano di sfuggita. Eppure il glamour, l’appeal popolare e il cosiddetto «colore» cronachistico non mancano
La moglie di Gianni Agnelli, Marella Caracciolo, deceduta nel 2019, avrebbe lasciato ai nipoti John, Lapo e Ginevra Elkan, beni personali per quasi 200 milioni di euro ma questi li avrebbero, secondo le indagini della Finanza, fatte passare per «regali» in quella che viene definita una «documentata spoliazione post-mortem». Un bottino di quadri di pregio e gioielli, nascosto al Fisco italiano attraverso due finti trust basati a Nassau, nelle Bahamas, composto da orecchini Harry Winston, pendenti in diamanti bianchi, rossi e blu dal valore di 78 milioni di euro, chalet in Svizzera, quadri di Robert Delawney, Andy Warhol, Robert Indiana, Claude Monet, ancora gioielli, piatti russi e altri ammennicoli.
A organizzare il tutto sarebbe lo stesso John Elkann, l’erede designato dal nonno Avvocato, il capo-famiglia che ha acceso le ire della madre, Margherita, figlia di Gianni Agnelli, furibonda per essere stata aggirata nell’asse ereditario che ha avuto come effetto indesiderato l’esclusione dei suoi figli, ben cinque, avuti dal secondo marito Serge de Pahlen. Una storia degna di Succession, la celebre serie tv che racconta, sotto artifici vari, le vicende che riguardano il magnate Rupert Murdoch. Una storia degna del capitalismo, si potrebbe aggiungere, ma che arricchisce il volto della famiglia Agnelli, adorata e vezzeggiata dall’intera classe politica e giornalistica e che in questa storia si mostra con il volto, arraffone e piratesco, che ha sempre cercato di nascondere sotto un aplomb di eleganza sabauda, quasi fosse l’ultima erede della vecchia casa regnante, fino a coniare lo slogan più famoso di tutti, «Ciò che va bene per la Fiat, va bene per l’Italia» parzialmente smentita da Gianni Agnelli e sostituita con: «Quello che è male per Torino è sempre male per l’Italia».
Il vero volto dell’ex «casa regnante»
Il trucco dei gioielli e dei quadri nascosti per aggirare il fisco aiuta però a offrire un volto più sincero della ex «casa regnante». Non è un caso se il Corriere della Sera, nel ventennale della morte, avvenuta il 24 gennaio 2003, ricorda che per molti italiani era stato «l’ultimo re d’Italia». Così, almeno, piaceva dipingerlo agli aedi che popolano l’intellettualità e il mondo dell’informazione. Lui, del resto, più che pavoneggiarsi per la capacità di direzione aziendale, che non aveva assolutamente, popolava lo star system a suon di massime elargite con la grazia di un cantastorie: «Mi piacciono le cose belle e ben fatte. Ritengo addirittura che estetica ed etica si equivalgano». Era accusato di non sapere nulla della gestione aziendale? «Agisco tramite professionisti esperti, ma loro non prendono decisioni senza consultarmi». La spregiudicatezza capitalistica era esibita senza complessi di inferiorità. Negli anni Settanta, quando la Fiat vide l’ingresso come azionista della Libia di Gheddafi, tramite la Lybian Arab Foreign Bank, con il 10% del capitale, lui spiegò la cosa con nonchalance: «Il nostro dovere è prendere denaro là dove c’è». E altrettanto cinismo manifestava di fronte alla crisi dell’auto, avvenuta dal 1980 a intervalli regolari, e generalmente accollata alle casse pubbliche e ai salari operai: «La festa è finita». spiegò all’assemblea degli azionisti Fiat il 29 giugno del 1990.
E, ancora, nessuna deferenza verso la politica, che al contrario lo riveriva, lui e la sua famiglia. Negli anni Settanta i fratelli Susanna e Umberto debuttarono in Parlamento l’una eletta dal Partito repubblicano, l’altro dalla Democrazia cristiana, entrambi uniti dalla visione di famiglia che spingeva per un nuovo patto tra impresa e sistema politico. Lo stesso Gianni Agnelli, divenuto nel 1975 presidente di Confindustria, dovette prendere atto della forza operaia accumulata nelle fabbriche italiane e trattare compromessi con il Pci di Enrico Berlinguer e la Cgil di Luciano Lama. Poi, divenuto senatore a vita per volere dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, flirta con Berlusconi, ma anche con la sinistra di Massimo D’Alema e Romano Prodi e soprattutto ribadisce che «la Fiat ha un peso nell’economia e nella società italiana che non si può combinare con uno schieramento politico».
Un’immagine di carta patinata per un’industria che invece nel dopoguerra, con la gestione Valletta, ha costruito il ventennio più duro per la classe operaia, fatto di bassi salari, spremitura produttiva e repressione in fabbrica; che negli anni Settanta inaugura la stagione delle «schedature» operaie e poi, sul finire del decennio la più dura e violenta vertenza aziendale che culmina nei 35 giorni operai e nell’occupazione della fabbrica, prima del cedimento sindacale e la firma di un accordo che prevede 23 mila cassa integrazioni. La Fiat è la stessa azienda che con Sergio Marchionne prova a cancellare il sindacato conflittuale, la Fiom, dalle sue aziende nel 2010, con gli accordi separati e un contratto nuovo di zecca in cui si eliminano diritti fondamentali. Poi, sempre Marchionne, inaugura la strategia internazionale della Fiat che la porterà a essere Fiat Chrysler e poi Stellantis, la multinazionale che conosciamo oggi di cui John Elkann è presidente mentre il controllo strategico è nelle mani dei francesi di Peugeot. Una situazione in cui la crisi strutturale dell’automotive, gli errori accumulati negli anni sull’innovazione tecnologica, il ritardo mostruoso sull’auto elettrica, stanno portando alla riduzione abissale della produzione in Italia con una riduzione dell’occupazione, nelle aziende Stellantis e nella filiera, che rischia di contarsi in decine di migliaia di posti di lavoro. Anche Marchionne, come l’Avvocato, ha dato da scrivere alle penne compiacenti dell’intellettualità italiana, prodiga di servigi verso la «casa regnante» e anche lui alla fine lascia un terreno lastricato di dolori operai e, ovviamente, di lauti profitti familiari.
Navigare nell’oro
La vicenda giudiziaria in corso, infatti, si sovrappone a una situazione finanziaria della famiglia Agnelli-Elkann che forse non è mai stata così florida. Nel giorno in cui i giornali danno la notizia dell’inchiesta torinese i quotidiani di famiglia mettono in risalto i dati della cassaforte finanziaria che racchiude gli investimenti e le ricchezze degli Agnelli, la Exor, che raggiunge i 38,3 miliardi di patrimonio netto nel primo semestre del 2024 con flussi di cassa pari a 1,5 miliardi. Nel 2023 il valore dell’attivo era a 35,5 miliardi di euro con un utile consolidato di 4,19 miliardi che si riflette positivamente sulla società controllante, la Giovanni Agnelli Bv, proprietaria di Exor al 53%. Exor, per intendersi, è la società che controlla Cnh Industrial con il 26,9%, Ferrari, con il 22,91, la Juventus, il gruppo Gedi (Repubblica e Stampa), l’Economist, e ovviamente il 15,6% di Stellantis.
Come viene diviso l’utile Exor aiuta a capire molto di come funzionano le famiglie capitalistiche. Il dividendo da distribuire agli azionisti nel 2023 è ammontato a 103,4 milioni di euro di cui il 53,6% alla Giovanni Agnelli Bv, 55,4 milioni da distribuire alla vasta famiglia che la controlla. Di questi il 39,7% alla Dicembre che riunisce i tre eredi Elkann, John, Lapo e Ginevra, circa 22 milioni di euro (in un solo anno solare); l’11,2% al ramo Maria Sole Agnelli, sorella dell’Avvocato che compirà cent’anni il prossimo anno, a cui vanno 6,2 milioni da dividere con i cinque figli; C’è poi l’8,9% del Ramo Umberto Agnelli, con i figli Andrea e Anna, a cui vanno circa 5 milioni, l’elenco dei vari rami famigliari è ancora lungo, composto dalle varie articolazioni della famiglia Nasi, dalla zia dell’Avvocato Aniceta Agnelli, che si divide circa il 20% della società, e poi i rami delle altre sorelle di Giovanni Agnelli, Clara, Susanna e Cristiana.
Una famiglia che naviga, letteralmente, nell’oro a prescindere da qualsiasi lavoro quotidiano e nelle cui tasche piovono milioni di euro frutto di investimenti e partecipazioni accumulate nel tempo. Dentro questo enorme flusso di denaro – quello indicato è relativo al solo 2023 – i fratelli e la sorella Elkann avrebbero trovato il tempo e il gusto di aggiungere anche una frode fiscale nascondendo una parte dei beni ereditati e spacciandoli per regali (gli investigatori hanno riscontrato scambi mail e finti fogli Excel che documentano come i presunti regali siano stati fatti in occasioni di specifiche ricorrenze, ma a volte con doppioni imbarazzanti). Una famiglia di avari e di accumulatori seriali, quindi? Più semplicemente, sembra che sia proprio il meccanismo del capitalismo familiare che ruota attorno alla crescita esponenziale della ricchezza privata a prescindere da qualsiasi responsabilità sociale. Lo abbiamo visto nel modo in cui i Benetton si sono disinteressati di quanto accaduto alle Autostrade italiane, letteralmente distrutte sotto la loro gestione, dal modo in cui De Benedetti ha dilapidato aziende gloriose, salvo garantire il proprio bottino personale, e così via.
Il capitalismo ha un meccanismo di funzionamento e delle leggi che impongono una precisa disposizione gerarchica che punta a estrarre il maggior valore possibile dal lavoro umano dei propri sottoposti, da una forza-lavoro che non ha altra alternativa che vendere sé stessa al miglior offerente. Il capitalismo delle famiglie, a cominciare dagli Agnelli, deve dare a questa legge una concretezza storica e una precisa maschera: quello dell’accumulatore seriale che fa incetta di ricchezze a prescindere dal suo utilizzo. Una maschera di classe che mai come questa volta emerge in tutta la sua bruttezza.
Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
26/9/2024 https://jacobinitalia.it
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!