La competizione è il veleno che ci propina il neoliberismo da 30 anni
Per un’Italia più giusta, più verde, più competitiva”. Così recita lo slogan per il tesseramento al Pd che circola in questi giorni.
Con il rispetto dovuto, però viene da interrogarsi sull’accostamento di aggettivi che fa quello che resta uno dei principali partiti italiani, il più grande tra quelli che si definiscono progressisti e che ha in sé la memoria comunista e democristiana.
In particolare colpisce quel “più competitiva” dato il peso di quell’aggettivo, competitivo, che non si può dire venga dalle tradizioni comunista e cattolica e invece ha segnato fortemente la “rottura” neoliberale degli anni 80, con Milton Friedman e la scuola di Chicago, con Margaret Thatcher e Ronald Reagan a portarla in politica ma con l’ambizione di “cambiare” non solo l’economia ma la società.
Naturalmente c’è un problema di accostamenti e come “più giusta e più verde” si possono legare con “più competitiva” è sicuramente un tema a sé.
Che interroga sulla natura dei soggetti di questa epoca “postideologica” (ma lo è veramente, o siamo in pieno trionfo dell’idologia del pensiero unico?).
Le ambizioni maggioritarie hanno sostituito il concetto di egemonia e dunque piuttosto che una lettura della società attraverso cui ricercare vocazione e consenso si procede per assemblaggi.
Più aggettivi che idee. Naturalmente tutto è molto illusorio e illusionistico in quanto la società contemporanea si muove su un impianto molto forte di relazioni economiche, sociali e di potere.
Viene da pensare che così facendo la “politica” si confini nell’ambito di una sorta di funzione sovrastrutturale, “pubblicitaria”, di merchandising rispetto alla struttura sociale che è “senza alternative”, a “pilota automatico”.
Gli accostamenti divengono di stagione, di moda, di nuance. Definiscono una gamma, non una alternativa.
Naturalmente danno anche una sostanza. In tal senso la “triade” sembra dare a più giusta più e più verde la funzione di accompagno al più competitiva. Si può leggere in sequenza a conferma ed esplicitare “se l’Italia è più giusta e più verde è più competitiva”.
Capisco che è una interpretazione.
Ma quell’aggettivo, competitiva, ha una valenza particolare perché è quello che ha operato la rottura che richiamavo nella Storia contemporanea e perché è il “Papa straniero”, cioè viene da fuori le tradizioni affluenti nel Pd che ricordavo, la comunista e la cattolica.
Per altro è un aggettivo che discende da un sostantivo forte e connesso ad un soggetto forte.
Friedman situa al centro della società (in fondo, della realtà) l’impresa (e i suoi azionisti). Compito dell’impresa è competere. Naturalmente in un mercato “puro”, libero. Che non esiste, ma questa diventa quasi una critica secondaria.
Perché il problema non è solo economico ma antropologico.
Lo diventa subito con Thatcher che irrompe col suo “la società non esiste, esistono gli individui. E la famiglia”.
Tutto l’impianto reazionario che va a gelare il grande cambiamento degli anni gloriosi è squaternato.
Il dominus è la competizione. Compete l’azienda. Competono gli individui. Compete la famiglia. E Thatcher rivendica di essere capace perché donna che sa di questa condizione.
Da lì partono i giorni che ci portano a questa nostra condizione quando ormai alla competizione si è connessa la paura. Paura degli altri. Di non essere adeguati. Di soccombere.
Il cammino però è stato lungo e, come le vie dell’inferno, lastricato di buone intenzioni.
Mai come adesso si sono creati ossimori e metonimie. Fino alle guerre umanitarie, cioè fatte per il bene che coinciderebbe con la libertà che è quella di competere.
Ma la meritocrazia ha riempito le pagine della governance. Contro l’appiattimento “egualitaristico” che è alla fine gulag.
Un filosofo canadese, Alain Deneault, ha scritto di recente un saggio intitolato Mediocrazia per dimostrare che questa governance globale del pensiero unico più che promuovere i migliori ha dato merito ai mediocri. Quelli che qualcosa sanno e soprattutto sanno cosa serve alla governance che ha soppiantato la politica (ma anche la scienza).
Il Mondo, le Vite sono stati sconvolti dal verbo della competizione.
Se ne potrà pure trarre un bilancio.
Le disuguaglianze si sono accresciute a dismisura, tra una società e l’altra e dentro le singole realtà.
Disuguaglianze impressionanti che non hanno pari nella storia dell’umanità, neanche ai tempi di Re assoluti e di sommi sacerdoti.
La società è stressata a dismisura, con livelli di insicurezza, di ansia che deprivano dal portato del progresso in un Mondo dove si muore di fame e si consumano miliardi di psicofarmaci.
I livelli di istruzione decrescono. Si ha analfabetismo funzionale e di ritorno. Istruzione e aspirazione a condizione sociale non corrispondono.
L’impatto sul Pianeta Terra si è fatto pesantissimo, sul punto del non ritorno dell’alterazione climatica.
Il mondo del lavoro è stato frantumato e sistematicamente svalorizzato. Il “diritto a competere” ha sostituito la solidarietà di classe e di fatto ha promosso il diritto a farsi sfruttare.
Il livello di collaborazione scientifica soffre enormemente l’asservimento alla competizione aziendale e la non ricezione delle acquisizioni raggiunte per mancanza di volontà politica. La sofferenza della grande comunità democratica e scientifica che sta intorno al trattato di Kyoto sul clima è emblematica.
Risorgono nazionalismi e dazi che non sono la negazione della “libera concorrenza” ma le sue conseguenze.
Non è giunto ormai il momento di dire che la parola competitiva è “tossica” per usare una terminologia che Latouche riferisce ad esempio a sviluppo?
L’uso del sostantivo competizione e dell’aggettivo competitivo ha cambiato purtroppo di segno alla storia della sinistra, ma anche dell’umanità.
La Rivoluzione francese celebra la libertà, l’uguaglianza, la fraternità.
Le parole della sinistra sono uguaglianza, solidarietà, fraternità, libertà, cooperazione.
La competizione è il veleno che ci propina il neoliberalismo da 30 anni e che ci ha resi gli uni nemici degli altri.
Nell’era in cui abbiamo bisogna di una Europa e di un Mondo solidali competizione è una parola che proprio fa male.
Alternativa alla competizione è la cooperazione, che è l’approccio opposto alla vita e alla società.
Appare attualissimo l’insegnamento di Celestin Freinet che spiegava e praticava il metodo di insegnamento cooperativo, naturale e laico fondando il movimento per l’insegnamento cooperativo.
Ecco, una sinistra che sia sinistra si fonda su queste scuole e non su quella di Chicago, sulla cooperazione e non sulla competizione.
Roberto Musacchio
4/10/2019 https://left.it
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