La conquista dei diritti dei lavoratori e il ritorno al licenziamento ad nutum del Job Act. Antonio Pizzinato racconta
La riforma del lavoro attraverso la legge delega 183/2014, affossa il valore del lavoro che la Costituzione italiana gli aveva assegnato in termini di dignità, garanzie di libertà e di partecipazione alla costruzione della vita sociale del Paese.
Tutti i nuovi assunti del Job Act, in termini di tutele in caso di licenziamento, sono, infatti, solo risarciti. Questo atteggiamento riporta il lavoratore a uno squilibrio molto forte nel rapporto con il datore di lavoro e azzera al tempo stesso tutta la storia del diritto del lavoro che aveva introdotto strumenti di contenimento del potere padronale e di salvaguardia della dignità del lavoratore.
La grande ipocrisia alla base di questa operazione è che viene presentata come risanatrice di uno stato diffuso di precarietà, quando è vero esattamente il contrario.
Con le tutele crescenti, infatti, il ricatto del licenziamento diventa una spada, nella schiena del lavoratore, onnipresente, che azzera in anticipo qualsiasi discussione, qualsiasi contrattazione.
Grazie, infatti, al semplice pagamento di un risarcimento economico, l’azienda che ha licenziato senza giusta causa non ha più l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro. E la cosa peggiore è che il Job Act prevede che il licenziato ha torto fino a prova contraria. Ma quale collega confermerà mai che il collega d’ufficio, della scrivania di fronte, licenziato per essersi attardato in pausa pranzo, era invece rientrato in orario, sapendo che poi potrà, a sua volta, divenire oggetto di rappresaglia aziendale?
Così, mentre il Governo dichiara e promette che questa nuova riforma del lavoro servirà a eliminare la precarietà e a tutelare maggiormente i nuovi assunti, in realtà condanna tutti i lavoratori a una maggiore precarietà, in nome di un progresso economico altrimenti impossibile.
Lo Statuto dei diritti dei Lavoratori, che venne approvato nel maggio 1970, durante il Governo Rumor e l’allora Ministro del lavoro Donat Cattin è, infatti, oggi ritenuto il maggior responsabile dell’attuale paralisi imprenditoriale, incapace a far ripartire l’economia, perché condannata a rimanere sotto i 15 dipendenti per potersi muovere in libertà. Ma un licenziamento illegittimo del 1970, è tal quale a un licenziamento illegittimo del 2015 che dovrebbe, per semplice civiltà, dar seguito alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Non parliamo poi del demansionamento, solo per citare un altro caposaldo infranto, che consente al datore di lavoro di assegnare al dipendente mansioni inferiori, nel caso di modifica dell’organigramma aziendale, e di stipulare accordi individuali, che alterano non solo le mansioni iniziali, ma anche il livello di inquadramento e la relativa retribuzione. Con i tempi che corrono chi mai si opporrà?
Per capire cosa succedeva negli anni Settanta, e trarne ispirazione, per non scivolare in pericolose derive, difficilmente risanabili, il 25 Giugno del 2015, abbiamo chiesto un punto di vista ad Antonio Pizzinato, che ha avuto molte responsabilità ed esperienze, a partire dalla fabbrica come membro della commissione interna, a segretario della Fiom e della Camera del Lavoro milanese e lombarda, a segretario nazionale della CGIL e infine anche come parlamentare, senatore e sottosegretario al Lavoro del Governo Prodi.
Adriana Paolini. Qual’è la situazione oggi, in cui la crisi economica e produttiva è approdata ad un punto di svolta senza precedenti? E perché la politica italiana, invece di affrontare le nuove sfide economiche, commercializza il lavoro come semplice merce e si dimentica dell’uomo e si dimentica anche che il lavoro è il centro della nostra Costituzione italiana.
Antonio Pizzinato. Siamo in presenza di una crisi economica che pesa enormemente ed è paragonabile solo a quella del 1929. La realtà attuale, oggi è profondamente diversa. Ma vi sono stati tanti mutamenti, sui quali è opportuno fare una riflessione storica, sulla base anche della mia esperienza. Io sono entrato in fabbrica nel 1947, e capire come mai oggi, invece di una strategia economica, protettiva, industriale e di attività generale, che faccia tesoro del patrimonio e della ricchezza del lavoro che abbiamo in Italia, si porti avanti una politica da parte di chi governa e degli imprenditori, soprattutto nell’ultimo ventennio, di rimessa in discussione dei valori e dei principi fondamentali, fissati nella nostra Costituzione, per quanto riguarda il lavoro, non è cosa semplice. Non dimentichiamo che la nostra Costituzione Repubblicana, approvata nel Dicembre del 1947, ed entrata in vigore dal 1° Gennaio del 1948, stabilisce che l’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul Lavoro. Quindi il lavoro è un valore, un dato fondamentale di questo Paese. Vi è chi, invece di utilizzare questa ricchezza, questo patrimonio, sta via via in questi ultimi anni trasformando il lavoro in una cosa commerciale. Si mettono in discussione principi, valori, diritti, compresa la tutela della dignità del lavoratore. Il nostro Paese si è sviluppato in un’altra fase, dopo la seconda guerra mondiale, e avviata la ricostruzione, assieme alla trasformazione del Paese, da agricolo a industriale, ha anche dato vita a quel sistema di diritti e tutele che sottendono appunto al lavoro, premesse che nell’ultimo periodo sono svanite. Potrei riassumere l’esperienza che ho fatto in fabbrica.
La crisi del ’29
Nel 1947 quando entravo alla Borletti, vi lavoravano 3.000 lavoratori, che durante la guerra arrivarono a 10.000. Io facevo l’apprendista assieme ad un operaio che via via mi seguiva e mi aiutava a diventare prima operaio qualificato, poi operaio specializzato e infine specializzato provetto. Contemporaneamente al lavoro in fabbrica, alla sera andavo a scuola. Fra le mie prime esperienze sindacali ci furono le rivendicazioni dei diritti degli studenti serali. Conquistammo che le tasse le avrebbe pagate l’azienda, con l’unica condizione della promozione e la frequenza, e con il Comune di Milano, attraverso l’azienda tranviaria ATM, ottenemmo degli abbonamenti speciali per gli studenti serali. Ma non finiva lì. Se alle 18 terminava il turno di lavoro e alle 18.30 iniziava la scuola, per me per esempio, era quella dell’Istituto Feltrinelli, quando consumavo il pasto, quando tornavo a casa alle 23? Così rivendicammo il diritto al pasto, ovvero mezz’ora prima del termine del turno si andava in mensa, e quella mezz’ora era retribuita, come lo era anche la mensa.
Ma questo non bastava. Certo ci si preparava, ma nel contempo c’era l’innovazione, c’era da costruire il futuro, c’era il grande salto. Prima di allora non c’erano le macchine automatiche. Non c’erano le catene o le linee di montaggio. Su ognuno pesava molto la qualifica e la capacità professionale. L’innovazione tecnologica portava ad avere in fabbrica le macchine automatiche, i nastri trasportatori, le catene di montaggio, e siccome era cambiato il metodo di produzione, era cambiata anche la condizione professionale dei lavoratori, le qualifiche, le retribuzioni, il loro stesso futuro, ma anche le condizioni stesse del lavoro. Ma per fare questo salto bisognava superare le resistenze sia nella contrattazione sia dei contenuti della contrattazione stessa. La direzione aziendale, infatti, pensava di decidere per tutti. Vi erano state una serie di difficoltà in conseguenza della rottura dell’unità sindacale, e del primo accordo separato, stipulato nel 1954, sul conglobamento della scala mobile (contingenza), che aveva una serie di difetti.
Il Grande Salto
Ma solo con i contratti nazionali non si sarebbero potuti affrontare i problemi delle condizioni e dell’organizzazione del lavoro e quindi anche del trattamento economico. Bisognava compiere il salto. Occorreva che nei contratti nazionali si affrontasse questa nuova realtà economica produttiva, e si prevedesse un secondo livello di contrattazione, quello integrativo a livello aziendale. Tra diversità di opinioni e di contenuti, si affrontò una grande battaglia che portò, per esempio nella mia fabbrica, dove nel frattempo ero stato eletto in Commissione Interna, e quindi partecipai a quella negoziazione, che durò mesi, e comportò centinaia e centinaia di ore di sciopero.
Per fare un esempio, ad un certo punto la direzione aziendale disse, che nei reparti delle linee e delle catene di montaggio si sarebbero fatte due pause al giorno, ciascuna di 10 minuti, dalle 10 alle 10.10 e dalle 15 alle 15.10. Arrivato nel reparto tacchimetri ad illustrare questa nuova modalità, ci fu un urlo! La prima cosa che le donne di quel reparto mi dissero fu “Ma scusa te se propri un bagai. Tu vai al bagno ad orario fisso? Devi chiedere altre cose, dei sostituti, che quando uno lavoratore si deve fermare subentrino, in modo da assicurare la continuità del lavoro”.
Così tra le prime aziende in Italia, grazie a quella battaglia riuscimmo a concordare sia le due pause sia una percentuale di sostituti che venivano richiamati al bisogno e anche in relazione all’intensità del lavoro. Ricordo che qualche tempo dopo la stessa vertenza si fece anche all’Alfa Romeo. Quindi il salto comportò la contrattazione nazionale e quella integrativa, che affrontassero insieme, non solo i trattamenti economici dei lavoratori, ma anche quelli relativi alla tutela della salute e all’organizzazione del lavoro che il nuovo fordismo aveva acutizzato.
Fu un grande saltò non solo per la qualità del contratto di lavoro, ma perché permise un rapporto con l’insieme dei lavoratori e una loro maggior discussione e partecipazione.
Fondamentalmente, infatti, dopo il 1948-49 non si era più realizzato un salto nei contenuti contrattuali. E questo comportò, per esempio per i metalmeccanici, all’esperienza del contratto del 1962 e contemporaneamente anche a quello dei tessili. Contratto che si ottenne con oltre 200 ore di sciopero e che conquistò la riduzione dell’orario di lavoro, gli inquadramenti, e che prevedeva anche le prime forme di contrattazione integrativa aziendale, che rispondevano ai problemi della trasformazione, oltre alle questioni dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro. Era l’inizio della nuova stagione che a partire dal 1962, ci avrebbe portato alla metà degli anni Settanta.
Qual’è il grande cambiamento degli anni Settanta?
Cosa si realizza in quegli anni? Che l’orario di lavoro si riduce a 40 ore alla settimana. Prima era sì di 40 ore alla settimana, ma per gli impiegati, mentre per gli operai era di 48. Come se fosse stato più faticoso il lavoro degli impiegati che quello degli operai. Si ottenne un mese di ferie, non solo per gli impiegati, ma anche per gli operai che prima avevano solo una settimana. Si definì meglio l’organizzazione del lavoro, le pause, le tutele della salute, l’integrità psicofisica, e si ottennero anche le 150 ore per il recupero della formazione, necessaria ad affrontare le nuove trasformazioni. Si fecero i primi passi per definire un sistema generale di previdenza, si ottenne la costituzione del servizio sanitario nazionale, il diritto alla casa (INA Casa) e il diritto ad eleggere in fabbrica i rappresentanti sindacali (di reparto, di ufficio, gruppo di lavoro) cioè i Consigli di fabbrica.
Quindi assieme ai profondi mutamenti dell’organizzazione produttiva del lavoro, si conquistano importanti miglioramenti nelle condizioni di lavoro e nelle normative che lo regolano, e più in generale si conquistano i diritti fondamentali e contrattuali per l’intero Paese.
L’importanza della Partecipazione.
E qui però c’è un dato importante: come è stato possibile realizzare tutto questo?
La partecipazione. Le commissioni interne erano rappresentative, ma non consentivano di cogliere i problemi di ogni luogo di lavoro, reparto o ufficio e non consentivano, quindi, di avere le opinioni e il collegamento alla partecipazione e alla democrazia.
Il salto avvenne quando si riuscì ad ottenere l’elezione dei rappresentanti, come quello del Consiglio di fabbrica. In quel periodo, mentre svolgevo l’attività di Segretario della Fiom di Sesto San Giovanni, la Pirelli Bicocca elegge il primo Consiglio dei Delegati su scheda bianca, concordando l’elezioni con la direzione: fu il primo atto di democrazia e di partecipazione.
Un’altra esperienza, fu la Zanussi, in provincia di Pordenone. Quelli delle catene, volevano avere la possibilità di esprimere le loro condizioni. Così i delegati dei consigli di fabbrica diventano lo strumento di organizzazione, di partecipazione e di democrazia e che contribuiscono anche al grande processo di unità. Si arriva, infatti, alla Federazione Nazionale CGL, CISL e UIL e, purtroppo, non al “sindacato unitario”.
Vorrei a questo riguardo ricordare, che mentre ero Segretario della Fiom sestese, nelle oltre 130 aziende del territorio, vennero eletti 1230 delegati aziendali, che costituivano i C.d.F (Consigli di Fabbrica). Indetta l’assemblea di tutti i delegati, su proposta assembleare e con voto unanime, si decise che da quel momento era costituito il SUM (Sindacato Unitario Metalmeccanici) di Sesto San Giovanni. A quella riunione era presente Bruno Trentin, Segretario Generale della Fiom Nazionale, che condivise la decisione. Si elesse, quindi, il Comitato Direttivo, che a sua volta elesse l’esecutivo. Io fui eletto Coordinatore Generale del SUM di Sesto San Giovanni, primo Sindacato Unitario Metalmeccanici, e anticipatore dell’FLM. Questa fu una nuova manifestazione di partecipazione e di democrazia, e questo sviluppo portò, poi, alla costituzione della Federazione Nazionale CGL, CISL e UIL.
In quegli anni tracciammo, così, il percorso che portò via via al rinnovo dei contratti, alle istituzioni, alle riforme sociali, che prima ricordavo, e all’affermazione dei diritti fondamentali del lavoro e al contempo lanciammo le nostre proposte anche al Governo e all’insieme delle forze politiche. Questa è l’esperienza di un ventennio che porta a un cambiamento economico e produttivo e favorisce lo sviluppo industriale del Paese, ma anche del terziario avanzato e dei servizi e contemporaneamente a forme di partecipazione e di democrazia. Non si possono dimenticare gli scioperi generali e le battaglie anche col Governo, nel periodo in cui si costruiva la CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.
Nel 1970 si compie il grande salto: viene approvato lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori.
Così i vari articoli sul lavoro, come previsto dalla Costituzione, a partire dal primo, “l’Italia è una Repubblica Democratica basata sul lavoro. Che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono le parità di diritti e la pari dignità. Che deve assicurare il lavoro. Che deve assicurare la salute. Che deve assicurare la previdenza”, diventano norme, non solo contrattuali, ma premesse per il grande salto. Nel 1970, infatti, viene finalmente approvato lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori: la Costituzione entra in Fabbrica.
Non bisogna mai dimenticare che dal 1947, fino al 1968, quando fu approvata la legge sulla Giusta Causa, e poi anche per le lotte per la conquista dello Statuto dei Lavoratori, furono licenziati 523.000 lavoratori per rappresaglia politico-sindacale. E parliamo solo dei licenziamenti riconosciuti dalle leggi che furono approvate in seguito.
Fino a quel periodo l’unico modo per rapportarsi con i lavoratori era quello di confrontarsi sui marciapiedi, davanti alle fabbriche o nelle piazze, che erano i luoghi in cui si faceva vivere la democrazia e la partecipazione.
Conquistate le leggi per il divieto di licenziamento per maternità, per matrimonio e per una serie di altri diritti, fu approvato lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Ecco, l’Italia è cambiata, ricostruita si è sviluppata, e questo cambiamento economico produttivo porta milioni di italiani a muoversi e trasferirsi. In Lombardia, per esempio, gli immigrati aumentano il numero di abitanti di 2 milioni di unità e contemporaneamente si costruisce questo sistema di diritti che vede anche la riforma scolastica per il Diritto allo Studio. Quella fase storica vive anche momenti drammatici, come lo stragismo fascista e il terrorismo, che esplode per esempio nella strage di Piazza Fontana, a Milano. Non dimentichiamo, che la sera prima della bomba alla Banca del Lavoro, al Senato della Repubblica veniva approvato in prima lettura lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori. Era quindi chiaro che la strage era un attacco in quella direzione.
I sindacati e i lavoratori furono quella barriera democratica che si schierò contro tutte le forme di stragismo e di terrorismo, a difesa della democrazia , della partecipazione e della Costituzione.
Adriana Paolini. Abbiamo visto come gli anni Settanta fissano in maniera inconfutabile il diritto del lavoro come centro della democrazia, dello sviluppo di un intero Paese e della nostra società. Quando, invece, va in crisi l’impianto generale e salta la stabilità economica?
Antonio Pizzinato. Alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta, assieme ai problemi economici vi è una nuova stagione di mutamento e chi pensa che bisogna passare all’attacco dei diritti dei lavoratori e di demolire quella stagione.
Non si possono dimenticare le battaglie a Torino alla Fiat, gli 80 giorni di sciopero e presidio, giorno e notte, in difesa dell’occupazione. E anche l’attacco del Governo alla Scala Mobile, per la sua svalutazione.
In quel momento, assieme ai nuovi processi di cambiamento, sia sul piano economico produttivo sia dell’organizzazione del lavoro sia dell’ingresso delle nuove tecnologie, assieme ai problemi di depressione economica, si apre una nuova stagione che tende a mettere in discussione una parte di quei diritti che si erano conquistati.
In particolare, non si vuole affrontare la nuova fase economico produttiva che investe il Paese, con risposte adeguate che tengano al centro i diritti del lavoro e della società.
Si mettono così in discussione i diritti già fissati dello Statuto dei Lavoratori, e non certo per estenderli anche ai lavoratori delle piccole aziende. Si va verso una frantumazione e frammentazione dei nuovi mondi del lavoro.
Vi è una tendenza che si sviluppa sul finire del secolo scorso sulle tipologie dei rapporti di lavoro.
Adriana Paolini. Quante sono, oggi, le tipologie di rapporti di lavoro?
Antonio Pizzinato. Attualmente sono 44.
Ciò che sottolinea maggiormente l’attuale frammentazione del lavoro, è che all’interno di una stessa azienda convivano altre aziende, appaltatrici e subappaltatrici, a cui è consentito di applicare dei contratti di lavoro diversi da quelli nazionali specifici che vengono, invece, applicati ai lavoratori contrattualizzati dall’azienda principale ospitante.
Faccio due esempi. Se vado a Monfalcone, alla Fincantieri, una delle più moderne industrie navali, in cui lavorano circa 10000 lavoratori, più della metà degli stessi non sono dipendenti della Fincantieri, ma di centinaia di altre imprese, appaltanti o subappaltanti.
Non dimentichiamo che vi era chi aveva operato in Europa, per fare una legge che permettesse alle imprese vincitrici di appalti o di subappalti, che lavoravano in Paesi diversi dal loro, di applicare ai loro dipendenti il contratto di lavoro del loro Paese di origine e non di quello del Paese ospitante, proprio come nel caso di Fincantieri, e fu solo grazie ai parlamentari italiani che questa proposta venne bloccata.
Ricordo una riunione a Fincantieri, di Monfalcone, quando ero Segretario Nazionale della Cgil, mi resi conto che i titolari delle centinaia di imprese che avevano vinto appalti e subappalti erano di proprietà di cittadini italiani, mentre le loro aziende figuravano di origine polacca, slovena, rumena, eccettera. E senza andar molto lontano, all’Ospedale di Sesto San Giovanni, ma anche negli altri ospedali, in contrasto con le norme del Contratto Unico Nazionale della Sanità, che io stesso avevo contribuito a definire negli anni ’80, coloro che svolgono le pulizie, sono dipendenti di un’azienda appaltatrice e hanno, quindi, un contratto diverso da quello dell’Ospedale. Anche la ristorazione è stata assegnata a un’azienda appaltante, ai cui lavoratori si applica ancora un altro tipo di contratto. E neppure a tutto il personale che lavora al Pronto Soccorso si applica il Contratto Unico della Sanità, ma quello dell’agenzia appaltante.
Ho fatto l’esempio di un’azienda privata moderna come Fincantieri e quello di un’azienda pubblica, come uno Ospedale.
Purtroppo questa è la situazione del 2015, che riguarda milioni di lavoratori, nei diversi settori produttivi, dall’industria, al terziario, ai servizi e alle Pubbliche Amministrazioni.
Adriana Paolini. Di recente, su Repubblica, è uscita un’intervista a Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, che ha affermato che serve una riforma profonda delle organizzazioni sindacali perché il mondo del lavoro oggi, proprio come dicevi anche tu, è frantumato e non ha rappresentanza. Sempre secondo Landini, serve anche più democrazia perché i lavoratori possano eleggere i dirigenti sindacali e votare sugli accordi che li riguardano. Oggi gli unici a metterci la faccia e ad essere eletti dai lavoratori sono i delegati. I dirigenti, dice Landini, non sono eletti dagli iscritti, ma cooptati. Per costruire un sindacato unitario, conclude Landini, bisognerebbe tornare alle radici, quando nell’800, i lavoratori strapparono il diritto a coalizzarsi. Tu cosa ne pensi?
Antonio Pizzinato. Che vi sia una frammentazione molto più accentuata nel mondo del lavoro è indubbio, ma credo che sia necessaria una riflessione più approfondita. Mi riferisco ai dati anagrafici della Lombardia. Se contiamo gli abitanti della Lombardia nel periodo 1950-1970, registriamo un incremento di 2 milioni di persone e di 600 mila nuovi addetti nell’industria. Fondamentalmente immigrati dal profondo Sud, dal Friuli e dal veneto, come il sottoscritto. Passiamo al 2000, e cioè a trent’anni dopo. In conseguenza del cambiamento produttivo, economico e dell’organizzazione del lavoro, si ha una diminuzione degli occupati di oltre mezzo milione di unità, solo in Lombardia. Ma vi è un’altro aspetto, l’industria che nel 1970 rappresentava il 60-70% dell’occupazione, ora è scesa al 40%. Il nuovo salto economico ha spostato il 60% dell’occupazione in altri settori: terziario, servizi, pubblico impiego. Ed è anche questo cambiamento di settori ad aver favorito la frammentazione.
Faccio un esempio. Mezzo secolo fa, Sesto San Giovanni, la Città delle Fabbriche, era il 5° distretto industriale del Paese, dove 4 fabbriche Falck, Breda, Magneti Marelli, Ercole Marelli, impiegavano l’80% dell’occupazione. Oggi il 94% degli occupati sestesi stanno in luoghi di lavoro sotto i 15 dipendenti. Si tratta di un mutamento epocale. Ma l’altro aspetto di questo importante cambiamento è che molti di loro lavorano presso aziende, appaltanti o subappaltanti, di altre imprese ospitanti.
Così succede che lavoratori che lavorano uno a fianco all’altro siano contrattualizzati da aziende differenti, con contratti diversi e modalità di trattamento e di tutele diseguali e prevalentemente precarie.
Vi è quindi la necessità certamente di cambiare il modo di operare del sindacato e anche delle politiche contrattuali e organizzative. A dire il vero, questa esigenza emergeva già prima e fu posta con forza nel mio intervento conclusivo al congresso della CGIL, del 1986, quando venni eletto Segretario Generale. La parola d’ordine era “rifondare il sindacato e riorganizzarlo“, per assicurare la partecipazione e la democrazia, ma anche per adeguarsi e ripensare a delle strategie capaci di affrontare il nuovo profondo cambiamento, nell’organizzazione del lavoro, nella ricerca e nello studio. Obiettivi più che mai attuali!
Quando arrivai a Sesto, nel 1965, sulla base di un accordo sindacale, che applicava la riduzione dell’orario di lavoro dei siderurgici, le squadre di lavoro passarono da tre a quattro, si lavorava sette giorni su sette, 24 ore su 24 – con la rotazione dei turni – quindi il sindacato doveva essere a disposizione dei lavoratori negli stessi orari e turni. Ricordo i volantinaggi alle 5 del mattino, come alla sera alle 22, quando i lavoratori del secondo turno uscivano ed entravano quelli del turno di notte.
Ricordo anche un episodio in particolare. Una notte mi squilla il telefono. “Senti vieni qui subito che facciamo l’assemblea. Io rispondo, ma scusa sono le tre del mattino. Sì, mi rispondono dall’altra parte, il tempo di prepararti. Vieni qui per le quattro e usiamo le ultime due ore del turno della notte per fare l’assemblea degli addetti ai laminatoi della Falck!”
Ma oggi non ci sono più né la Falck né le grandi aziende. Quando incontro questi lavoratori che operano in queste piccolissime aziende e spesso devono cambiare attività e luogo di lavoro? Io credo, ad esempio, che tra le cose che dobbiamo cambiare del sindacato vi è quella di prevedere dei turni di lavoro per i funzionari sindacali, in modo che uno dei turni sia quello del pomeriggio fino alle 23 e che si realizzino nei quartieri delle città e nei paesi, delle sedi sindacali aperte fino alle 23, in cui si presta l’ascolto e si organizzano gli incontri. La conquista dello Statuto, il diritto di assemblea in fabbrica, negli anni Settanta, fece fare il salto alla democrazia e alla partecipazione. Ma se adesso quelle fabbriche non ci sono più, non posso pensare che metto insieme un’assemblea con il 96% dei lavoratori che lavorano nei piccoli luoghi di lavoro. Però lo posso fare a livello di quartiere e di paese. È una delle condizioni per rinnovare il sindacato e riportare la partecipazione, necessaria all’esercizio della democrazia, per costruire una nuova fase strategica di politica contrattuale, sociale, che riporti la parità di diritti tra i lavoratori dei diversi settori e delle diverse aree.
Per quanto riguarda i gruppi dirigenti del sindacato, voglio ricordare che con il Congresso del 1986, modificando lo Statuto, si è compiuto un progresso nelle regole, non da poco. Come quello che un dirigente ha la responsabilità per non più di due mandati congressuali, prorogabili al massimo per un ulteriore anno, per motivi straordinari ed eccezionali, e a condizione che ottenga il 70% dei voti di approvazione, e che poi è obbligatoria la rotazione.
Ricordavo come abbiamo fatto democrazia quando abbiamo costituito il SUM, a Sesto San Giovanni, con l’assemblea dei 1230 delegati. Oggi si deve ricostruire il rapporto a partire dai territori. Si devono costituire e costruire nuove strutture territoriali che colleghino i lavoratori e assieme a loro si devono discutere le politiche rivendicative, le ipotesi di piattaforma e di accordo, e le strategie complessive del sindacato.
Bisogna farlo, lo sottolineo, in piena autonomia dai Partiti, dalle Istituzioni, dai Padroni, dalle aziende, con i quali bisogna avere sì dei rapporti, come diceva Di Vittorio, ma restando indipendenti. Questo fu anche uno degli aspetti che venne introdotto nello Statuto. È quindi necessario radicarsi sul territorio per avere rapporti direttamente con i lavoratori. Senza fare questo non si ricostruisce quel passaggio che è necessario a una nuova stagione di unità sindacale e di democrazia.
Adriana Paolini. Il Job Act riporta, però, la minaccia del licenziamento, senza appello, quale strumento per impedire la contrattazione e frantumare ancora di più l’unità dei lavoratori, lasciando ciascuno al suo destino, in una guerra tra poveri che è solo cominciata. Dove coesistono fra l’altro anche contratti sottoposti a leggi diverse, gli articoli 1, gli articoli 18, e adesso il Job Act a tutele crescenti, ognuno con sempre meno diritti e fra loro diversi. Oggi i lavoratori non iscritti a un sindacato, come infatti accennavi anche tu, sono milioni. Nell’immediato, rapidamente, se tu oggi avessi la possibilità di promuovere un’azione, cosa faresti per rispondere al Job Act?
Antonio Pizzinato. È necessario iniziare una battaglia, anzi proseguirla, avendo presente che nel Job Act, si sono compiuti una serie di passaggi e adottato misure e norme di legge, che violano e contrastano con i valori e i principi costituzionali. Vorrei a questo riguardo fare riferimento anche alla mia esperienza di lavoratore in fabbrica, di dirigente sindacale, ma anche di parlamentare, sia alla Camera sia al Senato, e di Sottosegretario al Lavoro del Governo Prodi.
Si è approvato un decreto legislativo, il Job Act, ma successivamente non si è tenuto conto, nel discutere dei decreti attuativi, di cui alcuni sono ancora in discussione, di un confronto vero e dell’opinione e delle proposte del Sindacato e del Parlamento. Anche delle osservazioni approvate dalle Commissioni Parlamentari non si è tenuto conto e si sono messi in discussione principi costituzionali. Con il Job Act, e il primo decreto attuativo, si è messo in discussione, infatti, il principio della parità dei diritti: i lavoratori italiani non sono più uguali con parità di diritti.
Perché tutti coloro che sono stati assunti successivamente all’entrata in vigore del primo decreto attuativo del Job Act, ad esempio, si ritrovano modificato il principio della giusta causa nel licenziamento e della reintegrazione nel posto di lavoro, e questo elimina uno dei principi fondamentali del diritto del lavoro. È l’esempio della commercializzazione del lavoro: ti ho licenziato, non ti reintegro, e ti do due mesi all’anno di ricompenso, proporzionale alla dimensione del luogo di lavoro, fra i 12 e i 26 mesi.
A questo riguardo vorrei ricordare quello che dicevo prima, ragionando sulle lotte. Dal 1947 al 1970, quando non c’era lo Statuto dei Lavoratori, e c’era il licenziamento ad nutum, a un cenno, i licenziati per rappresaglia politico-sindacale furono 523mila. Dopo l’approvazione dello Statuto del Lavoratori, e delle leggi che vietano il licenziamento per maternità, per matrimonio o per un cenno, per ricostruire almeno le posizioni previdenziali, come si fece con varie leggi, si impiegarono anni. Per il pubblico impiego, ad esempio, la legge che prevede la ricostituzione delle posizioni previdenziali per chi era stato licenziato per rappresaglia politica e sindacale, si è approvata solo nel 2001 (me ne sono occupato direttamente), quindi quando erano già passati 53 anni dall’approvazione della Costituzione e 31 anni dall’approvazione dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori.
Faccio un esempio di chi è stato tra questi licenziati per rappresaglia. In un documentario in cui si vede un’intervista dell’allora Ministro degli Interni Scelba, vi furono tra i licenziati 8mila agenti della pubblica sicurezza che avevano una sola colpa, erano stati partigiani. E Scelba in quell’intervista disse “non ci si può fidare di loro”. Questo da parte dell’Italia, Repubblica Democratica fondata sul Lavoro, nata dalla Resistenza.
Stesso contratto, stessi trattamenti
Vi sono altri aspetti. Non vi è solo la diseguaglianza dei nuovi assunti o di chi cambia lavoro. Anche l’articolo 13 dello Statuto è stato violato, non c’è solo l’articolo 18, che è quello relativo a quali sono le condizioni in cui il lavoratore, a fronte di trasformazioni, modifica il suo trattamento di lavoro. Anche qui senza prevedere definizioni e trattative con le rappresentanze sindacali, si può procedere a cambiare mansione, lavoro e decidere retribuzioni inferiori. A questo riguardo vorrei ricordare a qualche ministro e a qualche parlamentare, che quando ci fu quella trasformazione in Borletti, nel 1953-54, si pensò solo a quei reparti in cui lavoravano gli operai specializzati alle catene di montaggio. Ma l’accordo fu quello che veniva mantenuta, ad personam, la retribuzione e anche la qualifica di chi era stato investito da questa trasformazione.
Anche in questi giorni il Garante della Privacy, Antonello Soro, ha sottolineato nell’audizione con il Parlamento che sono state introdotte regole di controllo, attraverso cellulari e computer, che violano le norme, tanté che ha sostenuto l’esigenza di rivederne il testo. Mi auguro che chi è al Governo, chi ha la responsabilità, tenga conto di queste osservazioni e si muova per salvaguardare il principio fondamentale che garantisce la privacy non solo dei cittadini, ma anche dei lavoratori.
Senza, poi, dimenticare il “Lavoro a Chiamata”, per i giovani fino a 24 anni e per gli anziani sopra i 55.
Tutti i richiami fin qui fatti indicano che vi è stata una regressione rispetto a quelli che sono i principi fondamentali e i valori fissati nella Costituzione.
Occorre definire una nuova strategia sindacale
A mio parere è necessario ridefinire una strategia generale, una nuova stagione di quelle che abbiamo fatto partire negli anni Sessanta, che superi questa situazione, ricostruisca la parità di diritti e consenta al nostro Paese, nel contesto dell’Europa e a livello mondiale, di portare avanti un progetto adeguato, come è avvenuto nell’800 quando abbiamo fatto il sindacato in Italia. Ne riassumo i temi.
Al posto delle decine di tipologie dei rapporti di lavoro bisogna passare a un massimo 4 o 5 tipologie di contratti.
Nello stesso posto di lavoro, indipendentemente che si sia dipendenti dell’azienda ospitante o di quella appaltante o subappaltante, va applicato lo stesso contratto di lavoro dei lavoratori dipendenti di quella azienda, di quella attività.
Invece di ridurre il numero di contratti di lavoro, come indicavo in quel famoso congresso del 1986, si è assistito a una inarrestabile moltiplicazione. Attualmente i contratti nazionali, oltre a quelli aziendali della Fiat, sono 376. Vanno ridotti, accorpati. In una recente dichiarazione, Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, ha dichiarato una disponibilità a muoversi in questa direzione. Io credo che i contratti nazionali di lavoro debbano essere 10, 15 al massimo.
A partire dal Contratto Unico dell’Industria, vanno accorpati i contratti di tutti i settori, in modo da avere gli stessi trattamenti e regole e che vengano rinnovati alle loro scadenze. Credo che la sentenza di alcuni giorni fa, della Corte Costituzionale, che dichiara illegittimo il blocco dei contratti da parte dello Stato, per quanto riguarda i pubblici dipendenti, sia da questo punto di vista istruttivo.
Come dicevo prima, per tutti coloro che lavorano in uno stesso ambiente di lavoro, in una fabbrica, in un ufficio, in un cantiere edile, in un centro studi, va applicato, per tutti quelli che vi operano, lo stesso contratto di lavoro, lo stesso trattamento.
Faccio anche qui un esempio che ho vissuto direttamente come esperienza.
Alla Fincantieri di Novi Ligure, i rappresentanti sindacali avevano proposto che il premio aziendale fosse dato, non solo ai lavoratori dipendenti della Fincantieri, ma fosse assicurato anche a coloro che lavoravano negli appalti. Purtroppo l’azienda è stata contraria ed è mancata anche un’unità da parte dei sindacati che ha spinto per firmare il non riconoscimento di questo trattamento.
È necessario, contemporaneamente, che nella stessa azienda si elegga periodicamente, ogni triennio, l’election day delle rappresentanze sindacali in modo che queste siano le rappresentanze sindacali di tutti quelli che operano in quella azienda, anche di chi è in appalti e subappalti, all’interno di quel luogo di lavoro. In modo che vi sia la conoscenza dei rapporti, la partecipazione, gli stessi obiettivi, e la costruzione di piattaforme unitarie e anche risoluzioni.
Al contempo bisogna prevedere due livelli di contrattazione: il Contratto Nazionale, accorpandoli a 10, 15 e non di più, e la contrattazione aziendale (di secondo livello), per i luoghi di lavoro che hanno più di 50 dipendenti, e la contrattazione territoriale (di distretto) per le piccole aziende che hanno meno di 50 dipendenti.
Così alla fine, ho un Contratto Nazionale che vale per tutti quelli che lavorano nella stessa azienda, una rappresentanza sindacale universale per tutti quelli che lavorano nello stesso luogo di lavoro, che può così effettuare il controllo efficacemente, e infine una contrattazione di secondo livello basata sul luogo di lavoro per le medie e grandi imprese, e di territorio (di distretto) per i piccoli luoghi di lavoro.
Se si compie questo cambiamento si fa il salto di qualità.
Per la mia esperienza, nel periodo in cui ero Sottosegretario al Lavoro del Governo Prodi, fra gli aspetti relativi alla sicurezza sul lavoro, vi era stato chi non aveva provveduto a denunciare il fatto che un lavoratore dipendente di una impresa appaltante, che era caduto, invece di chiamare un’ambulanza, l’avevano trasportato con un furgone e lungo il percorso era morto. Arrivato in ospedale si disse che si era infortunato per un incidente stradale, e non all’interno di una fabbrica. Potrei fare molti di questi esempi.
Per questo dobbiamo operare per la rappresentanza universale, sia per quanto riguarda i delegati rappresentanti della sicurezza, sia per i componenti dei Consigli di fabbrica.
Questi aspetti e questa strategia (RSU, Contrattazione, Regole Democratiche, ecc), a mio parere devono essere definiti rapidamente con una legge nazionale, partendo dall’accordo firmato con Confindustria, da CGIL, CISL e UIL, nel 2014.
Ricordo che quando ero Sottosegratario al Lavoro, si era proceduto – dopo anni di confronto – all’esame di una legge sulla rappresentanza e sulla contrattazione in azienda e si era arrivati alla Camera dei Deputati e all’approvazione di 9 dei 12 articoli. Era il Luglio del 1999. Ricordo che l’allora Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, non si mosse dalla Camera dei Deputati per tutta l’intera giornata, partecipò all’assemblea e operava per la sua approvazione. Purtroppo, arrivati all’approvazione del nono articolo, vi fu chi chiese il ritorno in Commissione per un riesame degli ultimi tre articoli. Ma quello non fu che il pretesto per bloccarne il percorso legislativo. Siamo nel 2015, sono passati 16 anni, e quella proposta di legge non è mai più tornata alla Camera per essere approvata.
Vi è un dato di riflessione, vi era un numero molto limitato di coloro che non erano d’accordo su quei contenuti, ma siccome la maggioranza era risicata, si rese impossibile far proseguire l’esame.
È necessario sostenere una battaglia per conquistare una legge nazionale che riguardi l’elezione universale delle rappresentanze sindacali aziendali, nei luoghi di lavoro e nei distretti, che preveda delle regole sulla contrattazione per quanto riguarda i contratti nazionali, per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello, aziendale o di distretto, e che la validità dei contratti è tale, se attraverso voto segreto universale dei lavoratori, viene approvato dalla maggioranza, questo sia per quanto riguarda la contrattazione sia per quanto riguarda la rappresentanza sindacale unitaria.
Questa strategia vuol rispondere al cambiamento economico produttivo, organizzativo del lavoro, e delle condizioni di lavoro, che sono intervenuti in questo ultimo ventennio e non arretrare, non tradurre a un mercato la commercializzazione del lavoro, ma bensì costruire come si è fatto negli anni Sessanta e Settanta, in quella realtà, una nuova stagione. Farlo non è semplice. Serve un sindacato unitario, non unico.
Adriana Paolini. Che differenza c’è fra sindacato unitario e sindacato unico?
Antonio Pizzinato. Che l’adesione al sindacato è libera e la sua vita e il suo operare è fatto in modo democratico, partecipato. Il sindacato unico era quello del fascismo, delle corporazioni fasciste.
Vorrei ricordare a questo proposito, visto che siamo nel settantesimo della liberazione di questo Paese, un dato che spesso nessuno ricorda. Gli scioperi del Marzo del 1943, diedero non solo un contributo a rovesciare Mussolini, ma spinsero a muoversi nella ricostruzione del sindacato e della democrazia sindacale. Nel Luglio del 1943, rovesciato Mussolini, sostituito da Badoglio come Presidente del Consiglio, iI Ministro dell’Economia e del Lavoro di quel Governo, come prima cosa sciolse le corporazioni fasciste. Nominò Mazzini come Commissario della Confederazione dell’Industria, Bruno Buozzi Commissario del Sindacato dell’Industria, Di Vittorio Commissario del Sindacato dell’Agricoltura e vari altri commissari per i vari settori, come Grandi per il Terziario. Questi commissari, delle imprese e dei lavoratori, già nel Luglio del 1943, prima ancora che fosse raggiunto l’armistizio con gli angloamericani, stipularono un accordo che prevedeva il diritto alla ricostituzione delle commissioni interne, nonché le regole elettorali: i lavoratori, nei vari luoghi di lavoro, dopo vent’anni ritornavano ad avere il diritto di eleggere le loro commissioni interne. Tantè che le Breda, nel mese di Agosto di quello stesso anno, avevano già eletto le commissioni interne, come succedeva anche in molte altre fabbriche italiane.
La battaglia non era solo contro la guerra e il fascismo, ma aveva come obiettivo anche quello di riconquistare il diritto all’elezione della rappresentanza, alla contrattazione e alle altre forme di partecipazione. Non bisogna dimenticare che le prime commissioni interne erano state elette nel lontano 1904.
Adriana Paolini. In un’ottica di Unità Europea, quali punti metteresti al primo posto di un’agenda sindacale internazionale, che tenga conto dei diritti non solo dei lavoratori, ma anche dei tanti disoccupati che sono stati buttati fuori dal mercato del lavoro e che in questo momento, non solo non hanno tutele, ma non trovano neanche il modo per ritornare a lavorare, per la propria dignità, per poter tornare a partecipare alla costruzione della loro vita e della società.
Ho letto di recente, per esempio, che nell’Unione Europea è stata fatta una proposta per trasformare i sindacati anche in Agenzie di Collocamento, perché in qualche modo essendo quella l’istituzione, il luogo in cui il lavoro viene difeso, lì può anche essere il luogo in cui lo stesso viene restituito o comunque aiutato e rilanciato. Cosa ne pensi?
Antonio Pizzinato. Innanzi tutto ritengo molto importante che si prosegua nello sviluppare l’iniziativa della costruzione, non solo della confederazione mondiale unitaria, ma anche delle federazioni unitarie europee e mondiali del sindacato. Si tratta di compiere quel passo in avanti.
Quando ero dirigente nazionale della CGIL e vicepresidente della Confederazione Europea dei Sindacati, mi recai in diversi luoghi per portare avanti questa riflessione. Come quando andai in Giappone, al congresso nazionale giapponese, in America Latina, in Cina e in Unione Sovietica assieme anche ai colleghi Marini e Benvenuto. Prima riflessione di costruzione mondiale di un sindacato, non solo rappresentativo, ma anche soggetto contrattuale fondamentale.
Da questo punto di vista, l’esempio dei marittimi, che hanno conquistato il Contratto Mondiale di Lavoro del Settore Marittimo, che viene rinnovato ormai da oltre cento anni, indica la strada sulla quale bisogna muoversi. Se è mondiale l’attività dei marittimi, non è forse mondiale anche quella del trasporto aereo? Perché non si fa il Contratto Mondiale del trasporto Aereo?
Secondo aspetto è quello di darsi una strategia sia per quanto riguarda la contrattazione a livello nazionale, ma anche con alcuni principi a livello europeo e globale, sia per quanto riguarda i trattamenti economici retributivi sia per la rappresentanza. All’interno di questo va posto anche il problema di come costruire parità di diritti e aiutare la realizzazione della piena occupazione.
Nel sindacato delle confederazioni, il nostro paese è stato uno dei terreni di battaglia, che a partire dal lavoro di Di Vittorio, negli anni Cinquanta – allora Segretario della Federazione Sindacale Mondiale, ha operato per realizzare programmi di sviluppo che assicurassero nei vari Paesi e nei vari Continenti la piena occupazione, favorissero percorsi di formazione, prevedessero un sostegno al reddito (redditto di cittadinanza) sia ai disoccupati sia a chi non riesce a trovare occupazione.
Ho qualche dubbio, invece, nel pensare che vi sia l’agenzia sindacale del lavoro del mondo. Vi è stata anche in Italia, all’inizio del secolo scorso, una esperienza simile intorno al 1910 – per esempio a Milano aveva sede negli uffici del Sindacato, in una parte del Castello Sforzesco – ma credo che questo compito e servizio debba essere pubblico – con la partecipazione dei rappresentanti dei sindacati – e operare affinché, nei vari territori, vi sia un sistema che tenga conto di quella che è la realtà economica e sociale, per avere una formazione che favorisca quel percorso.
Quindi piani di formazione e di sostegno al reddito e che, in questo modo, favoriscano la piena occupazione
È importante che in una stagione come questa, in Italia, in Europa e nel Mondo ci si muova con coraggio, a sostegno di relazioni sociali e internazionali che portino pace e sicurezza universali, che favoriscano equità e solidarietà sociale, che vedano il lavoro e i suo diritti come aspetti fondamentali nei singoli Paesi, nelle singole comunità e anche a livello globale.
Credo che da questo punto di vista sia necessario, come se ne discusso all’ultimo congresso della CES (Confederazione Europea Sindacale), nel bilancio del suo ruolo a livello europeo, costruire una nuova stagione della società che abbia al centro il lavoro, la coesione sociale, i rapporti internazionali e globali.
Tutto questo va fatto da un sindacato più universale possibile, unitario, democratico, partecipato, nelle diverse forme di elaborazione delle richieste delle battaglie per la sua realizzazione e anche di regole molto democratiche e trasparenti per la loro condivisione e sottoscrizione, ma in piena autonomia dalle forze politiche, dalle istituzioni e, come diceva Di Vittorio di indipendenza dai datori di lavoro, prevedendo, come prevede la nostra Costituzione, anche forme di partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese.
Se facciamo questo, portiamo avanti quei valori che sono stati alla base della fondazione del sindacato e che sono stati alla base dell’operare di figure come Di Vittorio, Buozzi e Grandi, con il Patto di Roma del 1944 e la costituzione della CGIL unitaria.
Adriana Paolini
30/6/2015 www.massacritica.eu
Linkografia:
Questo è il link a una guida ragionata sul Job Act
http://www.wikilabour.it/GetFile.aspx?File=%2fJobs-Act%2fGuida%2fGuida-Jobs-Act_Testo_Rel-02.pdf
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