La crisi del sindacato: una lunga storia

La condizione del lavoro oggi

La crisi del sindacato è innanzitutto la crisi del rapporto con i lavoratori e le lavoratrici: segnato profondamente dalla sua incapacità, cresciuta continuamente negli ultimi 40 anni, di tutelare i salari, le condizioni di lavoro, i diritti e le tutele che hanno subito una regressione impressionante.
La condizione dei lavoratori in Italia ha raggiunto livelli di degrado neanche immaginabili in un passato non molto lontano. Bassi salari, precarietà, part time obbligato, lavoro grigio e nero hanno creato un esercito di milioni di lavoratori che sono poveri pur lavorando.La piaga dei bassi salari italiani, gli unici in Europa a esser diminuiti negli ultimi 30 anni, raggiunge livelli inauditi dove dominano precarietà estrema, illegalità e mancanza di tutele, ma è diffusa anche tra chi ha contratti regolari firmati da sindacati nazionali.
Il lavoro precario coinvolge milioni di persone con occupazioni della durata di qualche ora, giorni o mesi, con scarse tutele, tanto nelle aziende “normali” nei servizi poveri quanto nel lavoro elettronico alle dipendenze di padroncini tradizionali o comandati dagli algoritmi delle piattaforme, nel sistema degli appalti e dei subappalti, nel lavoro stagionale.
Negli ultimi 15 anni i posti a tempo pieno sono stati sostituiti dal dilagare della precarietà e dei part time obbligati, che per un terzo delle aziende italiane rappresentano l’unico rapporto di lavoro che colpiscono soprattutto giovani e donne discriminate anche sul piano salariale.
Anche così, siamo agli ultimi posti in Europa per tasso di occupazione e ai primi per quello di disoccupazione che nel Sud raggiunge il triplo rispetto al Nord con punte del 50% di quella giovanile.
Disoccupazione e diffusa precarietà costringono lavoratori e lavoratrici ad accettare lavori sottopagati con scarse tutele e  livelli di sfruttamento insopportabili che insieme alla mancanza di controlli e di investimenti sulla sicurezza da parte delle imprese sono all’origine della catena senza fine di morti sul lavoro e per il lavoro.
Milioni di lavoratori pensionati vivono con assegni da fame, si è allungata a dismisura l’età lavorativa, mentre i giovani restano senza lavoro o si arrangiano con lavori precari che li trasformeranno in nuovi pensionati poverissimi.

L’offensiva padronale…

È il risultato di oltre 30 anni di attacchi che hanno eroso e annullato le conquiste degli anni Settanta, portati in primo luogo sul fronte del rapporto di produzione dove alla sconfitta della lotta della Fiat nell’80 sono seguite le ristrutturazioni e il decentramento produttivo che hanno prodotto espulsioni di massa, diffusione di lavori sottopagati senza tutele e continuati nella globalizzazione neoliberista, con le privatizzazioni delle grandi aziende pubbliche, l’esternalizzazione delle produzioni e le delocalizzazioni conseguendo l’obiettivo  di una  frammentazione e disarticolazione del mondo del lavoro finalizzate a sovvertire i rapporti di forza a vantaggio dei padroni.

….e quella dei governi

L’adesione dei governi di centrodestra e di centrosinistra alle narrazioni del pensiero unico sul primato del privato e del mercato, sui dogmi della flessibilità e della concorrenza è stata alla base delle tante leggi e “riforme” finalizzate a smantellare i diritti, subordinare il pubblico alle logiche d’impresa, deregolamentare il lavoro per ricondurlo docile e sottomess  sotto il comando del capitale. 
Ricordo solo i passaggi fondamentali. Abolizione della scala mobile cominciata da Craxi nell’84 e conclusa da Amato nel ’92; avvio dei processi di aziendalizzazione nel pubblico con Amato/De Lorenzo sempre nel ’92; attacco di Dini nel ’94 al cuore del sistema pensionistico con l’introduzione del contributivo; diffusione legale della precarietà con il pacchetto Treu nel ’97; fine del monopolio pubblico del collocamento con Bassanini nel ’97 e Biagi nel 2003; generalizzazione della precarietà con la legge 30 nel 2003; liberalizzazione del contratto a tempo determinato avviata dalla Fornero, proseguita da Poletti e Renzi con il Jobs Act; colpo mortale alle pensioni con l’allungamento sine die della vita lavorativa con la “riforma” Fornero nel 2011; infine, a conclusione del lavoro sporco finalizzato a rendere il lavoro  ricattabile e completamente assoggettato al comando d’impresa, arriva l’attacco all’art. 18, il cardine dello Statuto dei diritti dei lavoratori con la Fornero prima e Renzi poi.
Quest’opera di demolizione si è potuta svolgere grazie alla mancanza di una vera opposizione dei sindacati come nel caso della riforma Fornero o addirittura con il loro avallo come negli accordi del’ 92 con il governo Amato.

Le responsabilità del sindacato

Le sconfitte richiamate sono state rese possibili da una linea sindacale che si esplicita alla fine degli anni Settanta in un contesto influenzato dall’assunzione della linea dell’unità nazionale da parte del Pci ed evolverà in parallelo con l’evoluzione verso una linea neoliberale dei partiti suoi eredi, mentre a sinistra falliscono i tentativi di costruire un’alternativa credibile.  E’ proprio in virtù dell’adeguamento alla linea dei sacrifici del Pci, con l’assunzione delle compatibilità del sistema, che venne attuata la “svolta dell’Eur”, con cui il sindacato pose un argine sia alle rivendicazioni dei lavoratori sia allo sviluppo del grande movimento di trasformazione sociale in atto. La rottura delle relazioni democratiche con i consigli e con le assemblee dei lavoratori che ne conseguono sono all’origine della sfiducia verso i sindacati che continuerà a crescere negli anni seguenti.
E da allora in poi è una deriva senza fine; il sindacato risponderà sempre meno ai lavoratori e si porrà sempre più come garante degli equilibri capitalistici definiti dai governi; naturale corollario di questo percorso la sua progressiva involuzione burocratica e trasformazione in un ente di servizi da cui oggi trae oltre il 40% dei suoi iscritti.
La moderazione salariale che determinerà il più grave arretramento delle retribuzioni del lavoro a livello europeo e l’aver lasciato le dinamiche retributive nelle mani di governo e padroni indebolirà la lotta, quando si farà, su tutto il resto.
A queste logiche risponde l’accettazione anche da parte della Cgil di una serie di accordi, che nel tempo stravolgeranno il modello contrattuale costruito nelle lotte degli anni Settanta predeterminando la caduta progressiva del valore dei salari. Si comincia con la concertazione del luglio ’93, per arrivare all’accord  tra la Confindustria e sindacati confederali del 28 febbraio 2018 per il privato, sottoscritto anche dalla Cgil: l’assunzione dell’Ipca depurato svuota il contratto nazionale, gli aumenti salariali sono attribuiti ai contratti aziendali come variabili dipendenti dell’andamento dell’economia, della produttività e del risultato d’impresa; il welfare aziendale, spinto dai governi con le agevolazioni fiscali, diventa componente costitutivo del salario e non più elemento aggiuntivo.

La crisi del fronte del lavoro

Sono questi i processi all’origine dell’attuale debolezza del mondo del lavoro e della crisi del sindacato.
Il mondo del lavoro è indebolito dalle sconfitte subite in decenni di feroce attacco neoliberista ai salari, alla contrattazione, all’occupazione e di precarizzazione andate di pari passo con la diffusione della sfiducia nei confronti dei sindacati e delle forze di sinistra, accomunate a torto o a ragione in un giudizio negativo; è fragile perché è diviso in un’infinità di figure lavorative e profili contrattuali stabili e precari, pubblici e privati, uomini e donne, nativi e migranti, giovani e meno giovani. Condizioni dentro cui il neoliberismo ha avuto buon gioco a far passare le sue idee: la naturalità e immutabilità del capitalismo, la povertà e l’insuccesso come colpa di chi li subisce, l’idea che la crisi è dovuta alla scarsità. Sono penetrate nella classe l’idea che il conflitto non paghi generando senso d’impotenza, passività, individualismo e la concorrenza tra lavoratori e hanno buon gioco le spinte alla guerra dei penultimi contro gli ultimi. A ciò si aggiunga l’incertezza determinata dalla guerra e dai rischi del suo allargamento mondiale a causa della crescente contrapposizione tra blocchi. 

La crisi del sindacato

Il sindacato è in crisi perché ha perso la forza che solo il movimento dei lavoratori e le sue lotte possono dargli. L’ha persa perché ha rinunciato alla sua autonomia nel momento in cui ha assunto le compatibilità del sistema illudendosi di poter influenzare le politiche economiche e sociali sulla base di presunte ragioni comuni tra i produttori. Strategia che non ha funzionato nel passato anche recente e che certo non potrà funzionare con le destre al governo. È in crisi perché in questo processo ha privilegiato percorsi unitari di vertice tra confederazioni su una linea concertativa e rinunciataria che hanno accentuato la perdita di autonomia e sacrificato la democrazia interna già messa in crisi da anni di gestioni verticistiche.  È in crisi perché segnato dal perseguire scelte come il welfare aziendale che aggiunge alle fratture del mondo del lavoro una con chi subisce lo smantellamento della sanità pubblica. La scarsa partecipazione all’ultimo congresso pur caratterizzato da molte proposte in sé condivisibili è un segno della sfiducia dei lavoratori verso il sindacato e la rassegnazione diffusa nella sua stessa base.

Le difficoltà attuali

Così si spiega come a parte singole lotte come quella della Gkn, di episodi di lotta nei luoghi di lavoro come nella logistica o singole mobilitazioni nazionali senza continuità, nonostante la ripresa del 2021 e l’utilizzo dei fondi del Pnrr a vantaggio delle ristrutturazioni industriali senza creare occupazione di qualità non c’è stata la ripresa di lotte che sarebbe stata necessaria.  Lo stesso accade oggi di fronte agli effetti sociali devastanti prodotti da guerra, inflazione e alti tassi che hanno eroso il potere d’acquisto di salari e pensioni in modo pesantissimo, mentre incombono i rischi di nuove ondate di ristrutturazioni e delocalizzazioni. La stessa azione antioperaia e antipopolare del governo Meloni non ha prodotto le mobilitazioni necessarie a contrastarla, essendo rimasto lo sciopero generale promosso da Cgil e Uil un fatto occasionale non inserito all’interno di un necessario percorso di opposizione al governo e anzi si è avuta un’apertura di credito verso la Meloni non considerando che la natura di questo governo  e la crescita della competizione mondiale tra capitalismi, spingeranno verso un inasprimento delle politiche neoliberiste per ricavare spazi di competitività a vantaggio dei profitti e a scapito di salari e diritti. 

Che fare?

L’apertura di una grande stagione di lotte, unificando in una mobilitazione comune tutte le lotte locali e settoriali, potrebbe permettere di resistere all’offensiva delle forze avversarie, cominciare a riconquistare quanto perduto e ricostruire l’unità e la forza della classe. Il lancio di una grande vertenza nazionale con governo e imprese sui salari con una strategia di lotta radicale, unitaria e articolata può e deve diventare centrale in funzione del rilancio delle lotte e della riunificazione del devastato mondo del lavoro.
Promuovere una mobilitazione con l’obiettivo di alzare i salari e difendere tutti dal carovita  significherebbe anche segnare un cambio di passo importante rispetto alle piattaforme onnicomprensive che ogni volta  producono la percezione di non arrivare a nulla.
Fa parte integrante di un simile percorso la lotta per L’introduzione di un salario minimo legale di 10 euro che abbiamo avanzato come Up, la cui necessità è oggi riconosciuta anche dalla Cgil; un passo molto importante  per il suo carattere unificante di tutte le fasce di lavoratori sottopagati specie giovani e donne sparsi in diversi settori, con contratti firmati da sindacati gialli, ma anche con contratti nazionali firmati dai sindacati confederali, la cui introduzione avrebbe un positivo effetto di  innalzamento dei salari di tutti i lavoratori delle categorie  più alte.
La lotta per il salario minimo e per i salari deve accompagnarsi con quelle per la riconquista della scala mobile; per l’abolizione di tutte le leggi che hanno diffuso infinite forme di precarietà;  per il contrasto alla piaga  del sistema di appalti e subappalti;  per la piena e buona occupazione da realizzarsi con un grande piano di assunzioni nel pubblico e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; per l’eliminazione di tutti gli ostacoli alla parità di genere; per la regolarizzazione dei migranti che vivono e lavorano in Italia senza condizioni; per la reintroduzione dell’articolo 18 contro il licenziamento senza giustificato motivo; per la salute e la sicurezza nel lavoro attraverso l’estensione dei controlli, delle sanzioni anche penali fino all’introduzione del reato di omicidio sul lavoro.
La ricostruzione dell’unità della classe è parte di un compito più ampio che deve coinvolgere i ceti popolari senza un reddito, una pensione o un’abitazione dignitosi e tutti quei soggetti  su cui ricadono le contraddizioni del capitalismo e che le combattono organizzandosi in movimenti di lotta come il movimento delle donne, quelli in difesa dell’ambiente e del territorio, per la scuola e la  sanità pubbliche, per il diritto alla casa, contro il fascismo e il razzismo.
Su questi temi si impone sia alle forze politiche e sindacali che assumono il compito della trasformazione sociale la scelta di agire in un’ottica che per semplicità definiamo di confederalità sociale. Si tratta di darsi obiettivi e organizzare soggetti e conflitti su tutti i temi e  che impattano con la vita delle persone e collegarli in un unico fronte che individui il comune nemico e  si ponga nella prospettiva dell’alternativa di sistema.

Quale sindacato

Per quanto riguarda i sindacati di base, già collocati su una linea conflittuale di classe, va detto che la frammentazione in un numero di sigle presenti a macchia di leopardo in categorie e territori impedisce di riprodurre a livello nazionale l’azione pur importante che svolgono in situazioni in cui sono presenti. Mi pare che l’obiettivo di gran lunga più importante sia di riprendere i percorsi unitari avviati lo scorso anno superando le divisioni che impediscono loro di assumere a livello nazionale la consistenza e la massa critica  minima necessaria.La Cgil, nonostante l’involuzione che l’ha ridotta a gestire quasi solo crisi aziendali e a rinnovare i contratti nazionali all’interno delle compatibilità stabilita dalle controparti resta un sindacato di massa con una diffusione capillare nel paese e nei luoghi di lavoro dove mantiene più di 2 milioni e mezzo di iscritti  con un’articolazione di  attivisti e strutture spesso protagonisti di  conflitti e vertenze  con caratteri classisti  sia all’interno che all’esterno dei luoghi di lavoro  di cui la vicenda della Gkn rappresenta un caso fra tantissimi. Questo lascia aperta la possibilità  di lavorare per un cambiamento, anche attraverso l’organizzazione dei delegati dei lavoratori, nella direzione di un sindacato autonomo e solidamente ancorato a un punto di vista di classe che rifiuti le logiche concertative e cogestionali che hanno  provocato i gravi arretramenti attuali.
Un sindacato di classe che assuma il conflitto col capitale  come la bussola per ristabilire  l’autonomia del lavoro e si rafforzi  connettendo la ricostruzione del controllo nei  processi di produzione, le lotte per i salari e i diritti nei luoghi di lavoro con la vocazione di sindacato generale che si pone l’obiettivo della trasformazione sociale coalizzandosi con i movimenti e le diverse lotte che si oppongono al neoliberismo in direzione dell’alternativa di società.
Pensiamo che occorra ripartire cominciando dal modello contrattuale: il contratto nazionale deve recuperare integralmente l’inflazione  e ottenere incrementi salariali reali così come i contratti aziendali; occorre l’obbligo del rinnovo del dei contratti scaduti in tempi certi; la introdotta la validazione delle piattaforme e degli accordi tramite il voto dei lavoratori.
E questa la strada per ricostruire insieme il protagonismo dei lavoratori e dei tanti iscritti e attivisti che in stagioni passate hanno svolto un ruolo fondamentale nel radicamento del sindacato; il rafforzamento degli organismi di base e una reale democrazia interna che investa tutte le sue strutture le premesse indispensabili per superare  la sfiducia e la passività cresciute negli anni.
Solo così e con una netta opposizione al governo sarà possibile avviare quella nuova grande stagione di lotte che oggi più che mai può permettere al sindacato di tornare a ricostruire rapporti di forza da spendere nella contrattazione con l’avversario di classe quello che da 30 anni la lotta di classe contro il lavoro l’ha fatta e l’ha vinta grazie alle battaglie che non sono state combattute.
Solo così e con una netta opposizione al governo, sarà possibile avviare quella nuova  stagione di lotte che oggi più che mai può permettere al sindacato di tornare a ricostruire rapporti di forza da spendere nella contrattazione con l’avversario di classe , quello che da 30 anni la lotta di classe contro il lavoro l’ha fatta e l’ha vinta grazie alla rinuncia alle battaglie avvenuta sotto tutti i governi passati da almeno 30 anni. In conclusione per poter poi difendere sanità pensioni  scuola pubbliche, eccetera, occorre uno scontro sui profitti che richiede un direzione politica, anche sindacale, incompatibile: su i salari, giù i profitti. Occorrono i comunisti.


Antonello Patta, prima maestro elementare e poi docente di storia e filosofia, con più di 50 anni di militanza politica, tra i protagonisti del movimento studentesco milanese dal ’68, ha poi militato con ruoli dirigenti in Avanguardia Operaia, Democrazia proletaria e ha aderito fin dalla fondazione al Prc nel quale ricopre il ruolo di responsabile nazionale lavoro.

31/12/2’23 https://www.sulatesta.net

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