La “cultura” woke, piattaforma del campo largo?

di Francesco Galofaro università IULM di Milano

In un articolo su La Stampa del 27 gennaio Barbara Carnevali rivendica la cultura woke come progetto politico “di sinistra” per la società del futuro. Ad accomunare la sinistra sarebbe, in questa prospettiva, la lotta alla povertà: non solo economica, ma anche culturale e simbolica. Dunque, anche Marx può far parte degli strumenti culturali di questa sinistra, e i comunisti possono votare i Cinque stelle o il PD con la coscienza (di classe) tranquilla. Quale sia il grado di priorità da attribuire alla disuguaglianza sociale, tra le altre forme di povertà, lo si determinerà poi. Il compito spetta ai partiti, i quali, però, a mio modo di vedere, negli ultimi trentacinque anni non hanno dato prova di grande solerzia, in proposito.

Proprio quest’ultima precisazione dell’autrice sembra alludere al campo largo e a un’alleanza interclassista tra liberali, radicali di sinistra, società civile, organizzazioni sindacali in grado di battere la destra populista e la povertà culturale, simbolica propriamente detta della quale essa si alimenta. Per il momento, dunque, occorre battere l’avversario principale; poi, saranno i rapporti di forza a determinare se la coalizione agirà in favore del capitale, del lavoro, o se – come personalmente ritengo più probabile – non agirà affatto.

Secondo l’autrice, l’agenda woke è in grado di definire il progetto di una sinistra globale. Stando all’autrice, si tratterebbe di intervenire per eliminare le violenze del sistema sociale contro le sue vittime. Le opposizioni rilevanti, per orientarsi lungo la via, sono: bianchi/non bianchi, uomini/donne, sessualmente conformisti/eccentrici. Si tratta di suscitare movimenti per riaprire e rialimentare il conflitto. Se questo è il progetto, ero convinto che avesse già perso. Se anche così non fosse, le proposte dell’autrice lascerebbero perplessi da diversi punti di vista. 

In primo luogo, si sostiene che la divisione tra la sinistra che lotta per i diritti e quella che lotta per il lavoro faccia il gioco della destra. In realtà, questa divisione non c’è. Non è esatto, infatti, scrivere che la sinistra liberale considera la disuguaglianza come un “problema tra gli altri”; in realtà, si limita a rimuoverlo. Il tema della protezione della forza-lavoro nazionale oggi è una bandiera esclusiva della destra trumpiana. 

Il secondo elemento di perplessità deriva dall’evidente fallimento delle politiche woke negli USA. Non è adottando come modello una ricetta già fallita, che si cambia il mondo. Negli USA l’agenda woke non ha promosso reale integrazione, non ha prodotto una società più coesa, ma ha mantenuto ciascuno nella sua piccola riserva indiana conflittuale: etnica, religiosa, di genere, di orientamento sessuale. 

In particolare, è il concetto di discriminazione positiva a non funzionare. Le “quote” riservate alle minoranze non fanno che stabilizzare le minoranze stesse. Costituiscono il contrario dell’uguaglianza: sono un sistema di punteggi, che stabilisce un’articolata gerarchia di “priorità sociale”, soggetta a ogni genere di arbitrio burocratico. Ad esempio, alle donne bianche diamo due punti più degli uomini di colore, ma ai maschi transgender ne diamo quattro? Così gli uomini tornano a sorpassare le donne, che sono sì vittime, ma un po’ meno delle trans. Un sistema del genere risente della divisione in ghetti tipica, non a caso, della società statunitense. Salvo che essa, paradossalmente, preserva e moltiplica le caste: nessuno, infatti, ha interesse a perdere il proprio piccolo bonus.

La disuguaglianza economica non dovrebbe essere considerata un fattore tra i tanti: è la contraddizione strutturale, immanente, che genera le altre, perché rende qualsiasi diritto valido solo sul piano formale, ma non usufruibile da quello materiale. Questo distingue il marxismo da altre tradizioni “di sinistra”: la condizione per un esercizio effettivo dei propri diritti è la democrazia economica. È la povertà a fare di un gruppo etnico, religioso o biopolitico una vittima potenziale. La destra lo ha ben chiaro, e aggrega, mentre la sinistra divide i propri elettori in gruppetti, l’un contro l’altro armato. Si rimuova il problema della riduzione della disuguaglianza economica, pensando solo a strumenti parzialmente compensativi rivolti solo alle donne, ai cittadini di colore, agli omosessuali e alle minoranze religiose; a quel punto ai maschi, ai bianchi, agli eterosessuali e ai cristiani mainstream non resterà che votare per Trump. In effetti è proprio quello che è successo, e indovinate chi ha vinto?

Per continuare con la lista delle perplessità, c’è un che di ideologico nel definire “vittime” le fasce meno abbienti della popolazione. In questo modo si mascherano il conflitto di classe e i reali rapporti di forza. Ad esempio, una recente ricerca ha stabilito che il 5% più ricco delle famiglie italiane possiede il 51% delle ricchezze. Il 95% “più povero” non è definibile alla stregua di una minoranza di vittime, di un gruppo di dalit. Si tratta, al contrario, di una forza storica che deve prendere coscienza di sé. Una minoranza ha dunque il potere di imporre per legge la tutela dei propri interessi e di combattere ogni visione del mondo intesa a metterne in dubbio la legittimità.

In questa situazione, un’alleanza tra coloro cui interessa una semplice promozione di particolari diritti e coloro che vogliono combattere la disuguaglianza rischia di divenire un patto tra un ristretto numero di gatti che strumentalizzano una massa passiva e parcellizzata di topi. Nella società capitalista, basata sulla disuguaglianza, una donna ricca è una donna; una donna povera è una povera. La destra vince perché ha raccontato alla working class americana che i suoi interessi sono quelli di Elon Musk. La sinistra perde perché ha negato l’esistenza stessa della working class, dissolvendola in una matrice di elementi identitari: etnia, religione, orientamento sessuale. Non ribalterà la partita sostenendo che gli interessi dei lavoratori sono gli stessi di John Elkann.

In questo senso, la “cultura woke” è soltanto un’ideologia, che copre i reali rapporti di forza tra le classi e ne nasconde gli interessi. Ad esempio: gli interessi della borghesia e dei lavoratori coincideranno quando si dovrà decidere se far uscire il Paese dal conflitto tra Russia e Unione europea, che ha messo in ginocchio l’economia italiana? Il prezzo dell’energia al megawattora è attualmente il triplo di quello americano: paghiamo la differenza in licenziamenti, cassa integrazione, riduzione del potere d’acquisto, aumento del prezzo dei trasporti e del riscaldamento.

Una prova indiretta di quel che sto dicendo è costituita dal fatto che, nello stesso numero in cui ha pubblicato l’articolo di Barbara Carnevali, la Stampa elogiava Elly Schlein per il tentativo di smarcarsi dalla subalternità a Landini, incontrando gli imprenditori. “Elly di lotta e d’impresa: per puntare a palazzo Chigi servono entrambe”: i pennivendoli a libro paga del 5% che conta se ne rendono ben conto. Con il progetto, una volta raggiunto l’obiettivo, di scaricare il restante 95.

29/1/2025 https://www.marx21.it/

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