La disumanizzazione dei palestinesi da parte della società israeliana è ormai totale

972mag.com Di Meron Rapoport. In passato, in Israele il dibattito sulla moralità delle sue azioni militari poteva essere limitato e ipocrita, ma almeno esisteva. Non questa volta.

Alle 5:40 del mattino del 10 agosto, il portavoce del IDF (Israeli Defence Forces) aveva inviato un messaggio ai giornalisti per informarli di un attacco aereo israeliano su un “quartier generale militare situato nel complesso scolastico di Al-Taba’een vicino a una moschea, nell’area di Daraj e Tuffah, che funge da rifugio per i residenti di Gaza City”.

“Il quartier generale”, continuava il portavoce, “è stato utilizzato dai militanti dell’organizzazione terroristica di Hamas per nascondersi e da lì hanno pianificato e promosso attacchi terroristici contro le forze del IDF e i cittadini dello Stato di Israele. Prima dell’attacco, sono state prese tutte le precauzioni per ridurre le possibilità di recare danno ai civili, tra cui l’uso di munizioni di precisione, equipaggiamento visivo e informazioni dei servizi di intelligence”.

Poco dopo questo annuncio, in tutto il mondo sono circolate immagini scioccanti della scuola di Al-Taba’een che mostravano ammassi di carne smembrata e altri resti umani riposti in sacchetti di plastica. Le immagini erano accompagnate da dichiarazioni secondo cui circa 100 palestinesi erano stati uccisi nell’attacco israeliano, con molti altri ricoverati in ospedale. La maggior parte delle vittime è stata uccisa durante il fajr, la preghiera dell’alba, svolta in uno spazio designato all’interno del complesso scolastico.

Nelle ore e nei giorni successivi, come previsto, si è sviluppata una guerra di narrazioni sul numero delle vittime civili. Il portavoce del IDF ha pubblicato le foto e i nomi di 19 palestinesi uccisi nell’attacco che, a suo dire, erano “operativi” di Hamas o del Jihad Islamico; molti sono stati etichettati come “terroristi” senza specificare il loro presunto ruolo o grado militare.

Hamas ha negato le accuse. Anche Euro-Med Human Rights Monitor ha contestato le informazioni fornite dall’esercito israeliano: la ONG ha inoltre scoperto che alcune persone sulla lista fornita dall’esercito erano già state uccise in precedenti attacchi a Gaza, che altri non erano mai stati sostenitori di Hamas e che alcuni erano addirittura oppositori del gruppo. L’esercito ha poi pubblicato un elenco aggiuntivo di altri 13 palestinesi, anche questi presunti “operativi” uccisi nel bombardamento.

Mentre solo un’indagine indipendente potrà determinare in modo definitivo l’identità di tutte le vittime dell’attacco, la dichiarazione iniziale del portavoce del IDF è indicativa del drasttico cambiamento che la società israeliana ha subito per quanto riguarda la vita dei palestinesi di Gaza.

L’annuncio del IDF affermava esplicitamente che la scuola “serve come rifugio per i residenti di Gaza City”, il che significa che i militari sapevano benissimo che gli sfollati erano fuggiti lì per paura dei bombardamenti dell’esercito. La dichiarazione, d’altronde, non denunciava il fatto che ci fossero stati attacchi con armi o missili provenienti dalla scuola, ma che “i terroristi di Hamas… hanno pianificato e promosso… atti terroristici” da questa. Né confermava che i civili che si erano rifugiati nella scuola avessero ricevuto alcun avvertimento, ma solo che l’esercito aveva usato “armi di precisione” e dati forniti dai “servizi segreti”. In altre parole, l’esercito aveva bombardato un rifugio popolato sapendo benissimo quali sarebbero state le conseguenze letali che il suo assalto avrebbe inflitto.

Come se affamare milioni di persone fosse un hobby.

Non sorprende affatto che i media israeliani abbiano subito avallato le affermazioni del portavoce del IDF. Quando si tratta dei clamorosi fallimenti della sicurezza che hanno portato al 7 ottobre, ai media israeliani, in particolare a quelli di destra, è consentito essere critici e scettici nei confronti dell’esercito. Ma quando si tratta di uccidere i palestinesi, questo scetticismo viene abbandonato: a Gaza, l’esercito ha sempre ragione.

“In guerra, le scuole sono off limits”, aveva scritto su Haaretz il Prof. Yuli Tamir, ex-ministro dell’istruzione israeliano. “Non c’è un solo comandante che dirà: ‘Basta così’?”. La risposta a questa domanda è un chiaro no. Ogni guerra comporta un certo livello di disumanizzazione del nemico. Ma sembra che nell’attuale guerra a Gaza, la disumanizzazione dei palestinesi sia quasi totale.

Negli ultimi decenni, dopo ogni guerra combattuta dagli israeliani, ci sono state manifestazioni pubbliche di pentimento. Ma queste sono state spesso criticate, definendole come una mentalità dello “spara e piangi”, ma almeno in questo caso i soldati piangevano.

Dopo la guerra dei sei giorni del 1967, è stato pubblicato il libro “The Seventh Day: Soldiers’ Talk about the Six-Day War”, che ha avuto un enorme successo, con le testimonianze di soldati che si confrontavano con i dubbi morali che avevano dovuto affrontare durante i combattimenti. Dopo i massacri di Sabra e Shatila del 1982, centinaia di migliaia di israeliani, tra cui molti che avevano prestato servizio nella guerra del Libano, scesero in piazza per protestare contro i crimini commessi dall’esercito.

Durante la prima Intifada, molti soldati hanno parlato degli abusi compiuti sui palestinesi. La seconda Intifada ha dato vita alla ONG Breaking the Silence. Il dibattito morale sull’occupazione era forse limitato e ipocrita, ma almeno esisteva.

Non questa volta. L’esercito israeliano ha ucciso almeno 40.000 palestinesi a Gaza, circa il due percento della popolazione della Striscia. Ha causato il caos totale, distruggendo sistematicamente quartieri residenziali, scuole, ospedali e università. Centinaia di migliaia di soldati israeliani hanno combattuto a Gaza negli ultimi 10 mesi, eppure il dibattito morale è quasi inesistente. Il numero di soldati che hanno parlato dei loro crimini o dubbi morali con serie riflessioni o pentimenti, anche in forma anonima, si può contare sulle dita di una mano.

Paradossalmente, la distruzione insensata e gratuita che l’esercito sta scatenando a Gaza si può vedere grazie alle centinaia di video che gli stessi soldati israeliani hanno filmato e inviato ad amici e familiari per vantarsi delle loro azioni. È dalle loro registrazioni video che abbiamo potuto vedere le truppe che fanno saltare in aria le università di Gaza, sparano a caso contro le case o distruggono un impianto idrico a Rafah, per citare solo alcuni esempi.

Il generale di brigata Dan Goldfuss, comandante in pensione della 98a divisione, presentato come un esempio di comandante che sostiene i valori democratici, in una lunga intervista ha detto: “Non mi dispiace per il nemico… non mi vedrete sul campo di battaglia provare pena per il nemico. O lo uccido o lo catturo”. Nell’intervista non viene detta una parola sulle migliaia di civili palestinesi uccisi dal fuoco dell’esercito o sui dubbi che hanno accompagnato tale massacro.

Allo stesso modo, il tenente colonnello A., comandante del 200° squadrone che gestisce la flotta di droni dell’aeronautica militare israeliana, ha rilasciato un’intervista a Ynet all’inizio del mese di agosto 2024 in cui ha affermato che la sua unità aveva ucciso “6.000 terroristi” durante la guerra. Quando gli è stato chiesto, nel contesto dell’operazione di salvataggio per liberare quattro ostaggi israeliani a giugno, che ha portato all’uccisione di oltre 270 palestinesi, “Come si identifica chi è un terrorista?”, ha risposto: “Abbiamo attaccato sui lati della strada per allontanare i civili e chiunque non fosse fuggito, anche se era disarmato, per quanto ci riguardava, era un terrorista. Tutti quelli che abbiamo ucciso, dovevano essere uccisi”.

Nelle ultime settimane, questa disumanizzazione ha raggiunto nuovi apici col dibattito sulla legittimità dello stupro dei prigionieri palestinesi. Durante una discussione sulla rete televisiva Channel 12, Yehuda Shlezinger, un commentatore del quotidiano di destra Israel Hayom, ha chiesto di istituzionalizzare lo stupro dei prigionieri come prassi militare. Almeno tre membri della Knesset del partito al governo Likud hanno inoltre sostenuto che ai soldati israeliani dovrebbe essere consentito di fare qualsiasi cosa, incluso lo stupro.

Ma il primo premio della disumanizzazione va al ministro delle Finanze e vice del ministero della Difesa di Israele, Bezalel Smotrich. Il mondo “non ci permetterà di provocare la morte di fame di 2 milioni di civili, anche se potrebbe essere giustificato e morale finché i nostri ostaggi non saranno restituiti”, si è lamentato in una conferenza di Israel Hayom all’inizio del mese di agosto.

Queste sue osservazioni sono state fortemente condannate in tutto il mondo, ma in Israele sono state accolte con indifferenza come se far morire di fame milioni di persone fosse solo un banale passatempo. Se i semi della disumanizzazione non fossero già stati piantati e ampiamente legittimati, Smotrich non avrebbe osato dire una cosa del genere pubblicamente. D’altronde, Smotrich ha potuto constatare con quanta prontezza il governo e l’esercito israeliani abbiano efficacemente adottato il suo “Piano decisivo” a Gaza.

“Finché uccideremo, loro meritano di morire”.

Quando parliamo della corruzione morale che è insita nell’occupazione, spesso ricordiamo le parole del Prof. Yeshayahu Leibowitz. Nell’aprile del 1968, meno di un anno dopo l’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza, scrisse: “Lo stato che governa una popolazione ostile di 1,4-2 milioni di stranieri diventerà necessariamente uno stato Shin Bet, con tutto quello che implica per lo spirito educativo, la libertà di parola e di pensiero e la governance democratica. La corruzione che è caratteristica di tutti i regimi coloniali infetterà anche lo Stato di Israele”.

Quando consideriamo l’abisso morale in cui si trova oggi la società israeliana, è difficile non attribuire a Leibowitz una capacità profetica. Ma un esame attento delle sue parole rivela un quadro più complesso.

Si potrebbe sostenere che lo stato di Israele del 1968 fosse ancora meno democratico di oggi. Era uno stato mono-partitico governato dal Mapai (predecessore dell’attuale Partito Laburista), che escludeva non solo i suoi cittadini palestinesi, risultati negli ultimi due anni dal governo militare israeliano, ma anche gli ebrei mizrahi dei paesi arabi e musulmani, e metteva in un angolo gli ebrei religiosi e ultra-ortodossi. I media israeliani difficilmente criticavano il governo e i libri di testo scolastici da cui ho imparato negli anni ’60 e ’70 non erano particolarmente progressisti.

All’interno della Linea Verde, Israele è molto più liberale oggi di quanto non lo fosse nel 1968. Le donne sono sempre più in posizioni di potere, per non parlare delle persone LGBTQ+ la cui stessa esistenza era un crimine. Economicamente, Israele è un paese molto più libero dell’economia statalista centralizzata degli anni ’60 (e le disuguaglianze sono cresciute di conseguenza), e il paese è molto più collegato al resto del mondo.

Si potrebbe sostenere che questa non è una contraddizione, ma che si tratti piuttosto di processi complementari. L’occupazione non ha solo arricchito Israele (ad esempio, le esportazioni che riguardano i sistemi di difesa hanno raggiunto un record di 13 miliardi di dollari nel 2023), ma ha aiutato il paese a mantenere due sistemi di governo paralleli (colonialismo e apartheid nei territori occupati e democrazia liberale per gli ebrei all’interno della Linea Verde) e forse anche due sistemi di moralità paralleli. La disconnessione tra l’espansione dei diritti dei cittadini israeliani e la cancellazione dei diritti dei sudditi palestinesi è diventata una parte interconnessa allo stato. Una “villa nella giungla” non è solo un termine pittoresco ma descrive l’essenza stessa del regime israeliano.

L’attuale governo fascista ha sconvolto quello che un tempo era un equilibrio più delicato. Trasformando il “liberalismo” in un nemico, politici come Yariv Levin, Simcha Rothman e i loro soci stanno cercando di abbattere la barriera tra i mondi paralleli attraverso il loro colpo di stato giudiziario. Le posizioni di rilievo assegnate a razzisti e fascisti come Smotrich e Itamar Ben Gvir hanno contribuito a questo processo.

Di fronte alle atrocità inflitte da Hamas il 7 ottobre, il discorso di questi fascisti israeliani rimane la voce principale nel dibattito pubblico, poiché il presunto liberale Israele, che ha ignorato l’occupazione per anni, non ha saputo collocare la violenza di Hamas in un contesto più ampio di oppressione strutturale e apartheid. È così che siamo arrivati al punto in cui, nella società israeliana dominante, non vi è una vera opposizione alla totale disumanizzazione dei palestinesi.

La “macchina per uccidere” israeliana non sa più come fermarsi, hanno scritto Orly Noy di +972 e Local Call su Facebook dopo il bombardamento della scuola di Al-Taba’een, perché agisce per inerzia e tautologia. “Sta agendo per inerzia perché fermarla costringerebbe Israele a interiorizzare ciò che ha causato, quale atrocità su scala storica è registrata nel suo nome… Ed è qui che entra in gioco la logica tautologica: finché uccidiamo, è ovvio che loro meritano comunque di morire”. Proprio come ha detto il comandante del 200° squadrone qualche giorno dopo.

(Foto: Abed Rahim Khatib/Flash90).

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi

4/9/2024 https://www.infopal.it

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