La fase 2 di Confindustria

Esiste la crisi, ma non esiste l’autonomia della crisi. Da qui occorre iniziare per capire quello che abbiamo davanti nella cosiddetta fase 2.

Mentre l’Italia piange ancora le vittime del virus, Matteo Renzi e Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, rompono gli indugi e attaccano il governo e sindacati, rei di fermare l’Italia.

Il primo con il suo solito ululare, con i ghigni scomposti di un capitano smarrito, che urla quando la flotta vira in un’altra direzione. Impermeabile al pudore e alla vergogna, ignaro della tragedia che accompagna il presente di milioni di italiani, si spinge a chiedere al paese di onorare i suoi morti, tornando alla vita di tutti i giorni, come se niente fosse. Uno show man di seconda taglia che prova a coprire con un rumore artificiale il silenzio di un pubblico smarrito. Dimentichiamoci di tutto, quello che abbiamo passato è solo un brutto sogno, torniamo al mondo di ieri quando gli «eroi» erano le imprese e non gli infermieri, gli operatori sanitari, i facchini, le commesse, i lavoratori e lavoratrici essenziali. Torniamo a lavorare per pochi euro, senza sicurezza, senza futuro, con la paura di finire male, senza nulla in tasca. La paura deve essere il motore psicologico per spingere i lavoratori e le lavoratrici al loro posto, terreno ideale per imprimere la direzione della crisi.

Ma se Renzi si affanna goffamente per conquistare spazio in una dialettica politica che lo ha confinato a un ruolo marginale, le parole di Confindustria riflettono una chiara strategia di risposta alla crisi che si candida a essere centrale nei prossimi mesi.

L’attacco al contratto collettivo

Cominciamo dalle parole del suo neo-presidente, Carlo Bonomi, dirette al governo e ai sindacati, a cui chiede:

quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero giorni di lavoro settimanale e di settimane in questo 2020.    

L’obiettivo principale è chiaro: rimodulare il sistema di relazioni industriali per dare maggiore potere e libertà alla contrattazione aziendale. Vecchia, vecchissima idea, viene da dire. Nella crisi le imprese non devono più avere limiti nel determinare i livelli salariali, la produttività, la stessa organizzazione del lavoro. E allora il vero nemico è quello di sempre: il contratto collettivo nazionale, lo strumento che garantisce da Nord a Sud, da Palermo ad Aosta, pari salari e pari tutele ai lavoratori e alle lavoratrici di un comparto produttivo. Ultimo baluardo di quelle famose «rigidità»      del mercato del lavoro tanto vituperate dagli industriali.

Il contratto collettivo deve essere depotenziato perché le imprese tornino libere di imporre le condizioni di lavoro che meglio rispondono ai profitti attesi. Devono poterlo fare in azienda, perché sanno che nei luoghi di lavoro i rapporti di forza sono più congeniali. In Italia, infatti, i contratti di secondo livello coprono solo il 20% della forza lavoro, la stragrande maggioranza dei lavoratori non ha rappresentanze sindacali. Sono, quindi, costretti a contrattare individualmente la propria condizione di lavoro, esposti al potere dell’impresa nel definire i turni, la gestione dell’occupazione, i processi produttivi.

Un grande revival che torna ogni volta che le crisi mettono a repentaglio i margini di profitto. Nell’ultimo trentennio di storia del paese, l’attacco al contratto collettivo nazionale si è ripetuto regolarmente, non appena la recessione dispiegava i propri effetti. Si è cominciato nel biennio terribile ‘92/93, quando l’accordo sul costo del lavoro (31 luglio 1992) che cancellava la scala mobile fu immediatamente seguito dall’accordo interconfederale che delegava alla contrattazione di secondo livello gli incrementi salariali ancorandoli ai livelli di produttività aziendale. Da lì in avanti la strada ha seguito un sentiero preciso: le crisi si risolvono solo consentendo alle imprese di aggiustare la forza lavoro sulla base delle opportunità offerte dal mercato. I lavoratori impiegati nei settori dinamici vedono crescere i loro salari, con sistemi premiali variabili in relazione alla redditività delle imprese. Agli altri, alla maggioranza della forza lavoro collocata nei settori deboli o in quello pubblico, spetta quello che si meritano: una lunga dieta dimagrante.

In questo percorso, la battaglia ideologica contro il contratto collettivo nazionale ha toccato il vertice con l’introduzione della legge Sacconi, anno 2011. L’articolo 8 di quella norma consente di raggiungere accordi a livello aziendale in deroga al contratto nazionale su temi che attengono all’organizzazione del lavoro. Una legge che suggellava due decenni di attacco trasversale, condotto dai governi di centro-destra e centro-sinistra. E      che torna a      essere il sogno proibito degli industriali, il terreno da cui partire per ridefinire i rapporti di forza tra le parti. Crisi e governo della crisi, lo spartito non cambia. Nonostante gli indicatori economici di questo ciclo che precede la grande crisi del 2008 sia      impietoso.

Dal 1992 al 2008 dei 2,4 milioni di posti di lavoro creati il 75     % sono a contratti a termine. Le diseguaglianze nella distribuzione del reddito si sono allargate, gli squilibri territoriali sono aumentati, i salari reali si sono fermati, la stessa produttività del lavoro è rimasta bloccata. Un disastro economico e sociale di cui i responsabili sono le stesse forze economiche e politiche che chiedono oggi le stesse ricette di ieri. Un discorso analogo vale per la risposta alla crisi del 2008 e del 2011, quando la scelta di Fiat di uscire dal c     ontratto c     ollettivo di Federmeccanica, ridefinendo il sistema di relazioni industriali, è stata accompagnata da un poderoso attacco alle tutele collettive del lavoro, culminate con il Jobs Act. Anche il questo caso i risultati per il paese sono drammatici: crescita del lavoro temporaneo, in particolare part-time, calo del numero di ore lavorate, bassa produttività e un ritmo di crescita dell’economia tra i più bassi nell’area euro     .

Assistenzialismo? Solo per le imprese

Le risorse pubbliche devono essere selettive. Ecco un altro punto fondamentale dell’attacco degli industriali. Qui Bonomi non usa giri di parole per puntualizzare quali devono essere le priorità nell’utilizzo delle risorse nella crisi. La critica al governo è di aver previsto troppi finanziamenti per rispondere alla povertà e alla disoccupazione. Dice Bonomi in una recente intervista al Corriere della Sera:

Abbiamo reddito di emergenza, reddito di cittadinanza, cassa ordinaria, straordinaria, in deroga, Naspi, Discoll… Potrei continuare. La risposta del governo alla crisi si esaurisce in una distribuzione di danaro a pioggia.     .

Niente di nuovo, lo stato sociale è un costoso orpello di cui disfarsi presto, un ostacolo che spinge i poveri a cullarsi nel divano di casa, riducendo gli incentivi alla ricerca del lavoro. Anche in questo caso si tratta di una costante nello schema di risposta alla crisi: abbattere tutte le rigidità che regolano l’offerta di lavoro. Le imprese devono poter contare su una forza lavoro malleabile, disponibile a qualsiasi condizione di impiego, pronta ad accettare salari più bassi e un uso intensivo delle ore lavorate senza inutili intralci. Solo così il paese può ripartire. Se da un lato lo stato dovrebbe razionalizzare le risorse stanziate per la disoccupazione, dall’altro il concetto di selettività indica chiaramente che il destinatario principale dei trasferimenti pubblici è l’impresa.

Chiediamo che si sblocchino tutte le opere pubbliche già finanziate. Inoltre, sia gli incentivi di industria 4.0 e sia i pagamenti dei debiti che lo Stato deve alle imprese devono trasferirsi in liquidità immediata, cioè con una detrazione sulle imposte che si pagano quest’anno.

In poche righe Bonomi indica la strada. Lo stato serve per distribuire risorse a pioggia al sistema delle imprese, unico vero motore del paese. Una concezione curiosa dello stato, uno stato minimo quando deve occuparsi di dare strumenti di sostegno ai disoccupati, interventista quando le risorse devono essere dispiegate per il sistema delle imprese. Insomma, per i lavoratori e la lavoratrice bisogna applicare la logica di mercato, favorire la loro competizione per accettare lavori a bassi salari, disincentivando comportamenti opportunistici, mentre per le imprese vige la logica dell’assistenza, della liquidità a fondo perduto. Poche parole che spiegano la matrice politica dello schema di Confindustria. Dietro ogni apparenza tecnocratica si nasconde un punto di vista di parte. Le imprese sono il motore del paese, il loro interesse particolare è l’interesse generale. Il resto si accomodi, trovi il modo di adattarsi.

Lo stato faccia il regolatore, stimoli gli investimenti. Per esempio questo sarebbe il momento per rilanciare con più risorse il piano Industria 4.0 visto che a questa crisi sopravviverà chi investirà. Ma si fermi lì. Non abbiamo bisogno di uno stato imprenditore, ne conosciamo fin troppo bene i difetti. 

Lo stato intervenga rapidamente per dare sostegno alle imprese e scompaia altrettanto rapidamente non appena il sistema delle imprese sarà in grado di riprendere il comando del paese. A nessuno passi per la mente, quindi, che si possa immaginare un intervento strutturale e permanente dello stato nell’economia. Nessuno creda che si possa sostenere in maniera duratura la classe lavoratrice, che si possano immaginare interventi che sostengano la spesa pubblica, che potenzino la dimensione universalistica del welfare state, che si facciano carico di riqualificare l’offerta con un nuovo protagonismo dell’impresa pubblica. No, lo stato è funzionale a una logica strumentale, deve rispondere alle esigenze di breve-medio periodo delle imprese, ma non deve intralciare il potere privato nel determinare i livelli di produzione, le variabili distributive (salari e profitti), la stessa dinamica del consumo.

La posta in gioco

Inutile girarci attorno, Carlo Bonomi è già dentro la fase 2. Segue le regole della politica al tempo della crisi: prendere iniziativa, anticipare le mosse dell’avversario, imprimere un terreno di gioco a cui le controparti dovranno attenersi. Un passaggio che non può essere banalizzato. Questi lunghi mesi di quarantena hanno scosso il paese, mostrando le ferite di un modello di società che ha delegato al mercato le funzioni essenziali. La sanità pubblica è tornata a essere un bene prezioso per tutti. Mentre l’affollamento dei reparti di terapia intensiva ha mostrato il fallimento di politiche di tagli dissennati alla spesa pubblica, facendo crescere un moto di indignazione nel paese. La vulnerabilità del modello manageriale e privatistico nella gestione della salute pubblica ha alimentato un sentimento di vicinanza agli infermieri, ai medici, agli operatori sanitari che nelle trincee del virus mettono a repentaglio la loro vita. Ma sbaglia chi crede che quei sentimenti che vivono nella pancia del paese possano restare in eterno impresse nella memoria collettiva. Quando la preoccupazione per la salute pubblica scemerà per far posto alle incertezze economiche, alla paura di perdere tutto, allora un’altra partita si aprirà. La storia, purtroppo, non è maestra di vita. Storia e memoria tendono a confondersi nel vortice degli eventi del presente.

Parafrasando Koselleck in Futuro Passato: «Ogni esempio passato, anche quando viene insegnato, arriva troppo tardi». La storia è modellata da conflitti e cesure, non fornisce modelli educativi, non svolge una funzione pedagogica, non redime i peccati, è un terreno vivo in continuo divenire. La storia si fa oggi, mentre il passato si perde in una memoria che si fa via via più sfumata. La storia è segnata dalle crisi, dall’iniziativa per dirigere le crisi, per piegare la contingenza da una parte o dall’altra. Inutile e dannoso perdersi in sermoni moraleggianti sulla scarsa responsabilità degli industriali. Un appello etico che funzionava allo scoppio del virus  ma che perde di efficacia, di forza persuasiva quando altre preoccupazioni cominciano a divorare le notti del paese. Con questa paura occorre fare i conti. E allora serve capire come alimentare le emozioni che hanno scosso il paese, come trasferire il sentimento di difesa della sanità pubblica, del primato della sicurezza sociale ai singoli appetiti di profitto, in una proposta politica, in un disegno di uscita dalla crisi. Il tempo è tutto, per non perdere l’occasione di cambiare questo paese. Iniziativa di parte contro iniziativa di parte nella crisi, nel governo della crisi. Iniziativa da assumere da tutto intero l’arco delle forze sindacali e politiche che hanno ancora interesse a rimettere al centro il rapporto di forza tra alto e basso, tra sfruttati e sfruttatori.

Si può solo abbozzare un sentiero di proposte con le inevitabili omissioni. Si potrebbe cominciare a dire che è arrivato il momento di un piano di      lavoro pubblico, che assuma almeno un milione di persone per garantire l’efficienza del sistema sanitario, per fornire alla scuola e alla ricerca gli strumenti e il personale necessario a rimettere in sesto il paese; per riqualificare il sistema produttivo nazionale. Si può ancora battersi per un salario minimo orario che garantisca i lavoratori contro il ricatto del lavoro povero, tornando a garantire la stabilità del posto di lavoro e l’accesso universale al welfare. Il tempo è oggi.

Simone Fana

si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur) e con Marta Fana diBasta Salari da Fame (Laterza). Scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali.

5/5/2020 https://jacobinitalia.it/

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