La frontiera a nord ovest della televisione
Il professore di media digitali Jay David Bolter (noto per un testo – Remediation, 1998, scritto con Richard Grusin) ha definito con il neologismo plenitudine digitale il contesto in cui si trovano i media nel transito tecnologico in atto. In simile affresco, svaniscono antiche definizioni e si affievoliscono consolidate certezze, fino alla messa in discussione delle gerarchie tradizionali: cultura alta, cultura bassa, cultura di massa. In tutto questo non si attutiscono, bensì aumentano le differenze di classe. Ci torneremo più avanti.
Dalla comunicazione di massa alla persuasione personalizzata
Il passaggio dall’età analogica a quella digitale non è stata solo e tanto un’avventura tecnica, un passaggio tra la rappresentazione della realtà in “analogia” e la sua scomposizione e ricomposizione numerica.
In verità, si è trattato di un capitolo di uno scenario di mutamento complessivo. Un frammento di una cesura nei modelli produttivi e negli stili del consumo.
Infatti, l’universo digitale è via via dominato dalla logica della rete, e il cambiamento va molto al di là del cambio degli apparecchi di ricezione. In corso vi è una riclassificazione del nesso tra la fonte emittente e la platea ricevente. Dalla modalità cosiddetta “generalista”, nella quale l’intera platea è colpita dai messaggi contemporaneamente, si è passati alla personalizzazione della fruizione.
Il fenomeno va di pari passo con le trasformazioni sociali intervenute nell’ultimo trentennio, dal fordismo al capitalismo delle piattaforme, con le numerose tappe intermedie. In sintesi: dalla comunicazione di massa dell’industria culturale alle forme personalizzate di persuasione.
La televisione dell’attuale standard DVB-T2 (Digital Video Broadcasting –Second Generation Terrestrial), che supera il precedente DVB-T entrato in scena nel 2012, è già un oggetto crossmediale. Un navigatore dell’infosfera. Dietro lo schermo, si cela uno snodo di attracco alla rete, un grande computer segnato dal fenomeno descritto da Silverstone, Hirsch e Morley (1992) della domestication. Si tratta di normalizzare l’impiego della tecnologia, inserendola nella banalità della vita quotidiana.
Insomma, la fase che stiamo vivendo ha a che vedere solo parzialmente con la televisione che abbiamo conosciuto. Ciò che negli anni Novanta del secolo scorso si chiamava “multimedialità” (termine apparso in una legge solo nel 1997 con la L.249) si invera in termini e modalità ben superiori alle previsioni. Persino spiazzanti.
Rispetto, infatti, alle precedenti mediamorfosi in cui un medium si sostituiva a quello precedente rimodellandolo, in questo caso è la tv a trasfigurarsi secondo le logiche degli algoritmi. Del resto, la rete è un vero e proprio sistema di relazioni sociali, non un mezzo di comunicazione in senso stretto. Quindi, ciò cui assistiamo è una sorta di “rottura epistemologica”, per rubare un criterio interpretativo alla filosofia.
Quando la parola digitale entrò nel lessico pubblico, non sembrava così. Una delle conseguenze collaterali del “berlusconismo” dell’etere (mai colpevolmente regolamentato con serietà) è stata la confusione semantica, facendo immaginare che il termine in questione fosse un aggettivo riferito alla parola “televisione” e non un sostantivo chiave per decifrare il nuovo labirinto. Per di più, il patron di Arcore e i suoi collaboratori immaginavano che in quel modo si allargasse la base di calcolo per definire i limiti antitrust (il 25% sull’intero paniere delle reti). Tuttavia, il cosiddetto switch off previsto per il 2006 dalla legge n.66 del 2001 si completò solo alla fine del 2012. Tra l’altro, mentre per esempio negli Stati Uniti il passaggio avvenne in una notte del 2009, in Italia il tutto si realizzò con fatica e con un bizzarro spezzatino regionale.
A rendere stringente la trasformazione, è stata la decisione (non unicamente italiana) di cedere la prelibata banda 700 MHz (adibita alla radiodiffusione) a partire dalla fine del prossimo giugno alla telefonia cellulare, in particolare per la generazione 5G. Su una simile ricaduta c’è molto da eccepire, essendo foriera di potenziali effetti sulla salute.
Ma, per tornare al punto, ecco che in tal modo si è accelerata la compressione dei segnali resa possibile dal DVB-T2, ora in fase di commercializzazione con “biblica” trasmigrazione degli apparecchi e dei decoder.
I nuovi oggetti del desiderio sono, per l’appunto, smart tv, vocati a navigare in Internet e, soprattutto, a girovagare per le offerte delle piattaforme, rese talmente appetibili da avere “dignità autonoma” nel telecomando. La tv on demand significa superamento della gabbia oraria del palinsesto e segmentazione dell’audience. Sky, Netflix, Disney+, Amazon, la cinese iQIYI con le loro offerte pingui e variegate sono, dunque, insieme il frutto e l’eutanasia della stagione digitale. Quest’ultima letta riduttivamente, nell’accezione consueta e riduttiva.
Così come nelle tecniche la fase numerica è progressivamente soppiantata dall’informatica quantica, così nell’economia politica del sistema il modello della tv generalista, pur nel suo apice digitale, è battuta in corsa dalle offerte nate nella e con la rete.
Che sia attraverso Wifi o mediante la banda larga o ultralarga, quella parte di cinema chiamata televisione (Godard dixit) è surclassata da quella parte di rete riflessa negli schermi: grandi, grandissimi, ad alta e altissima definizione. Non per caso il cinema in sala è amaramente alle corde.
A rendere più celere il salto della frontiera è stato il Covid-19. Il 2020 ha registrato una fortissima crescita nel consumo di video rispetto all’anno precedente, per arrivare nel 2021 ad osservare un +52% nelle fruizioni non tradizionali. Nel mosaico la storica regina, al netto dei nuovi device, perde il 10% rispetto al 2017. Mentre il traffico dei dati è nel frattempo aumentato del 75%.
In sintesi, la quota non lineare (per esempio, Sky on demand, video sul Web, piattaforme streaming e broadcaster come RaiPlay) sta appaiando quella lineare (l’elettrodomestico casalingo conosciuto) nell’universo degli usi e riusi.
C’è chi si spinge a dichiarare concluso il lungo ciclo della modernità, approssimandosi un’era dove il corpo a corpo tra umano e non umano diventa dirimente. Chissà: predire il futuro non è agevole, se osserviamo la parabola discendente, per dirne una, di Netflix o le difficoltà di Comcast-Sky. Nessuno è profeta in patria, neppure nelle sfere che toccano la mente e i corpi con strumenti altamente sofisticati. Si sente, come a Waterloo, il fiato dell’offensiva imprevista – sotto la cappa degli Over The Top – dei social, degli influencer, delle App suggestive che ci pervadono e che ci avvolgono insieme ai diffusi riconoscimenti facciali imposti dal capitalismo della sorveglianza.
Divario culturale e divario digitale
Al di là, però, della riflessione sui cicli storici vi sono due punti di contraddizione da esaminare.
Uno riguarda il messaggio, che surdetermina ormai il mezzo, non il contrario. McLuhan pare davvero morto. Nell’abbondanza dei canali diffusivi risalta una certa fatica nella produzione di offerte adeguate. Non si tratta di mera quantità insufficiente, quanto di asimmetria tra paradigmi produttivi e domanda cresciuta proprio in virtù delle nuove attese indotte.
Si tenta di rispondere alla temuta penuria attraverso la robotizzazione e la scommessa di algoritmi utilizzati in maniera massiva per tracciare calchi e fili di film, serie, narrazioni audiovisive. Ma, se c’è un campo di azione dove l’intelligenza artificiale trova asperità non facilmente aggirabili, è proprio la sfera della creatività. La serialità ha bisogno di un prototipo, che a sua volta richiede sensibilità e psicologie umane non riproducibili. La reiterazione dei contenuti con differenze programmate non riesce a sfondare in desideri contaminati da infinite sollecitazioni e da livelli professionali innalzatisi nel tempo.
Inoltre, ed è la contraddizione tendenzialmente fondamentale, si acuisce il divario tra due società dell’informazione, divise per censo e basi cognitive di partenza.
Il divario digitale unito al divario culturale costituisce una miscela drammatica, retaggio del peggiore neoliberismo. Anche nella comunicazione la piramide è clamorosa. La base inferiore si amplia per i costi delle offerte a pagamento e per la crisi della stampa quotidiana che costituiva per lo meno una linea difensiva. Sullo sfondo si staglia l’insufficienza dei cicli formativi dell’istruzione.
Quasi il 30% delle persone non ha una connessione, e oltre la metà non ne ha una sufficientemente evoluta per poter accogliere i livelli sofisticati dell’offerta. Le difficoltà dell’educazione a distanza o dello stesso smart working (a parte le considerazioni politiche di fondo) sono una testimonianza vivente della faglia che si amplia: tra chi sa e chi non sa, tra chi ha e chi non ha.
Il passaggio a nord ovest non è una gradevole commedia, e neppure il falso regno dei cieli addobbato dai protagonisti del sistema. Gruppi crossmediali, Big Tech (da Google a Facebook a Twitter a Microsoft ad Amazon) dominano il Capitale materiale e immaginario, la borsa e le borse.
Quindi, la televisione, che fu pedagogica, poi commerciale, ora è un ircocervo, anomalo e imprevisto.
Già. E il pubblico inteso come bene comune? I dati, il cervello e i sentimenti appartengono a ognuno di noi. Qui la proprietà privata davvero non basta, oltre a risultare particolarmente iniqua.
Si rende urgentissima una riflessione non astratta, bensì concreta sul che fare.
La rete di trasmissione va restituita allo Stato, affidandone la conduzione ad una gestione autorevole e indipendente. La vicenda dell’ex monopolista Tim-Telecom si può dipanare su tale linea.
Ugualmente, la Rai è costretta ad avviare un tragitto inedito, cimentandosi come “servizio pubblico generale”, capace di interagire (dalla parte di chi non ha possibilità di spesa e vive nella marginalità mediale) con gli oligarchi della rete.
Ogni crisi, ogni transizione ha una doppia valenza: un disastro o un’opportunità.
L’inganno digitale, in un certo senso, si potrebbe rivelare un errore provvidenziale. Se si ha il coraggio di ripensare davvero i paradigmi televisivi, resi abnormi dall’egemonia commerciale di rito berlusconiano.
Televisione significa, etimologicamente, vedere lontano. Si è ridotta, nel logoramento dell’ultimo trentennio, a un mercato pagano e a un quotidiano elettroregime. Torniamo a guardare lontano.
Vincenzo Vita è giornalista, collabora con il manifesto e con Critica Marxista. È stato parlamentare e sottosegretario del Ministero delle comunicazioni. Attualmente presiede l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, nonché l’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!