La generazione dei sogni rubati
“Siamo nati con le vostre guerre. Abbiamo vissuto la nostra infanzia con il vostro terrorismo, la nostra adolescenza con il vostro settarismo, la nostra giovinezza con la vostra corruzione. Siamo la generazione dei sogni rubati”. Si leggeva anche questo nei cartelli che il movimento giovanile iracheno ha portato nelle piazze del paese, in quella che è già stata ribattezza la “rivolta di ottobre”: una sollevazione pacifica, che vede da sessanta giorni migliaia di persone occupare le strade di tutto l’Iraq con azioni nonviolente, pratiche di disobbedienza civile, scioperi a catena dei principali sindacati, blocchi stradali, occupazioni.
Piazza Tahrir, nel centro di Baghdad, di questa rivoluzione è diventata il cuore, tra sit-in permanenti e tende in cui il movimento continua ad organizzare momenti di dibattito e confronto, laboratori per bambini, biblioteche e cinema, proiezioni e cucine collettive per dare un pasto a chi manifesta. Ma soprattutto per prestare soccorso alle migliaia di persone ferite, attraverso squadre di volontari/e: spesso studenti di medicina, che soccorrono le vittime dei gas lacrimogeni e dei proiettili sparati contro la popolazione disarmata dal primo giorno. Sono oltre 12.000 le persone ferite dall’inizio del mese, più di 360 le vittime, trenta gli attivisti e le attiviste dispersi: la repressione delle autorità irachene è stata durissima, ma non ha fermato il desiderio di riscatto di una generazione nata e cresciuta tra guerre e terrorismo, che oggi tenta di mettere in discussione l’intero sistema politico, economico e sociale del paese. Una generazione che non ha conosciuto altro se non corruzione, disoccupazione, negazione del futuro. Che si è vista rubare i sogni ma che, nonostante tutto, non li ha perduti. Nonostante le guerre ininterrotte che attraversano il paese, e che dall’occupazione statunitense del 2003 arrivano fino agli anni di Daesh e alla battaglia per sconfiggerlo. Nonostante in Iraq il 60 per cento della popolazione abbia meno di ventiquattro anni, ma la disoccupazione superi il 20 per cento. Nonostante il paese sieda sui pozzi di petrolio, ma affronti sistemiche carenze di acqua ed energia elettrica, laddove i proventi dell’industria non vengono redistribuiti, ma finiscono per nutrire il sistema di corruzione e i mercati internazionali. Secondo le stime, il settore petrolifero iracheno produce il 65 per cento del prodotto interno lordo, ma impiega solo l’1 per cento di una popolazione che, in media, vive con sei dollari al giorno, e non ha accesso a servizi e diritti.
È così che la protesta prende avvio, il 1 ottobre scorso, lanciata sui social network proprio da quella generazione laureata ma disoccupata, che già da tempo presidiava piazza Tahrir, luogo storico delle proteste di Baghdad. La mobilitazione, in poche ore, cresce e si estende al sud del paese, tocca le aree a maggioranza sciita, prende di mira tutto lo spettro politico e religioso iracheno: anche l’ultimo governo, guidato dal Primo ministro Adil Abdul Mahdi ed entrato in carica dopo la precedente ondata di proteste del 2017, dal quale la popolazione si aspettava un cambiamento mai realizzato. Le forze di polizia, da subito, aprono il fuoco: cade il primo manifestante, il movimento denuncia la repressione e la sparizione di numerosi/e attivisti/e. Nel giro di sessanta giorni le vittime saranno destinate a moltiplicarsi. Eppure, il movimento non cede: resta di massa, pacifico, porta nelle piazze pratiche di disobbedienza civile, blocca le strade, occupa i porti nei quali sbarcano munizioni e gas lacrimogeni. Lancia scioperi a catena, cui aderiscono i principali sindacati: tra le strade di Diwaniyah, Nassiryah e Basra gli/le studenti vanno a manifestare insieme ai loro insegnanti. Il movimento si riappropria così di uno spazio pubblico sempre negato, estende la base del consenso popolare, occupa decine di edifici, tra cui il “Turksish Restaurant” di Baghdad. Un grande complesso costruito di fronte al monumento alla libertà che dà il nome alla piazza, abbandonato dopo un bombardamento nel 2003. Simbolo del fallimento dell’invasione statunitense lanciata quell’anno, e di tutte le politiche poste in essere in quelli a venire, oggi assume un nuovo volto di resistenza e di speranza. Come il ponte Al-Jumhuriyah, anch’esso ripetutamente occupato, che conduce a quella Green Zone sede del potere politico e delle ambasciate straniere, che i/le manifestanti tentano a più riprese di violare (leggi anche Stanno dando forma ad un “paese vero”, ndr).
È la rivolta delle strade e dei simboli, quella irachena. Una protesta inscritta sui muri di Baghdad, di cui decine di street-artist si sono impossessati/e realizzando graffiti che incoraggiano una mobilitazione permanente, ricordano i volti delle vittime, mettono l’accento sulla partecipazione femminile, e ritraggono quello che è diventato ormai l’emblema stesso di questa rivoluzione ignorata: il tuk tuk. Piccolo mezzo a tre ruote, considerato nel paese il “taxi dei poveri”, fino al 1 ottobre era sinonimo di povertà ed emarginazione sociale. Usato nei quartieri popolari con costi ben lontani da quelli dei “taxi veri”, oggi è lui il vero eroe di questa rivoluzione che ha il sapore del riscatto e della dignità. Tra le foto e i video che affollano la rete i tuk tuk si vedono sfrecciare tra le strade irachene, avvolti dal fumo dei lacrimogeni, per portare in salvo persone ferite, fare la spola tra le piazze e gli ospedali, o per permettere ai/lle manifestanti di spostarsi. A loro è dedicato il murales divenuto simbolo della sollevazione: raffigura un tuk tuk che vola, dispiegando in cielo le sue ali, avvolto dalla bandiera nazionale. Ed è con il suo nome che è stato battezzato anche il giornale auto-prodotto nelle piazze, che ogni settimana fornisce aggiornamenti sulle mobilitazioni e analisi sulla situazione politica del paese. “È questa generazione che costruirà un altro Iraq possibile”, c’era scritto sull’ultimo numero: una generazione che sfida senza paura rischi enormi, resistendo nelle piazze, lanciando la sua sfida a un sistema politico che non ha saputo rispondere ai desideri, alle aspirazioni e ai diritti di una popolazione stanca di guerra. Una mobilitazione che – come scrivono gli/le attivisti/e sui cartelli – “è ormai il terzo fiume iracheno, dopo il Tigri e l’Eufrate”. E che ha bisogno di tutto il nostro sostegno.
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Pubblicato sul semestrale di Unponteper (dicembre 2019) Di sogni e di rivolta, qui scaricabile gratuitamente.
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Liberate Omar e Salman (Un ponteper)
“Omar Kadhem Al-Amri e Salman Kairallah Al-Mansoori, due attivisti iracheni per la pace e i diritti umani, sono spariti da l’11 dicembre risultano ancora irreperibili. Secondo fonti non ufficiali, sarebbero stati fermati dalla polizia irachena per il loro sostegno alle manifestazioni di Piazza Tahrir, ma non ci sono al momento conferme certe. Anche il Relatore Speciale Onu sui Difensori dei Diritti umani, Michel Forst, ha espresso preoccupazione e chiesto che venga fatta luce sul caso. Noi chiediamo che Omar e Salman siano immediatamente rilasciati da chiunque li detenga, e che siano riconsegnati sani e salvi alle loro famiglie e al loro impegno civile”.
Cecilia Dalla Negra
14/12/2019 comune-info.net
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