La geografia sociale e politica del virus

La primavera del 2020 è scandita da appelli alla ripresa dell’economia secondo un sistema economico e sociale globale che continua a concentrare al centro, ovvero al Nord, i mezzi di produzione e la tecnologia, riproducendo una dipendenza dei paesi del Sud globale. Si parla di recuperare, ripartire, riprendere, senza mettere in questione le basi strutturali del sistema dominante, a cominciare dal diritto al cibo e alle cure. La pandemia che stiamo vivendo impone invece di costruire una giustizia «socio-spaziale» e lottare per un’alternativa possibile basata sull’ecologia sociale, possibilmente femminista, e sulla sovranità alimentare e ambientale, nel vocabolario suggerito da Habib Ayeb, geografo e regista di film documentari tunisino. Habib Ayeb vive tra la Tunisia, dove ha fondato e dirige l’Osservatorio sulla sovranità alimentare e sull’ambiente, e la Francia, dove ha insegnato all’Università Paris 8. Ha recentemente pubblicato un importante volume, col collega dell’Università di Leeds, Ray Bush, su questione agraria e rivoluzione in Nord Africa: Food Insecurity and Revolution in the Middle East and North Africa: Agrarian Questions in Egypt and Tunisia (Anthem Press, 2019)     

Non possiamo che iniziare la nostra conversazione dalla crisi attuale: esistono delle cause strutturali che hanno portato alla pandemia legata al Covid-19? In quali fattori possiamo identificare eventuali acceleratori?

C’è un primo livello d’analisi che è globale e riguarda il modello dominante di società e consumo e la relazione tra sistemi di produzione. Cioè, l’economia è organizzata in modo che quando si diffonde un virus in Cina, lo ritroviamo pochi giorni o ore dopo in Cile o altrove. Ciò succede perché è stato globalizzato il sistema economico, e soprattutto la finanza, ma sono stati globalizzati anche i virus e i rischi connessi. A un livello più specifico, sappiamo che i virus corona nascono dal sistema di produzione agricolo (aldilà delle ipotesi sulla creazione o manipolazione in laboratorio). Le cartografie mostrano come la diffusione dei virus coincida con le mappe degli allevamenti altamente intensivi. È stata totalmente modificata la nostra relazione con la natura attraverso l’allevamento intensivo, a causa della convinzione che sia la natura ad appartenerci e non il contrario. La carne, le proteine animali, sono state portate al centro del nostro regime alimentare, di ciò che mangiamo, e da decenni aumenta la concorrenza nella produzione agricola e alimentare a livello mondiale. Inoltre, scelte geopolitiche hanno generato un sistema in cui si produce ciò di cui noi cittadini-consumatori abbiamo bisogno, ma senza darci possibilità di scelta rispetto a chi gestisce mercato e finanza. Se un consumatore chiede delle fragole a dicembre, il mercato le produce e vende, idem per il grano che si vende a una condizione politica basata sul vecchio sistema liberale dei vantaggi comparativi. Ciò che mangio quotidianamente non dipende più dalle mie scelte personali ma da delle scelte imposte dal mercato. Così ci ritroviamo imprigionati in un sistema che non abbiamo scelto, di cui quasi non beneficiamo ma ne subiamo le conseguenze. Chi gestisce il mercato mondiale ha pensato di beneficiare di un sistema di autoprotezione automatico e che problemi come una guerra nucleare o una carestia tocchino solo i paesi del Sud. Però con la pandemia si complica la situazione, perché col Covid-19 non funziona più la regola del «proteggo i nostri e attacco gli altri»; può toccare tutti ed è drammatico. Un aspetto eventualmente positivo è che di fronte ai rischi che stiamo affrontando, non si pensa solo alle popolazioni da sacrificare, ma anche al cuore del sistema alimentare mondiale. 

Ciò ha a che fare col tuo lavoro scientifico: esiste una geografia sociale e politica del virus e delle sue conseguenze? Nell’articolo Les routes du capital si osserva come il virus si sia diffuso dalla Cina e verso altri mercati proprio per le vie del capitale. Come incrociare e integrare entro una stessa cornice gli sguardi della geografia, delle scienze sociali e politiche con tale circolazione di economie e consumi?

Si può fare a ogni livello. Se il virus può arrivare ovunque, non tocca però tutte e tutti allo stesso modo ma si lega al diverso grado di vulnerabilità. Di fronte a un simile virus per sfuggire al rischio di malattia o morte è preferibile essere bianchi, abitare nel Nord globale, in un posto confortevole, poter mangiare correttamente, potersi curare. Sociologicamente appartengo a una classe sociale e a uno spazio che permettono di essere assistiti, qui in Francia.

Il tuo diritto è riconosciuto. E se ti trovassi in Tunisia?

Decisamente no. In Tunisia prima della crisi c’erano meno di un centinaio di letti attrezzati per la rianimazione. Lo scarto è enorme con i paesi del Nord. Mancano letti, medicinali, dispositivi di protezione individuale. C’è un’evidente geografia sociale del virus: non tutti hanno le stesse opportunità di isolarsi e di essere protetti, dunque si rischia di morire più facilmente in un paese del Sud. 

Inizialmente ha circolato la retorica del virus «democratico», che può colpire chiunque, nero, bianco, di qualsiasi classe sociale. Ma è evidente che le «vie del capitale» producono delle ineguaglianze enormi nel diritto e nell’accesso alle cure e dunque alla possibilità di guarigione. I tagli ingenti alla sanità pubblica mostrano le grandi contraddizioni di un sistema globale. 

Se ci si ammala quando si è un ricco imprenditore o un sans papier, un lavoratore in nero, una persona richiedente asilo o una madre sola, fa la differenza. Su scala sociale, materiale, geografica. 

Puoi descrivere l’Osservatorio sulla sovranità alimentare e ambientale (Osae) che hai fondato e dirigi a Tunisi, e come divulgate informazione e ricerca? Perché c’è stato il bisogno di questo tipo di osservatorio? 

Le motivazioni sono varie. Siamo partiti dal dire: attenzione, potremmo trovarci in situazioni in cui non potremo più acquistare ciò che normalmente compriamo per mangiare. Oggi la Tunisia piace a tanti perché abbiamo fatto una rivoluzione democratica e perché i nostri amici europei hanno troppi interessi nel paese, ma le situazioni possono cambiare, non solo politicamente. Pur non pensando a una pandemia, pensavo comunque a dei virus, a possibili condizioni catastrofiche come il non avere abbastanza da mangiare. Ce lo ha già mostrato la crisi alimentare mondiale del 2007-8. Sfortunatamente la pandemia è arrivata a darci ragione e farci paura. Ci si è trovati nell’obbligo di continuare a vivere – mangiare, lavarsi, incontrarsi, avere l’elettricità e così via – e proteggersi dalla malattia, ma senza niente. A parte la buona volontà di qualche dottore o benefattore, noi non padroneggiamo la situazione, non siamo in grado di produrre mascherine o mangiare correttamente per recuperare dopo una malattia, perché non ne abbiamo i mezzi necessari. Ma bisognerà pur produrre cibo, sapone per lavarsi le mani, condurre l’acqua ai rubinetti, pulire, progettare macchinari. Questo è il vero problema della dipendenza. La concentrazione del sapere tecnologico e dei mezzi di produzione della tecnologia nel Nord del mondo, priva tutti gli altri di ogni possibilità di protezione. Siamo globalizzati per una decisione che viene dall’esterno, dal e per il centro, e in caso di crisi la periferia viene lasciata a sé stessa. Sappiamo cosa succede con le guerre, i terremoti, le calamità nei paesi del Sud: si contano i morti, qualche ministero invierà un aereo con degli aiuti, ma ciò non rende capaci di affrontare una crisi. Eppure si può fare diversamente, sebbene il centro non abbia interesse a che questo virus sia «democratico», come si diceva prima.

Le conoscenze che mettete in campo sono rivolte ad accompagnare delle lotte sociali? 

L’obiettivo è quello di riorientare le politiche agricole e alimentari, non con la chiusura delle frontiere o nel senso dell’autosufficienza, ma lottando per la libertà di scegliere ciò che produco e consumo, compro e vendo. Perché essere sanzionati se non vogliamo o non possiamo produrre fragole ad esempio? Sosteniamo la libertà di scegliere i propri partner e negoziare su un piano egualitario, e non ubbidire all’organizzazione mondiale del commercio. Bisogna «decommercializzare i prodotti alimentari» sulla base di principi relativamente semplici come impedire gli investimenti in agricoltura, che non deve servire a fare profitti. Noi sosteniamo la «santuarizzazione» dell’agricoltura, ma solo lo Stato può farlo e sulla base del lavoro dei contadini, ai quali va restituito il proprio ruolo; è una questione sociale. Solo così possiamo avere garanzie su ciò che mangiamo. I contadini ragionano in termini di protezione delle risorse, come l’acqua, perché ne hanno bisogno; hanno delle competenze e dei saper fare, senso di solidarietà e di giustizia che mancano invece ai grandi esperti e investitori. Al contempo sosteniamo il nostro diritto di scelta come consumatori, garantito dalla prossimità col produttore/contadino. Chiediamo un’agricoltura contadina estensiva indipendente dai trattati del commercio mondiale. Ci sono grandi resistenze, ma bisogna assolutamente cominciare oggi per arrivarci un giorno. Fortunatamente oggi si parla di sovranità alimentare, espressione che credo di aver pronunciato per primo in Tunisia. Penso stia nascendo una coscienza critica rispetto al tema, che purtroppo passa anche per dei momenti molto difficili. Noi proponiamo un nuovo progetto, il Green New Deal tunisino che dà indicazioni di metodo e azioni concrete. Proponiamo la proibizione dell’utilizzo di prodotti chimici in agricoltura, e l’uscita dal sistema intensivo. Col Covid-19 è stato integrato un nuovo capitolo, cioè far sapere come arrivano i virus – e ci sarà un Covid-20 dopo il 19 – e come ciò che proponiamo può proteggere dai virus. In un sistema senza agricoltura e allevamenti intensivi, senza trasporti di lungo raggio, le cose cambierebbero obbligatoriamente.  

La questione agraria è dunque centrale nello sviluppo economico del nostro futuro. Come avete affrontato la questione, col collega Ray Bush, nel vostro Food Insecurity and Revolution in the Middle East and North Africa: Agrarian Questions in Egypt and Tunisia? Come legare rivoluzione e sicurezza alimentare?

È complicato rispondere. Ci sono aspetti della dominazione ai quali non pensiamo spesso, perché sono subdoli: noi non abbiamo il diritto di scrivere la nostra storia. Ci scrivono la nostra storia e poi ce la insegnano a scuola. Le élites intellettuali si formano al Centro. Io stesso, per quanto non lo rivendichi, faccio parte di un’élite tunisina. Il problema di tale élite è che guarda a ciò che succede in Tunisia con delle lenti parigine. In generale importiamo delle lenti intellettuali e dei riferimenti teorici: nel migliore dei casi ricorriamo all’aiuto di Marx o Gramsci, ma siamo stati spossessati della capacità di capire cosa succede nel nostro paese. Ciò significa appunto una lettura prevalentemente parigina, oltre all’incapacità delle classi dirigenti di capire cosa succede nel paese. Dopo la caduta di Ben Ali molte case editrici europee ci hanno chiesto di pubblicare dei libri in merito, ma nessuna locale. E per dire cosa? Che era una rivoluzione per la democrazia e coprire le nostre spiegazioni di una rivoluzione fondamentalmente sociale. Bouazizi è diventato un militante per la democrazia, cancellando tutto quel che è successo prima del dicembre 2010. Le manifestazioni in strada del gennaio 2011 sono state prese come tipo d’analisi, con giovani occidentalizzati, bianchi, che rivendicano diritti democratici. Molti partecipanti e vittime delle rivolte, soprattutto nel mondo rurale, sono rimasti invisibili allo sguardo comune. Per me e R. Bush si tratta di una rivoluzione delle persone svantaggiate rispetto a quelle privilegiate, in Tunisia come in Egitto e altrove. E non si tratta solo della lotta di una classe sociale ma di una classe socio-spaziale, un concetto fondamentale. Ci sono in media ben oltre 200 suicidi all’anno, dagli anni Cinquanta, ma nessuno aveva provocato una rivoluzione. La fiamma è stata accesa dalle ingiustizie subite da persone che non venivano viste e considerate e che hanno fatto la rivoluzione. Giornalisti, osservatori e ricercatori sono corsi a Cartagine e nei quartieri bene di Tunisi per sapere cosa succedeva. Gli slogan gridati a Kasserine, Sidi Bousid, Gafsa ecc., fuori dalle grandi città, reclamavano pane, abitazioni, ospedali, domandavano giustizia sociale, e spaziale dunque. Purtroppo un grande investitore agricolo conta più che un milione di contadini. Il nostro libro ha una pretesa accademica, ma siamo anche persone impegnate e credo dovrebbe essere un obbligo intellettuale rivendicare il proprio impegno organico. Dato che tutte queste situazioni nascono da una dipendenza e da un dominio economico, noi aderiamo alla tesi di Amin: occorre stabilire una relazione di rottura col Nord, non un’opposizione frontale, per cambiare percezione e conoscenza della realtà quotidiana, del contesto locale specifico dal quale prendere decisioni che non dipendano dal sistema mondiale. 

In effetti vediamo sempre più gruppi di attivisti e resistenti che riscoprono la storia e le lotte locali, specie tra le popolazioni contadine, espropriate delle proprie terre da generazioni. 

Io credo che la comprensione delle realtà locali venga dal recuperare la possibilità di scrivere la propria storia. Vedo molti parallelismi tra la letteratura dello sviluppo e delle relazioni Nord-Sud e la questione femminista. La liberazione (delle donne) arriva dalla comprensione di sé e delle condizioni materiali di vita, dei suoi perché. Senza tale lavoro sulla propria realtà, non si può trasformare l’esistente e ciò è valido anche per i paesi del Sud. È con questo spirito che animiamo anche Osae. E credo che, pur non essendo tanto giovane, avrò comunque la chance di vivere un altro mondo. Lo immagino perché penso sia possibile altro. Potrebbe essere semplice. Se domani si proibisse l’allevamento intensivo, senza bisogno di diventare tutti vegetariani, anche in una sola regione in Tunisia, sarebbe un ottimo risultato contro il virus, che diversamente resiste e si modifica proprio con l’intensivo. E noi saremo più fragili col prossimo virus. 

Ritornando alla questione sulla democrazia – non in senso formale, parlamentare – non credi che le domande di giustizia sociale, pane, libertà, si riferiscano ai suoi contenuti sostanziali? Si può considerarlo più un aggettivo che un sostantivo, o è preferibile cercare altre parole?

Si, ma le parole hanno un senso. La parola democrazia si riferisce alla democrazia borghese, liberale, rivendicata anche dalle élite e dalla borghesia tunisine. Governa chi vince le elezioni: se domani il parlamento impedisce qualsiasi cosa a una categoria (alle donne per esempio), può farlo perché è un potere democratico. Ma si può parlare d’altro, creare nuovi concetti dal significato simile ma senza deformare le parole. Credo che l’ecologia sociale femminista sia un’espressione più chiara, giusta, egualitaria. All’interno di questa concezione possono convivere diverse accezioni, ma voglio liberarmi dalla trappola delle parole, del tipo «se non accettate il parlamento non siete democratici». Perché un sistema tribale sarebbe meno legittimo di uno parlamentare? Perché il successo di una rivoluzione di un paese si misura in base al grado di democrazia parlamentare esistente? Tutti applaudono alla Tunisia come sistema eccezionale, che corrisponde più o meno a un modello di riferimento. Io sono uscito dalla scuola credendo di aver avuto la chance di non essere come i miei genitori, selvaggi, autoritari ecc., e questo è un successo straordinario del pensiero parigino. 

Come esortava Edward Said (riprendendo Gramsci), bisogna fare l’inventario di tutte queste tracce depositate in noi.

Certo, e perciò non voglio utilizzare delle parole che abbiano un senso troppo occidentale. Perciò non sono un democratico, ma un ecologista sociale e possibilmente femminista. È difficile cambiare vocabolario e comportamenti, soprattutto quando si è in una posizione di dominio, ma è importante farlo e inventarne di nuovi, attingere dal linguaggio dei dominati, e che i dominanti non utilizzano. 

Habib Ajeb

Alessandra Marchi

Dottorata in Antropologia Sociale all’Ehess di Parigi, è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Cagliari e tra le fondatrici del GramsciLab, Centro di Studi internazionali gramsciani. Le sue ricerche spaziano dal sufismo alla diffusione del pensiero gramsciano nel e sul mondo arabo.

8/5/2020 https://jacobinitalia.it

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *