La giustizia fossile del capitale

Volete sapere perché la difesa del pianeta, se non rompe gli insaziabili interessi dell’accumulazione di capitale, diventa acqua fresca? Pensate che questo sia un interrogativo molto ideologico, inutile e un po’ demagogico? Liberi di farlo, ovviamente, ma provate a leggere con attenzione la notizia che racconta qui, in breve, Francesco Panié. A noi pare abbia una sua concretezza. Poi, magari, se ne riparla. Un tribunale privato di arbitrato internazionale – nato da uno scellerato accordo del 1998 siglato per proteggere gli investimenti (e dunque i profitti) dalle leggi ordinarie degli Stati ha condannato l’Italia a pagare 250 milioni di euro alla compagnia petrolifera britannica Rockhopper. Una cifra, come si vede, che ha una sua concretezza. Eppure la ragione per cui i cittadini italiani tutti devono pagare è, quella sì, abbastanza (o profondamente, fate voi) “ideologica”: si tratta di risarcire mancati potenziali profitti generati dallo stop all’estrazione di combustibile fossile a due passi dalla costa Costa abruzzese dei Trabocchi, dichiarata Parco nazionale nel 2001. Sì, quella stessa storia delle trivelle e del referendum del 2016 in cui il Sì raggiunse l’85% ma votò solo un cittadino su 3 e non si raggiunse il quorum necessario. “Quorum? Ciaone”, commentò l’ilare deputato renziano Ernesto Carbone, avvocato, ex segreteria nazionale Pd, membro della Fondazione Italia-Usa e, dal 2020 consigliere d’amministrazione di Terna e Cassa Depositi e Prestiti. Un curriculum ideale per far parte di uno di quei tribunali che giudicano le farsesche controversie di cui sopra e che sono accessibili solo agli investitori, lo Stato vi può comparire solo come imputato. Il processo si svolge a porte chiuse e non c’è possibilità di appello. A decidere “la sentenza” in qualità di giudici sono appunto degli avvocati commerciali con evidenti conflitti di interesse. Grazie a un sistema giudiziario parallelo, dunque, le multinazionali del fossile riescono ad estorcere risarcimenti multimilionari agli Stati che approvano leggi sgradite. Sarà anche un’affermazione “ideologica”, ma i soldi sono veri.

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Un tribunale di arbitrato internazionale ha da poco ordinato al governo italiano di pagare 250 milioni di euro alla compagnia petrolifera britannica Rockhopper, come risarcimento per aver limitato nel 2016 le operazioni di ricerca ed estrazione di petrolio e gas entro le 12 miglia marine.

Le norme contestate, varate dal governo Renzi nella legge di stabilità per disinnescare il referendum No Triv dell’aprile 2016, avevano avuto l’effetto collaterale di fermare il progetto Ombrina Mare, gestito dalla Rockhopper. Si tratta di una piattaforma di estrazione di idrocarburi ad appena 6 km dalla Costa dei Trabocchi, che è Parco nazionale dal 2001.

La Rockhopper ha fatto ricorso contro lo stop italiano, utilizzando una clausola presente nel Trattato sulla Carta dell’Energia, accordo internazionale in vigore dal 1998 e siglato da 48 Paesi più l’Unione europea e la Comunità europea dell’energia atomica, con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza energetica dell’Europa proteggendo gli investimenti occidentali in combustibili fossili nell’ex Unione Sovietica.

Tuttavia, oggi il trattato copre per lo più investimenti intraeuropei (circa l’80%) e garantisce una sorta di scudo legale all’industria dei combustibili fossili, che può rallentare efficacemente la transizione verso le energie rinnovabili.

Lo scudo è costuito dal meccanismo ISDS (Investor-to-State Dispute Settlement), in base al quale le gli investitori esteri possono citare in giudizio – utilizzando tribunali sovranazionali e poco trasparenti – gli stati che mettono in atto politiche considerate lesive dei loro investimenti. Tutto ciò ha permesso al settore privato, negli ultimi trent’anni soprattutto, di contestare con successo misure volte alla tutela ambientale, della salute o del lavoro, riuscendo spesso a indebolirle, farle ritirare o ad ottenere lucrose compensazioni a danno dei contribuenti.

I meccanismi di arbitrato internazionale, nati per proteggere gli investimenti di società che andavano a lavorare in Paesi con sistemi giudiziari scarsamente indipendenti, oggi sono degenerati in arma deterrente utilizzata dalle imprese per impedire ai governi di regolare il loro operato, anche quando impatta sugli ecosistemi o sui diritti delle comunità locali.

L’arbitrato si svolge in un tribunale privato, accessibile solo agli investitori internazionali, di fronte al quale lo Stato può comparire solo come imputato. Il processo si svolge a porte chiuse e non c’è possibilità di appello.

Questo meccanismo consente alle imprese di aggirare i tribunali ordinari dei paesi e beneficiare del giudizio molto più magnanimo dei tre arbitri che dirimono le cause. Si tratta di avvocati commerciali appartenenti a un pool di poche decine di professionisti che si spartiscono gli importanti proventi di questo sistema giudiziario parallelo: una causa costa minimo 8 milioni di dollari, ma può arrivare molto più su ed è per questo che fondi di investimento e altri investitori speculativi decidono sempre più spesso di pagare le spese alle aziende che ricorrono in arbitrato, in cambio di una percentuale sulla compensazione che riusciranno a ottenere dallo stato. Non è difficile comprendere che un simile investimento viene fatto solo a fronte di una ragionevole possibilità di successo.

E infatti il conflitto di interessi è dietro l’angolo: se il compenso degli arbitri dipende dal numero di cause che dirimono, e se queste possono essere avviate solo dalle imprese, chi giudica non avrà interesse a scontentare troppo il ricorrente. Il caso Rokhopper vs Italia ne è un esempio lampante, tant’è che ha consentito alla compagnia petrolifera di ottenere una compensazione di 250 milioni di euro per il blocco di un progetto costato sei volte di meno.

E dire che l’Italia era uscita dal Trattato sulla Carta dell’Energia già nel 2016, ma una “clausola di caducità” (sunset clause) consente alle imprese di usarlo come base per ricorsi in arbitrato contro il nostro paese per altri 20 anni.

E’ chiaro che l’accordo internazionale, così come tutti gli accordi commerciali di questo tipo, è costruito per proteggere i profitti delle imprese private anche a danno del diritto di regolamentare l’economia da parte degli stati. La Carta dell’Energia, dunque rappresenta oggi un evidente ostacolo per quei paesi che cercano di ridurre le emissioni e comprimere il settore dei combustibili fossili.

Per dare un segnale di riscossa, organizzazioni e movimenti in tutta Europa stanno chiedendo da tempo l’uscita di tutta l’Unione europea dall’accordo, per farlo collassare su se stesso e abolirne i meccanismi deterrenti per il passaggio verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Senza un gesto drastico come questo, la transizione energetica rischia di diventare esageratamente costosa per i governi, costretti a risarcire con i soldi dei contribuenti multinazionali fossili proprio in un momento in cui macinano profitti a nove zeri speculando sul prezzo dell’energia.

Lo stesso meccanismo ISDS dovrebbe essere abolito una volta per tutte, per restituire ai governi il primato sull’economia e togliere alle imprese uno strumento di repressione e bullismo nei confronti del potere pubblico.

Francesco Paniè

2/9/2022 https://comune-info.net

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