La grande fuga dal lavoro nell’occidente

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La ristrutturazione capitalista operata dagli anni 80 con i licenziamenti di massa, con precedenza dei gruppi organizzati di classe operaia che intervenivano sulla determinazione di giusti salari e sulla nocività della fabbrica come luogo di malattie e morte.

Con queste premesse oggi assistiamo alla lotta fratricida tra poveri, tra “garantiti” e “non garantiti” che il sindacalismo deconflittualizzato riproduce di fatto effetti cogestivi (spesso consapevoli con la motivazione che “sarebbe perdente costruire lotte potenzialmente perdenti con questi rapporti di forza”) della ristrutturazione ancora in atto.

La lotta tra poveri diventa strutturale e le disuguaglianze formali e sostanziali si intensificano tra i più vulnerabili e fragili, i più emarginati. Diventa precarietà giuridica facendo venir meno la piena cittadinanza nei diritti, del lavoro come in quella alloggiativa e di salute.
Un quadro sociale sempre più degradato e fautore, anche nella popolazione più sofferente, di opzioni politiche rancorose e autodistruttive.
Questa premessa la riteniamo utile per capire il fenomeno dell’abbandono del posto di lavoro in atto nell’occidente.

Per quanto riguarda l’Italia, gli abbandoni volontari dall’impiego nel 2021 sono stati quasi due milioni, cifra superata l’anno dopo seppur di poco. Fuga in massa dal lavoro in un periodo di recessione economica.
Per leggere correttamente questo nuovo fenomeno sociale di massa bisogna partire dal dato storico degli ultimi trent’anni. In Italia sono progressivamente peggiorate le condizioni di vita e di lavoro. Imprese, governo e padronato hanno utilizzato la crisi per tagliare i salari, ridurre i diritti, aumentare i ritmi e smantellare lo stato sociale (servizi pubblici e beni comuni). Dal Jobs act, all’automatismo degli scatti della “Fornero”, dalla Buonascuola ai decreti Madia sul pubblico impiego, dai tagli alla spesa pubblica fino alla cancellazione della mobilità e della cassa per cessazione (aggravando le condizioni di centinaia di migliaia di licenziati). La traccia riconosce esplicitamente che questi sono “punti di rottura con i lavoratori e le lavoratrici”: “ferite aperte e non rimarginate”.
Questo perché dagli anni ottanta del novecento lo smantellamento delle politiche di welfare State (sostituito da quello aziendale e familistico) sono procedute di pari passo con quelle di deregolamentazione del mercato del lavoro favorendo la proliferazione di forme alternative sempre più spinte di flessibilità di ingaggio e gestione del lavoro (contratti, orari, messa a disposizione, ecc).

Questo dato strutturale, unito alla deregolamentazione del mercato del lavoro e alla legislazione sui licenziamenti, spiegano le ragioni della desertificazione sindacale nel mondo del lavoro, particolarmente in Italia come nei paesi nei quali la normativa rende sempre più difficile l’iscrizione al sindacato. Con la particolarità in Italia dell’esistenza di un doppio regime di tutele sul licenziamento dagli anni 70, dove nelle medie grosse imprese il licenziamento è disincentivato mentre nelle piccole-micro aziende è agevolato. Ebbene proprio la porzione delle imprese agevolata nei licenziamenti, ha subito una crescita abnorme rispetto a quella dei licenziamenti disincentivati per lo meno dagli anni 90.

Quindi il rifiuto del lavoro, di questo lavoro, non è inspiegabile, è un sintomo di una rottura epocale, della fine dell’epoca in cui regnava la speranza che il lavoro consentisse di realizzare i sogni di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento.
La fuga in massa dal lavoro è anche una scelta di sopravvivenza; decreta il fallimento di un modello di sistema produttivo incentrato sulla la riduzione dell’organico fino all’osso, l’estensione degli orari di lavoro, la precarietà economica e contrattuale. Condizioni di lavoro invivibili che producono sfinimento, burnout, malattia, depressione e nella gran parte dei casi senza neanche la compensazione di paghe decenti.

I salari sono bassi, vergognosamente bassi. Anche quei pochi “fortunati” (i giornali padronali ancora scrivono “privilegiati”) che hanno un lavoro da molti anni, e dunque salari fissati da contratti nazionali stipulati in altre condizioni, negli ultimi anni hanno visto bloccarsi la dinamica verso l’alto. Per precari e discontinui, invece, la dinamica è addirittura discendente, quando si passa da un lavoro all’altro. In molti comparti, specie nella grande distribuzione, i 600 euro al mese per orari settimanali decisi arbitrariamente dalle aziende, sono diventati quasi la normalità.
Per le aziende è ovviamente una pacchia, a un primo sguardo (che è poi quello delle aziende stesse, notoriamente molto miopi). Ma basta guardare il problema da un po’ più in alto – un paese, per esempio – e subito si vede che questa compressione salariale è anche un problema negativo per l’economia capitalistica. Se la gente lavora e viene pagata poco – o addirittura nulla, come in molti stage o all’Expo – non ha molto da consumare. Insomma, compra poche merci, riduce i servizi, taglia le spese superflue e anche gran parte di quelle necessarie (le cure mediche, per prima cosa). Ma se la domanda di consumi cala, anche per le aziende le cose sono meno rosee e sono costrette a ridurre la produzione.
I cambiamenti strutturali nel sistema economico e nel mercato del lavoro hanno anche favorito in generale nel mondo e nel nostro paese il declino del sindacato con la diminuzione delle tutele e l’aumento delle forme di del lavoro non salariali, atipiche e informali, ovvero precarie.

Anche nel lavoro pubblico, in particolare nella sanità sono venute meno le strutture funzionali e solidali nella gestione dei servizi sociali, con ricadute pesanti sui cittadini, sulla qualità del lavoro dei dipendenti rimasti dopo i tagli decennali.

La prevenzione e la sicurezza sui posti di lavoro è diventato un optional soprattutto se pensiamo al personale della sanità in tempi di pandemia: Invece di accorciare l’orario settimanale si va verso un suo prolungamento e da qui a esigere, come accade già in certi comparti privati, delle ore straordinarie il passo è breve. Si parla di benessere organizzativo ma il malessere con il quale si lavora è sempre più palpabile. Il ruolo degli Rls (Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) nel corso degli anni si è ridotto ai minimi termini. Per restituire credibilità e forza ai rappresentanti della sicurezza bisogna operare scelte radicali quali allargare le loro competenze, per cambiare materialmente l’organizzazione del lavoro.

Inoltre incide fortemente da tempo nella Pa l’incremento delle misure disciplinari che poi si traducono in una doppia penalità ossia in valutazioni inferiori che determinano riduzione della produttività, da qui la storica richiesta della L’obbligo di fedeltà aziendale resta un vulnus democratico e uno strumento repressivo che inficia il diritto di critica e la stessa azione dei delegati sindacali.
A questo cambiamento solitamente le organizzazioni sindacali hanno risposto in questi ultimi trentanni tutelando la parte organizzata o più facilmente organizzabile (grandi imprese private e lavoro pubblico), spesso arroccandosi dentro modalità corporative, come quelle di introdurre i doppi regimi di trattamento fra i neo assunti e i più anziani, a partire dal nefasto accordo Dini sulle pensioni e ai diversi rinnovi dei CCNL dalla seconda metà degli anni 90, fino ad arrivare a vere e proprie forme di deregolamentazione sui part-time, sui tempi determinati, su diverse forme di lavoro flessibile o precario.

Quello che è certo, e si tocca con le mani, è il conseguente imbarbarimento delle stesse relazioni sociali, fatte di indifferenza verso chi sta peggio, di nichilismo che amplifica, fino all’odio verso gli altri considerati diversi, il processo di distruzione degli ideali, dei valori di comunità per sostituirli con presunti nuovi valori impregnati di individualismo e di appartenenza a singole tribù con a capo personaggi vagamente mostruosi, e paradossali.

E’ paradossale ma, a dispetto dell’espresso individualismo, il puntuale Rapporto del Censis sul welfare aziendale ci dice che le richieste degli italiani sono sempre: sicurezza nel lavoro, cura della salute ed equità sociale.
Come si spiega il paradosso?

Non sarà che sono venuti meno sia gli organismi d’impegno sociale che hanno impregnato cuori cervelli e relazioni nel secolo scorso, che l’ossatura della rappresentanza dei Partiti, chi bene e chi male, determinavano, potenzialmente, un miglioramento delle condizioni di vita reali.

Dopo trentanni di narcotizzazione progressiva delle lotte e delle mobilitazioni, l’azione di persuasione e contrattazione sui grandi temi rispetto ai diversi livelli istituzionali ha perso generalmente capillarità e forza, vedendo un processo di silenziosa esclusione della partecipazione dei sindacati a molti e diversi tavoli sociali.
E’ quello dei lavoratori precari dei call center, dei servizi di prenotazione sanitaria, dei musei, degli insegnanti a tempo determinato da dieci anni della scuola che con la loro singola lotta comunque incidono sulle condizioni disastrate del lavoro a causa delle scelte politiche della classe governante degli ultimi 30 anni e le insufficienze delle risposte sindacali.
Un dato controcorrente alla narrazione secondo cui siano le giovani generazioni a “non voler lavorare”, quando invece il fenomeno delle dimissioni risulta trasversale. Nel quinto rapporto Censis si sottolineava che la maggioranza delle persone era insoddisfatta del proprio lavoro, ma non era intenzionata a lasciarlo. Il sesto rapporto di recente pubblicazione cambia lo scenario, diventando evidente che per tanti il lavoro è solo uno strumento per avere un salario. C’è una disaffezione molto forte nei confronti del lavoro in quanto tale. La cultura del lavoro sta cambiando rapidamente rispetto a 40 anni fa, quando il lavoro rappresentava l’elemento più importante della vita. Ad esempio, l’essere sempre impegnati era considerato uno status symbol. Oggi non è più così. La verità è che il lavoro sta vivendo una crisi esistenziale. Le persone non solo hanno bisogno del tempo per vivere. Lo vogliono. Non sono più disposte a passare l’intera vita succubi del lavoro».

In quarant’anni il paese che produce è cambiato: ha visto la crescita a dismisura del terziario (commercio e servizi) con il ridimensionamento del manifatturiero (oggi produttore 25% del PIL con il 20% dell’occupazione), sono scomparse le grandi concentrazioni produttive, si sono polverizzati i luoghi di lavoro, sono cresciuti i lavori precari, gli aumenti contrattuali si sono fatti sempre più modesti e dilazionati nel tempo, è cresciuto il fenomeno del lavoro povero e del part-time non volontario, cresce la popolazione inattiva, al disopra delle medie europee.

Il fallimento di un modello.
La fuga dal lavoro diventa dunque la comprensibile risposta. Una risposta individuale, non organizzata collettivamente, facciamo osservare alla studiosa. «Sì. Per certi versi è un fallimento anche del modello sindacale, della capacità di questi corpi intermediari nel rispondere collettivamente agli attacchi alle condizioni retributive e d’impiego. Va però sottolineato che negli Stati Uniti le grandi dimissioni hanno dato il via a un’ondata di scioperi impensabile per importanza da decenni nel Paese. Il vero fallimento credo sia imprenditoriale, perché non riescono più a controllare, vedi trattenere, i lavoratori».

La falsa crisi economica inventata e fatta ingoiare a chi ha poco o niente, mentre i ricchi continuano ad arricchirsi, da chi ha in mano le leve del capitalismo, in una società ricca come quella italiana fortemente diseguale nella distribuzione, ha prodotto una tale assuefazione all’esistente che ci ha portati ad escludere dalla nostra mente la stessa idea di critica dello stato cose presenti e ci porta ad accettare di vivere alla giornata, nonostante le previsioni di un ulteriore peggioramento. In questo drammatico contesto sono coinvolti anche i milioni di giovani diseredati di un presente senza passato e senza futuro, ma comunque consumatori di un gigantesco surplus di produzione di beni apparentemente utili a uno stato di benessere.

Quando per ogni posto di lavoro si affollano migliaia di persone, disposte ad accettare le condizioni più turpi pur di avere un’occupazione qualsiasi, la protesta DEVE essere collettiva. Sia nel senso di rivendicazioni specifiche sul posto di lavoro e per il posto di lavoro, che azioni in senso più propriamente politico. Purtroppo è di queste ultime che c’è stata e c’è ancora grave carenza. Come accennato, i sindacati da decenni hanno abdicato alle loro funzioni statutarie; da molto tempo a questa parte invece di sostenere le giuste rivendicazioni di categoria e lottare per ulteriori miglioramenti, propagandano l’acquiescenza e la resa di fronte alle imposizioni del padronato.

La stessa coscienza dei propri interessi più immediati pare evaporata dalla mente dei lavoratori e degli appartenenti alle classi subalterne: quelli che solo pochi anni fa erano “diritti” da rivendicare e da estendere a tutti, sono letti come “privilegi”.
Se questi elementi analitici della situazione sociale attuale sono corretti possiamo prendere in considerazione la propensione di massa a accettare forme graduali di schiavitù? Le guerre dell’occidente che incentivano le migrazioni economiche indotte dalla paura e dalla conseguente miseria, hanno forse poco a vedere che le migrazioni degli italiani verso Paesi potenzialmente più ospitali dal punto di vista lavorativo?

Ecco il doppio risultato dello smantellamento del welfare come condizione sociale dignitosa e dei diritti del lavoro. Uno smantellamento che avanza talmente veloce da prefigurare uno stato di controllo repressivo, in quanto il lavoratore va considerato non più come uomo libero, con diritti e doveri nella sua partecipazione alla costruzione e fruitore, della ricchezza prodotta, ma come suddito silente ai confini della condizione di schiavitù mascherata dalla possibilità concessa di partecipare alle elezioni politiche e sindacali.

Franco Cilenti

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