La grande fuga dal Pronto soccorso.

1) Il setaccio

In assenza di una riforma della sanità territoriale che garantisca personale e strutture intermedie e di prossimità, i Pronto soccorso sono il primo e principale punto di accesso al Servizio Sanitario. Ma, mentre il Ministero lancia la campagna di comunicazione #noisalviamovite, con l’obiettivo di aumentare le adesioni alla specializzazione di emergenza-urgenza, mettendo in evidenza l’importanza cruciale e il forte valore etico e morale di questa disciplina per ispirare futuri medici a intraprendere questo percorso professionale, nell’anno 2022-2023, ogni quattro posti messi a bando per tale specialità, ne è stato assegnato solo uno. Intanto la situazione scoppia, con decine, se non centinaia, di accessi al giorno, turni massacranti, carenza di personale e di posti letto, aggressioni (verbali e fisiche) sempre più frequenti al personale sanitario e infermieristico, estensione a macchia d’olio del fenomeno dei medici “gettonisti”, livelli di stress che diventano veri e propri burn-out e molto altro ancora. Indagare cosa accade “dentro” i Pronto soccorso è, almeno, un veicolo per comprendere cosa sta realmente accadendo e per ragionare su come affrontare una situazione insostenibile (seppur prevedibile), conseguenza di una somma di criticità negli ultimi anni trascurate, sottovalutate e, in fin dei conti, ignorate. Per farlo ricorriamo, ancora una volta, ad alcune testiomonianze e analisi di Michela Chiarlo, oggi medico del Cto di Torino e fino a pochi mesi fa al Pronto soccorso e nel reparto di Medicina d’urgenza dell’Ospedale San Giovanni Bosco sempre di Torino, che già ci ha accompagnati, in passato, a esplorare la situazione ospedaliera durante la pandemia da Covid. (la redazione)

Sono le otto del mattino. Arrivi (si spera) riposato dopo una notte di sonno. La lista è accettabile, un paziente in attesa da mezz’ora. Lo visiti, chiedi gli esami, lo fai aspettare. Nel frattempo ne registrano un altro paio: uno lo vede il tuo collega, chiami il terzo. Visita, esami, radiografie. Forse c’è anche tempo per un caffè. Avanti così per un paio d’ore, è tutto sotto controllo fino alle undici, quando la situazione si complica. In mezz’ora il triage registra dieci pazienti, nel frattempo sono arrivati gli esami dei cinque già visitati. Qualcuno scalpita per essere dimesso, qualcun altro ha bisogno di ulteriori accertamenti. Così mentre copi la terapia domiciliare del paziente che hai in stanza chiami la radiologia per chiedere la TC di un altro, un consulente si sporge in ambulatorio e ti chiede notizie di un terzo, il medico del 118 ti dà consegne di un quarto che è il prossimo codice arancione registrato. Tieni a mente tutto quanto e cerchi di gestire le attività in parallelo perchè è il tuo lavoro e ti piace anche, ma costa ovviamente fatica.

In men che non si dica è l’una, sarebbe anche ora di mangiare, provi a organizzarti con i colleghi per fermarsi a turno, ma poi arrivano un codice rosso e un arancione in contemporanea e rimandi di una mezz’ora. Succede qualcos’altro, a quel punto sono le due e conviene tirare dritto fino al cambio. Alle tre arriva il collega che comincia subito a visitare nella stanza che occupavi fino a quel momento. Vaghi alla ricerca di un computer perché, per non lasciare una lista infinita, non hai dimesso i pazienti che potevi dimettere e non hai impostato le cartelle di quelli che devi tenere per ricovero o osservazione.

A questo punto puoi anche mangiare, sfidando le occhiate di rimprovero di pazienti che oggettivamente aspettano lì dalle 9.00, ma che hanno anche eseguito in poche ore accertamenti per migliaia di euro che con i normali canali del SSN avrebbero completato in un paio di mesi ad essere fortunati. Rivedendo i casi con un minimo di lucidità ti viene il dubbio che uno dei pazienti che stai per dimettere forse meriterebbe un accertamento in più e ti si aprono due strade: lo dimetti con poca convinzione e ti porti a casa la preoccupazione, in fondo fa parte del lavoro, ti piace anche per questo, un medico di pronto che non si assume qualche rischio non è un bravo medico di pronto. Oppure lo trattieni e affronti una strada in salita: il radiologo (già oberato di lavoro) non è convinto dell’ennesimo accertamento che gli chiedi, il collega del pomeriggio increspa il labbro all’idea di un paziente in più (che non ha mai valutato) da dimettere più tardi, il paziente è stufo di passare la giornata sulle scomode sedie della sala d’attesa; torni a casa insoddisfatto perchè probabilmente hai creato tutti questi disagi per un sospetto infondato. Altre volte, invece, il sospetto è confermato e sei ripagato da quel brivido di soddisfazione per aver scovato la diagnosi, sensazione che inevitabilmente si mescola al pensiero amaro “cosa sarebbe successo se lo avessi invece mandato a casa?”.

Benvenuti in una giornata di ordinario pronto soccorso a Torino, nel 2024. Una giornata media, può capitare sicuramente di peggio. Questa è stata la mia vita per sei anni, inframmezzati da una pandemia e un figlio, poi, conscia di non avere più le risorse fisiche e mentali per reggere il ritmo e conservare un briciolo di energia per la mia vita privata, ho cambiato lavoro.

Fare il medico dell’emergenza-urgenza è un lavoro adrenalinico, entusiasmante, ricco di soddisfazioni, ma estremamente usurante, specie in questo momento storico. Non a caso la specialità, che un decennio fa era molto ambìta, negli ultimi cinque anni ha conosciuto un crollo verticale delle richieste (https://www.anaao.it/content.php?cont=37009). Quest’anno ben un quarto delle borse destinate all’emergenza-urgenza rimarrà scoperta. Il ministero ha persino lanciato una campagna per incentivare le iscrizioni, sottolineando tutto il bello di questo mestiere. Ma siamo sicuri che basti?

Vorrei analizzare alcune peculiarità del lavoro nel settore dell’emergenza (e in particolare di quello che conosco meglio, ovvero il pronto soccorso) per provare a capire le origini della crisi e ipotizzare qualche soluzione. Come in molti casi la questione è complessa e per farne un’analisi non dico esaustiva, ma almeno non superficiale serviranno più puntate.

Iniziamo dalla base: a cosa serve il pronto soccorso? Sicuramente a gestire le emergenze, i casi immediatamente pericolosi per la vita, che sono i più facili da identificare. Deve, però, occuparsi anche delle urgenze, i casi potenzialmente pericolosi per la vita, che sono meno palesi. È anche una delle poche porte d’accesso all’ospedale: chi ha una condizione acuta che necessita di ricovero deve passare dal pronto soccorso per essere preso in carico. Il pronto soccorso svolge il compito di un setaccio: dal mare magnum degli accessi vanno estratte le pepite dei pazienti gravi. Il medico d’urgenza fa un buon lavoro se trattiene i pazienti con l’assoluta necessità di ricovero e se quelli che dimette non tornano e non muoiono. Di fatto il pronto soccorso è un gigantesco test diagnostico con i suoi falsi positivi (ricoveri impropri) e falsi negativi (dimissioni improprie) e quindi con la sua sensibilità e specificità. Come per i test diagnostici sensibilità e specificità possono essere regolate: si può avere una specificità altissima e non dimettere nessuno inappropriatamente, ma “costerà” in termini di falsi positivi, cioè si finirà per ricoverare molte più persone. Detto in altri termini, se voglio essere certo di non dimettere neanche un infarto mi toccherà ricoverare magari venti pazienti che sospettavo potessero avere un infarto e che invece, fatti i dovuti accertamenti, non lo avevano.

Il decisore sul numero di ricoveri, però, non è il pronto soccorso e non sono nemmeno i reparti. Il decisore è politico: ogni regione decide quanti posti letto per abitante mantenere, quanto potenziare l’assistenza territoriale, di fatto varia il carico e le maglie del setaccio. In alcune regioni come Toscana, Veneto, Emilia Romagna il boarding, ossia la pratica di tenere i pazienti in pronto soccorso in attesa di posto letto in reparto, è inesistente. In altre regioni raggiunge picchi patologici di parecchi giorni. Da qui la prima peculiarità del lavoro in pronto soccorso: le condizioni lavorative possono variare da zona a zona e da anno ad anno molto di più e molto più rapidamente di quanto avvenga per le altre specialità. Chi ha scelto questo lavoro venti, dieci o anche solo cinque anni fa non è detto che l’abbia fatto sulla base delle condizioni attuali del sistema d’emergenza. Inoltre il pronto soccorso è il primo a soffrire delle carenze del sistema: se ci sono meno specialisti le liste d’attesa si allungano e i pazienti si riversano in pronto soccorso inappropriatamente nella speranza di accorciare l’attesa, o appropriatamente perché una condizione cronica che non ha ricevuto la dovuta attenzione è precipitata ed è diventata meritevole di ricovero. Lo stesso calo degli specialisti, però, provoca una riduzione dell’assistenza e dei posti letto in ospedale e il disagio ricade comunque sul pronto soccorso, che si sovraccarica dei pazienti che non riesce a ricoverare.

Michela Chiarlo

7/10/2024 https://volerelaluna.it/

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