La guerra ai migranti
Uno dei cammini dei migranti è lungo circa 6000 chilometri.
Ho seguito l’intera rotta dei Balcani, sono entrato in Turchia e ho raggiunto il confine turco iraniano: un viaggio lungo circa tre mesi che mi ha portato dentro il cuore nero dell’Europa. Sono partito dal confine italo francese, luogo a me caro, dove passano i migranti della cosiddetta rotta alpina che sono in marcia verso il nord Europa, ogni notte da anni le stesse scene: pensavo che quello fosse un discreto abisso dell’umanità, pensavo che vedere i bambini marciare nella neve e nella notte potesse essere un limite, anzi una frontiera tra l’umanità e la disumanità. Poi sono entrato nei Balcani passando dalla val Rosandra, poco distante da Trieste, e il mondo dei migranti è scomparso, inghiottito dai boschi dove ho camminato per centinaia di chilometri sui loro sentieri nascosti: non ci sono più, abbiamo fatto piazza pulita o quasi. Annientati.
Sono giunto in Bosnia, confine con la Croazia, e qui sono finito nelle “jungle”, le baraccopoli dove affogati nel fango e nella merda dei cani randagi vivono centinaia di esseri umani. Qui ho visto una bambina, l’ho incontrata in una fabbrica distrutta, apolide, nata non si sa dove: aveva grandi occhi neri e un fiocco rosso tra i capelli, la madre cucinava un sugo per il pranzo per lei e il padre, mentre i topi giravano per terra dove tutti mangiano, vivono, dormono, fanno l’amore e fanno figli.
Poi mi sono spostato in Serbia, confine con l’Ungheria dove i migranti per raggiungere le reti di Orban devono attraversare una riserva di caccia in cui sono esposti grossi cartelli che avvertono del pericolo: quando ci sono arrivato io alle reti una pattuglia mi ha individuato e da un cancello ha messo il muso dentro la Serbia, accendendo un lampeggiante blu. Poi è arrivata la polizia serba, mi ha identificato e io ho spiegato che ero solo un turista che faceva un giro in bici e si era perso, e certo non un migrante o peggio: guardi agente io ho un passaporto italiano, sono un euro che cammina non sono un pericolo come quelli che scavano sotto la rete tunnel per entrare in Europa e vengono sempre presi, perché dall’altra parte, in Ungheria, ci sono le ronde di pensionati che danno la caccia a ‘sti disgraziati. A questo punto ho deciso che la definizione “migrante” per questo popolo non va bene: loro sono i nostri nemici, contro i quali conduciamo una guerra spietata e senza lesinare sulle armi. Loro sono i nostri Charlie, i nostri ucraini, i nostri indiani. Riconosciamo loro la dignità della loro essenza: nemici. Vivono nei boschi con gli animali selvatici, sono rinchiusi in campi, sempre braccati, depredati, perfino uccisi.
Il viaggio è proseguito nell’inferno dei viventi che è qui ed ora, dove ogni tanto brilla qualche punto di paradiso: alcuni volontari – Silvia, Eleonora, Daniele, Hannah, Padre Dimitar, Adim, Jator, Lorena – e mucchi di storie tutte uguali, paese dopo paese.
Bosnia, Serbia, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Grecia. Charlie rimbalza come una pallina da una frontiera all’altra, un flipper truccato dove ne esce solo chi ha un mucchio di soldi in tasca: è il mercato totale, dove tutto ha un prezzo, dalle scarpe alla vita, da una coperta gettata a terra alla misericordia di una guardia di confine che costa cinquanta euro. Se Charlie è giovane e forte ma senza soldi muore. E muoiono in tanti. Afgani, siriani, pachistani, maghrebini, palestinesi, africani: uomini, donne e bambini che non sanno dove andare, assediati dalla violenza, dal fango e dalla morte. Ho visto moltissimi conflitti nella vita, ma quanto accade nei Balcani è la nostra guerra, che conduciamo da anni investendo ingenti capitali, soldi pubblici che tutti noi paghiamo, in armi, soldati, dirigibili, telecamere, ronde, cani, sensori infrarossi, pick up, motoscafi, tute mimetiche, milizie private.
Poi sono arrivato in Turchia e lì Charlie ha cambiato forma, è diventato un rifugiato integrato nella società e nel sistema economico: in modo turco, però. Il paradiso del costo del lavoro. A Erzurum poco distante dal confine con la Siria vivono centinaia di migliaia di profughi di guerra: sono ovunque, anche perché secondo la normativa turca non possono muoversi dal loro comune di residenza. Tutti vorrebbero uscire da una sistema che li sfrutta a fondo, legalmente, ma nessuno può muoversi, perché se lo fanno e vengono scoperti il biglietto di ritorno per la Siria viene staccato all’istante. E in Siria spesso c’è un bella condanna per diserzione che li aspetta. La frontiera con la Grecia via terra, invalicabile, è un territorio folle e malato: quando arrivano presso il fiume Evros, poco distante da Edirne, un sistema bellico di respingimento blocca tutti, e li picchia, li deruba, gli toglie le scarpe e li rispedisce indietro scalzi nella neve in inverno, nella polvere in estate. Donne, vecchi e bambini.
Dopo tutto questo è scoppiata la guerra, la Russia ha invaso l’Ucraina e milioni di esseri umani hanno mosso verso l’Europa: ho raggiunto il confine polacco e ho visto l’enorme flusso di profughi che entra in Europa grazie al riconoscimento della protezione temporanea, direttiva 2001/55. Ho visto anche l’enorme sforzo di accoglienza e aiuto, mondiale, bello nella sua caoticità, un esempio. Ora i siriani che ho visto io hanno alcuni elementi in comune con gli ucraini, uno su tutti: provengono da città rase al suolo dai russi: pare che Aleppo abbia assaggiato le capacità di distruzione dell’esercito russo come Mariupol. Mentre ero in Polonia i siriani bloccati a Edirne mi scrivevano messaggi di questo tenore: «Secondo te ora che i russi bombardano l’Ucraina distruggeranno un po’ meno casa nostra?». Oppure mi chiedevano come andare in Ucraina per poi entrare in Europa, ovviamente pagando qualche trafficante.
Il giusto principio che vale per gli ucraini non vale per i siriani. Perché sono scuri di pelle? musulmani? Perché sono potenziali terroristi? E gli afgani? Al confine tra Iran e Turchia ho visto bambini vivere dentro case senza riscaldamento, a meno dieci sotto zero, salvati dalla legna che portano i volontari, illegalmente.
Non dimentichiamo i reietti del mondo.
Maurizio Pagliasotti
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