«La guerra di Gaza offusca la memoria dell’Olocausto»
Per lo storico Enzo Traverso c’è il rischio che il discorso sulla Shoah si indebolisca identificandosi con l’esercito di uno stato che massacra migliaia di civili
Lo storico Enzo Traverso, specialista del totalitarismo e delle politiche della memoria, insegna storia intellettuale all’università di Cornell negli Stati uniti. Di passaggio a Parigi, l’autore de La violenza nazista, La fine della modernità ebraica, Melanconia di sinistra e ancora Rivoluzione, 1789-1989: un’altra storia, analizza gli effetti potenzialmente devastanti della strumentalizzazione della memoria dell’Olocausto per giustificare la «guerra genocida» condotta dall’esercito israeliano a Gaza.
Denunciando fermamente il terrore del 7 ottobre, invita a non cadere nella trappola tesa da Hamas e dall’estrema destra israeliana che condurrebbe alla distruzione di Gaza e a una nuova Nakba. «Si può manifestare per la Palestina senza sventolare la bandiera di Hamas; si può denunciare il terrore del 7 ottobre senza legittimare una guerra genocida portata avanti sotto il pretesto del ‘diritto legittimo di Israele a difendersi’», insiste.
Ne La fine della modernità ebraica lei sosteneva l’idea che dopo essere stati un focolaio del pensiero critico nel mondo occidentale, gli ebrei si sono ritrovati, per una sorta di rovesciamento paradossale, dal lato del dominio. Quello che sta succedendo conferma quel che scriveva?
Purtroppo quel che sta avvenendo sembra confermare le tendenze di fondo che avevo analizzato e questa conferma non mi fa per niente piacere. In quel libro mostravo che l’entrata degli ebrei nella modernità ha avuto luogo, verso la fine del XVIII secolo, sulla base di una antropologia politica particolare. Quella minorità uscita dalla diaspora si scontrava con una modernità politica modellata dal nazionalismo che vedeva in loro un corpo estraneo, irriducibile a nazioni concepite come comunità etniche e territoriali. Coinvolti, dopo l’emancipazione, nella secolarizzazione del mondo moderno, gli ebrei si sono ritrovati, nel passaggio del XX secolo, in una situazione paradossale: da un lato, si allontanavano progressivamente dalla religione, sposando con entusiasmo le idee nate dall’Illuminismo; dall’altro, dovevano fare i conti con l’ostilità di un contesto antisemita. In queste circostanze storiche, sono diventati un crogiuolo di cosmopolitismo, di universalismo e internazionalismo. Aderivano a tutte le correnti d’avanguardia e incarnavano il pensiero critico. Nel mio libro, ho fatto di Lev Trotzky, il rivoluzionario russo che ha vissuto la maggior parte della sua vita in esilio, la figura emblematica di questa ebraicità della diaspora, anticonformista e critica dell’ordine dominante.
Il quadro cambia dopo la Seconda guerra mondiale, dopo l’Olocausto e la nascita di Israele. Certo, il cosmopolitismo e il pensiero critico non sono scomparsi, rimangono dei tratti tipici del mondo ebraico. Durante la seconda metà del XX secolo, tuttavia, un altro paradigma si impone, di cui la figura emblematica è quella di Henry Kissinger: un ebreo tedesco esiliato negli Stati uniti che diviene il principale stratega dell’imperialismo americano.
Con Israele, il popolo che era per definizione cosmopolita, diasporico e universalista diviene la fonte dello Stato più etnocentrico e territoriale che si possa immaginare. Uno Stato edificato su una serie di guerre contro i propri vicini, si concepisce come uno Stato ebraico esclusivo – sta scritto dal 2018 nella sua Legge fondamentale – e pianifica l’espansione del proprio territorio a spese dei palestinesi. Si tratta di un mutamento storico significativo che indica due poli antinomici dell’ebraicità moderna. La guerra a Gaza conferma che il nazionalismo più meschino, xenofobo e razzista dirige oggi il governo israeliano.
D’altra parte, l’offensiva di Hamas del 7 ottobre ha agito come una riattivazione della memoria molto forte in Israele al punto che oggi la memoria dell’Olocausto è utilizzata per giustificare i massacri di Gaza. Come mantenere una memoria ebraica che non sia così strumentalizzata? Si può riattivare la prima ebraicità di cui lei parlava?
Quel che sta avvenendo rischia di offuscare considerevolmente il nostro paesaggio culturale, intellettuale e i nostri riferimenti memoriali. Posso comprendere le reazioni emotive molto forti suscitate dall’attacco del 7 ottobre, ma queste non dovrebbero reprimere uno sforzo necessario di contestualizzazione e comprensione razionale. Non siamo in grado oggi di analizzare la situazione con la distanza critica indispensabile, la storia si scrive sempre a posteriori, ma alcune cose sono chiare.
Da un lato, l’attacco portato da Hamas è stato un massacro spaventoso che nulla può giustificare. D’altra parte, quel che sta accadendo a Gaza assume i tratti di un genocidio che occorre fermare: una popolazione di 2,5 milioni di persone è chiusa in un territorio sottoposto a bombardamenti intensivi, privata di elettricità, gas, cibo, acqua, medicine. Le sue infrastrutture (inclusi scuole e ospedali) sono distrutte sistematicamente. Un milione di civili è stato costretto a trasferirsi verso il sud di Gaza, dove subisce ancora i bombardamenti. Gli ospedali sono paralizzati, la disperazione è ovunque.
Sono consapevole che il concetto di genocidio non può essere utilizzato alla leggera, che appartiene a un ambito giuridico e mal si adatta alle scienze sociali, che è stato sempre oggetto di usi politici per stigmatizzare i nemici o difendere le ragioni della memoria. Tutto questo è vero, ma questo concetto esiste e la sola definizione normativa di cui disponiamo, quella della Convenzione Onu del 1948, corrisponde alla situazione che oggi esiste a Gaza.
In questo contesto, l’evocazione dell’Olocausto diviene una fonte permanente di malintesi. La strumentalizzazione della memoria dell’Olocausto non è nuova. Oggi serve a legittimare la guerra a Gaza. Quando si evoca l’Olocausto, è per presentare l’antisemitismo come chiave di lettura del 7 ottobre e stupirsi, o indignarsi, per l’ondata di solidarietà nei confronti dei palestinesi che si è manifestata massicciamente nel Sud del mondo.
Certo, il 7 ottobre è stato un massacro spaventoso, ma qualificarlo come il più grande pogrom della storia dopo l’Olocausto significa suggerire una continuità tra i due. Questo induce a una interpretazione abbastanza semplice: quel che è avvenuto il 7 ottobre non è l’espressione di un odio generato da decenni di violenze sistematiche e di spoliazioni subite dai palestinesi; è un nuovo episodio nella lunga sequenza storica dell’antisemitismo che va dall’antigiudaismo medievale fino alla Shoah, passando per i pogrom dell’impero dello Zar. Hamas, dunque, sarebbe l’ennesimo episodio di un antisemitismo eterno. Questa lettura rende inintelligibile la situazione, cristallizza gli antagonismi e serve a legittimare la risposta israeliana. Netanyahu si era peraltro distinto, qualche anno fa, dichiarando che se Hitler aveva messo in atto la Shoah, il Grand Muftì di Gerusalemme ne era stato l’ispiratore.
Quali potrebbero essere le conseguenze di una tale interpretazione della memoria dell’Olocausto? Non si rischia di avere un ritorno di antisemitismo?
Sì, questo rischio esiste. Una guerra genocida condotta in nome della memoria dell’Olocausto non può che offendere e gettare discredito su questa memoria. Se non si ferma questa guerra, nessuno potrà parlare di Olocausto senza suscitare diffidenza e incredulità; molti finiranno per credere che l’Olocausto è un mito inventato per difendere gli interessi di Israele e dell’Occidente. La memoria della Shoah come «religione civile» dei diritti umani, dell’antirazzismo e della democrazia, sarebbe cancellata. Questa memoria è servita come paradigma per costruire il ricordo di altre violenze di massa, dalle dittature militari in America latina all’Holodomor in Ucraina, fino al genocidio dei Tutsi in Ruanda.
Se questa memoria si identifica con la stella di David portata da un esercito che mette in atto un genocidio a Gaza, questo avrebbe conseguenze devastanti. Perderemmo tutti i nostri punti di riferimento, sia sul piano epistemologico che politico. Entreremmo in un mondo in cui tutto si equivale e dove le parole non avrebbero più alcun valore. Tutta una serie di riferimenti costitutivi della nostra coscienza morale e politica – la distinzione tra il bene e il male, la difesa e l’offesa, l’oppressore e l’oppresso, il carnefice e la vittima – rischierebbero di essere seriamente compromessi. La nostra concezione della democrazia, che non significa soltanto un dispositivo di leggi e un sistema istituzionale, ma anche una cultura, una memoria e un insieme di esperienze, ne uscirebbe a sua volta fragilizzata. L’antisemitismo, storicamente in declino, conoscerebbe una rimonta spettacolare.
Lei vive negli Stati uniti ma conosce bene la Francia e la Germania, dove c’è un peso del senso di colpa riferito a quanto inflitto agli ebrei nella Seconda guerra mondiale. Come interpreta la reazione dei governi di questi paesi?
Naturalmente la Germania si trova in una posizione particolare. Come gli ebrei, anche la Germania ha ricostruito la propria identità sulla memoria dell’Olocausto. Il memoriale degli ebrei assassinati in Europa, nel cuore di Berlino, funge da promemoria per i tedeschi, da ammonimento (questo è il significato letterale del suo nome: Holocaust Mahnmal). La Shoah è diventata un pilastro della coscienza storica tedesca. Faccio questa osservazione da italiano, da cittadino di un paese che non ha elaborato questa memoria, soprattutto per quanto riguarda i massacri coloniali e il genocidio perpetrato dal fascismo in Etiopia. Ma quando il Cancelliere Olaf Scholz dice che la Germania ha il dovere di difendere Israele, assume una posizione che un cittadino tedesco di origine palestinese – la Germania ha la più grande comunità palestinese in Europa – non può accettare.
Negli Stati uniti, va notato che la destra sionista più radicale non è ebraica; è la destra cristiana fondamentalista che sostiene Trump. Esistono profonde divisioni all’interno del mondo ebraico, una parte significativa del quale sta manifestando contro la guerra a Gaza (in particolare Jewish Voice for Peace). Negli Stati uniti, il contesto ricorda più la guerra del Vietnam che l’Olocausto, in quanto gli Usa sono direttamente coinvolti nella guerra a Gaza. Non si tratta più di accusare le potenze occidentali di complicità per omissione poiché erano restate passive di fronte allo sterminio degli ebrei o, nel caso della Francia, rimaste in disparte durante il genocidio dei Tutsi in Ruanda. La configurazione non è più la stessa: una guerra genocida si sta svolgendo a Gaza con il via libera dei rappresentanti delle potenze occidentali, che si sono tutti recati a Tel Aviv per portare il proprio sostegno a Israele.
Gli Stati uniti hanno schierato due portaerei nel Mediterraneo orientale per rassicurare Tsahal. Tutti ripetono che Israele ha il diritto di difendersi nel rispetto del diritto internazionale umanitario – mentre Israele viola questo diritto da decenni e nonostante sia evidente che questo diritto non è rispettato a Gaza. Israele agisce con il sostegno militare e finanziario degli Stati uniti. Come all’epoca della guerra del Vietnam, i manifestanti sanno che gli Stati uniti hanno il potere di fermare questa guerra. Credo che l’ampiezza delle manifestazioni americane abbia anche a che fare con una coscienza più acuta delle ineguaglianze e discriminazioni razziali che si è sviluppata in tutto il paese sull’onda di Black Lives Matter.
In Francia e in Germania molte manifestazioni sono state vietate, ma l’opposizione alla guerra è anche qui ampia. Bisogna osservare che il Sud globale manifesta, non solo davanti alle ambasciate israeliane e americane, ma anche francesi. Nei reportage di Al Jazeera si ironizza su Emmanuel Macron che un giorno invoca una coalizione internazionale contro Hamas e il giorno dopo una coalizione per gli aiuti umanitari, senza mai indicare chi farebbe parte di queste coalizioni, come dovrebbe agire e con quali mezzi. Tutto ciò appare un’improvvisazione dilettantesca e penosa. Chi attendeva dalla Francia una posizione più indipendente e più degna, come quella di Chirac nel 2003 con la guerra in Iraq, è rimasto profondamente deluso.
In Francia, la France Insoumise (Lfi), è accusata di antisemitismo pressoché da tutte le forze politiche. La sua voce è divenuta inascoltabile da quando si è rifiutata di qualificare Hamas come terrorista. Come legge questo meccanismo?
È una immensa cortina fumogena, un’operazione mediatica. Utilizzare questa tragedia per un regolamento di conti politici è abbastanza squallido. Si può criticare questa o quella presa di posizione dei rappresentanti di Lfi, la sola forza politica rappresentata all’Assemblea nazionale chiaramente in opposizione alla guerra, ma accusarla di antisemitismo è semplicemente grottesco.
Sul terrorismo ci sono comunque cose abbastanza semplici da dire. Innanzitutto, esiste un’ipocrisia straordinaria da parte dei paesi occidentali che rifiutano di negoziare con Hamas in quanto organizzazione terrorista, chiedendo però la liberazione degli ostaggi. Ma con chi si negozia questa liberazione se non con Hamas? Per non sporcarsi le mani si delega la questione al Qatar.
D’altra parte, Hamas ha ucciso 1.400 persone il 7 ottobre di cui più di mille civili. Si è trattato di un massacro pianificato e rivendicato. È quindi evidente che si tratta di un atto terroristico. Ma qualificare Hamas come organizzazione terrorista non risolve la questione in quanto Hamas non può essere ridotta alle sue pratiche terroristiche. Il terrorismo è un metodo di azione. Il «terrorismo» di Hamas è comparabile a quello dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) prima degli accordi di Oslo, dell’Irgoun [da cui proviene l’attuale Likud, ndr] prima della nascita dello Stato di Israele, del Fronte di liberazione nazionale durante la guerra di Algeria ecc. Il ricorso a mezzi d’azione che si possono definire terroristi, non è incompatibile con gli obiettivi politici di un movimento di liberazione nazionale.
Storicamente, il terrorismo è l’arma dei poveri e delle guerre asimmetriche. Hamas corrisponde abbastanza bene alla definizione classica di «partigiano»: un combattente irregolare, con una forte motivazione ideologica e radicato in un territorio, all’interno di una popolazione che lo protegge. Hamas prende degli ostaggi; l’esercito israeliano arresta dei civili e fa dei «danni collaterali» nel corso delle sue operazioni militari. Il terrorismo di Hamas non è che l’altra faccia del terrorismo dello Stato israeliano. Hamas vuole distruggere Israele senza averne i mezzi; Israele vuole distruggere Hamas dopo averlo favorito contro l’Olp, radendo al suolo Gaza e massacrando la sua popolazione. Se il terrorismo è sempre inaccettabile, quello dell’oppressore è peggiore di quello dell’oppresso.
Oggi i palestinesi riconoscono Hamas come una forza armata che resiste all’occupazione. Non siamo noi che possiamo dire chi fa parte della resistenza palestinese in funzione delle nostre simpatie o dei nostri orientamenti ideologici. Io non ho nessuna simpatia per Hamas, ma la sua appartenenza alla resistenza palestinese è un fatto incontestabile. È solo a partire dal riconoscimento di questa realtà che si può trovare una soluzione.
Lei ha dichiarato prima del 7 ottobre che una sinistra che non critica il sionismo non è autenticamente sinistra. Cosa intendeva?
Se vogliamo fare una storia del sionismo occorre prendere in considerazione l’eterogeneità e la diversità delle sue correnti, perché non si riduce tutto a Theodor Herzl e al sionismo politico. In Europa centrale, per esempio, il sionismo culturale non rivendicava la creazione di uno Stato, proponeva piuttosto la formazione di un «focolaio» nazionale ebraico che sarebbe coesistito con gli arabi di Palestina su una base extraterritoriale; altri puntavano alla creazione di uno Stato binazionale. Era la posizione di Yehuda Magnes, il fondatore dell’università ebraica di Gerusalemme e, agli inizi, dello studioso della cabbala Gershom Scholem e altri. C’era inoltre un sionismo marxista rappresentato da Ber Borokhov, e anche un sionismo fascista che ammirava Mussolini.
Tuttavia, il sionismo che si è imposto in Israele divenendo la colonna vertebrale dello Stato, è il sionismo politico. Dalla sua nascita, questo Stato che si dice sionista, ha condotto con tutti i suoi governi una politica di espansione territoriale e di colonizzazione a spese dei palestinesi, espulsi o segregati. Penso che una sinistra autentica dovrebbe opporsi con forza a questa politica. Ecco cosa intendo per antisionismo.
Molti ebrei sono antisionisti. Questo non ha niente a che vedere con l’antisemitismo, la distruzione dello Stato di Israele o l’espulsione degli ebrei dalla Palestina. C’è una nazione israeliana che esiste, che è viva e dinamica e ha il diritto di esistere, ma io penso anche che questa nazione non abbia un avvenire con l’entità politica che oggi la rappresenta. Nel mondo globale del XXI secolo, uno Stato fondato su basi etniche e religiose esclusive è un’aberrazione, in Israele/Palestina come altrove. Osservo anche che questo luogo comune profondamente falso – l’antisionismo è una forma di antisemitismo – viene messo in avanti non quando l’esistenza di Israele è minacciata, ma quando Israele vuole distruggere i palestinesi.
Nella storia la colonizzazione è terminata o per lo sradicamento dei popoli autoctoni, o per l’espulsione dei coloni. Israele si è costruito in un momento post-coloniale. È possibile che lo sviluppo sia diverso?
Non ho capacità predittive, ma temo il peggio. La situazione non fa che aggravarsi da decenni. I modelli offerti dalla storia non sono necessariamente validi perché non viviamo più nel mondo del XX secolo. Il sionismo è un colonialismo sui generis, molto diverso dal modello britannico in India o francese in Algeria. Alla soluzione dei «due Stati» non crede seriamente più nessuno, benché sia ritualmente evocata, e tenuto conto dell’acutezza dei conflitti, non riesco a vedere come possa emergere uno stato binazionale israelo-palestinese. Ma se usciamo dalla situazione contingente e guardiamo a una prospettiva storica, non c’è alternativa alla co-esistenza di ebrei e arabi in Palestina su delle basi di eguaglianza.
In Europa ci troviamo di fronte all’eredità di un secolo e mezzo di razzismo e colonialismo che hanno lasciato tracce nelle mentalità, le rappresentazioni, le percezioni e le relazioni sociali. Questo si osserva non solo alle elezioni, ma quotidianamente, con i controlli facciali sulla metro, con le leggi islamofobiche, i dibattiti sull’immigrazione. In Israele ho l’impressione che il razzismo sia entrato ugualmente nell’ordine naturale delle cose. C’è un’assuefazione alla segregazione di Gaza, ai coloni in Cisgiordania che confiscano le terre e dispongono di strade riservate, ai check-points per i palestinesi, alle operazioni militari arbitrarie, alle vessazioni quotidiane. Dall’altra parte del muro, quest’assuefazione non può che produrre un sentimento di abbandono, di disperazione, di umiliazione e di odio. Penso che occorra lottare contro questa «assuefazione» che è un ostacolo insormontabile per qualsiasi prospettiva di pace.
Mathieu Dejean
Joseph Confavreux
Enzo Traverso
8/11/2023 https://jacobinitalia.it
Enzo Traverso insegna alla Cornell University. I suoi libri più recenti sono Rivoluzione (Feltrinelli, 2021) e La tirannide dell’io (Laterza, 2022). Questa intervista è uscita su Mediapart. La traduzione è a cura della redazione.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!