La guerra o la continuazione della politica (dei ricchi) con altri mezzi. Il caso italiano

«Quando i ricchi si fanno la guerra – scrive Sartre –, sono i poveri che muoiono». Con questa folgorante intuizione il filosofo francese forse riesce a cogliere l’essenziale della guerra in epoca moderna. Oggi queste parole risuonano del tutto “inattuali”, rispetto alla narrazione guerrafondaia dominante, ma tanto più necessarie per interpretare il nostro presente.

Ma chi sono nell’attualità questi poveri di cui parla Sartre, contro cui la guerra si accanirebbe? Per stare al caso italiano, sicuramente quelli rilevati dalle indagini statistiche: circa 13 milioni di persone, tra poveri relativi ed assoluti. Ed in questo dato non sono ricompresi i tanti semi schiavi che lavorano in clandestinità nelle campagne del Sud e del Nord, al soldo dei nuovi caporali. Se poi ci si prova ad attraversarli quei numeri, lo scenario che emerge è ancora, se possibile, più inquietante. Si scopre che una parte consistente di quell’ «esercito industriale di riserva» è costituita da lavoratori che pur lavorando sono sotto la soglia di sussistenza. La triste conferma di una saldatura ormai tra povertà e lavoro è nella circostanza che circa un 20% degli attuali percettori di Reddito di cittadinanza risulta occupato.

Ora, se addirittura chi lavora in questo nostro Paese ha bisogno di un assegno integrativo per vivere, come si può pensare che lo possa fare senza alcuna protezione sociale chi rientra nella categoria di «occupabile»? Che sono, nella perversa formula escogitata dal governo, tutti coloro che rientrano nella fascia di età tra i 18 e i 59 anni, senza disabili o minori a carico.

Ma, per ritornare al discorso principale, tutto ciò non deve sconvolgere più di tanto: c’è sempre del metodo in ogni apparente follia. Il nostro Paese rappresenta solo il caso più estremo e per questo utilmente paradigmatico di un processo di svalorizzazione ed impoverimento del lavoro che ha riguardato, sia pure in modi differenziati, tutta L’Europa, dopo che nell’anglosfera i referenti politici del neoliberismo montante, Thatcher e Reagan, avevano tracciato la rotta. E non lasciamoci fuorviare dalle statistiche, che vanno come tutte le cose umane sempre interpretate. Quando si cita la regressione, negli ultimi 30 anni in Italia, dello stipendio medio del 3% (Ocse), in contrapposizione al dato positivo della Germania e di altri Paesi, si omette di ricordare che quegli incrementi comunque non sono serviti a riequilibrare la polarizzazione crescente a favore dei redditi da capitale, rispetto a quelli da lavoro, che anzi si è intensificata negli ultimi tempi (E. Brancaccio).

Ma come si inserisce la guerra in questo quadro già desertificato da un quarantennio di regime neoliberale? Come ogni guerra, intensificando ed accelerando i processi di divaricazione tra ricchezza e povertà già in atto, aggiungendo così un tratto classista alla polarizzazione. Una ricerca pubblicata di recente stima che per effetto della guerra i poveri assoluti nel nostro Paese aumenteranno di un altro 10%. La decisione poi di portare al 2% del Pil le nostre spese militari ha comportato una riduzione uguale e contraria delle risorse previste per il servizio sanitario nazionale. Le quali, al pari di quelle destinate alla scuola e alla ricerca, avrebbero dovuto conoscere una rivalutazione sostanziosa alla luce della spirale inflazionistica in atto.

Ma se volessimo individuare il fenomeno più emblematico della redistribuzione alla rovescia che questa guerra sta determinando, questo va rintracciato nella vicenda che sta riguardando i beni energetici. L’aumento del prezzo del   gas e dell’elettricità sta creando nel Paese una vera e propria emergenza sociale che colpisce pesantemente i ceti popolari: chi per vivere ha bisogno di lavoro e chi disperatamente lo cerca perché non lo trova o l’ha perso. Non così per i grandi player globalisti dell’energia, che stanno macinando in virtù di dinamiche speculative incontrollate extra profitti record. Non pare vi sia traccia nella manovra finanziaria annunciata di un inasprimento della tassazione a carico ad esempio di Eni e Enel, aziende che oramai di pubblico conservano traccia solo nel nome. Per giunta con un inganno sotteso: l’aliquota sugli extra profitti passa, nominalmente, dal 25 al 50%; ma l’inganno sostanziale è nella platea imponibile che si riduce, passando dalle 11 mila aziende della prima stesura draghiana alle 6-7 mila dell’attuale versione. Così facendo si programma una riduzione del gettito che dall’iniziale 12 miliardi si riduce a soli 2,5 miliardi. Dunque, con una politica che si conferma strutturalmente non solo incapace di correggere un meccanismo di trasferimento di risorse dal basso verso l’alto, ma che si fa parte attiva per alimentarlo. Studi indipendenti riferiscono che alla fine del primo anno di guerra una famiglia media composta da 4 persone perderà circa 2500 euro in termini di potere d’acquisto.

Lo Stato sociale che era, sia pure tra mille carenze, il nostro principale vanto rischia di trasformarsi nell’ombra di se stesso. Per non parlare della disoccupazione sempre più dilagante, specie nel Sud che trovano nell’emergenza bellica il pretesto per feroci riorganizzazioni aziendali con perdite cospicue di posti di lavoro. Un lavoro, dunque, sempre più umiliato e insicuro abbinato, fuori dai luoghi di produzione, ad una rete di protezione sociale oramai residuale, come ha mostrato l’impatto della recente pandemia sul servizio sanitario nazionale.

Questo impressionistico excursus per dire che dal lato dei poveri, che la guerra sta perseguitando come non mai con le sue logiche impersonali speculative, ci sono a pieno titolo, e non solo in Italia il frammentato e disperso mondo del lavoro. Nonostante sia un popolo consistente ma che senza rappresentanza politica da tempo è sprofondato nell’invisibilità. Chi si muove a sua volta per lavoro lo intercetta, questo popolo, per lo più all’alba e lo si percepisce quasi come uno sciame. E’ accomunato, anche se non sempre lo sa, da un’assenza, la ricchezza, che comporta appunto la necessità del lavoro per vivere. Dopodiché sul piano empirico-fattuale, per effetto delle circostanze, si può far parte dei lavoratori poveri o semplicemente poveri di lavoro, specie se si è giovani, donne e si vive al Sud.

Questo esercito disperso e disilluso è privo, come si diceva, di una rappresentanza politica, che reclama da tempo come un viandante reclama l’acqua nel deserto. Anche se inconsapevolmente, da questi bassifondi, si richiede in modi scomposti e politicamente scorretti una cosa sola: che la si faccia finita con l’oligarchia che ha usurpato da noi – come altrove – la democrazia, di cui ha mantenuto, per il momento solo la silhouette. Democrazia, una bellissima parola, la cui etimologia rimanda, è sempre bene tenerlo a mente, al governo non del popolo ma dei poveri, con cui coincideva il popolo nell’antichità e non solo. I ricchi, quelli che fanno la guerra, per ritornare a Sartre, non hanno bisogno né della democrazia né della politica piuttosto le temono, come un vampiro teme la luce.

Salvatore Bianco

16/12/2022 https://www.lafionda.org

Ndr. Una versione più estesa di questo articolo uscirà sulla rivista “fuori collana“.

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