La legge Salva-Milano, ovvero il funerale dell’urbanistica

Uno spettro si aggira sul futuro (e presente) delle città italiane: è quello denominato “Salva-Milano”, che sarebbe più proprio chiamare “funerale dell’urbanistica”. Infatti, è di poche settimane fa l’approvazione alla Camera di una legge che applica il principio di “interpretazione autentica” a due pilastri fondamentali della legislazione urbanistica italiana: la legge n. 1150/1942 (legge urbanistica nazionale) e il decreto ministeriale n. 1444 del 1968 (concernente gli standard urbanistici).

Interpretazione autentica significa, in poche parole, che se la nuova costruzione (ad esempio un grattacielo) non peggiora la qualità della vita degli abitanti che risiedono in quel quartiere, allora puoi procedere, in deroga alle altezze stabilite e con un incremento delle cubature, alla sua realizzazione, in sostituzione magari di un vecchio magazzino a due piani, con un costo di oneri di urbanizzazione molto ridotto. Questa incredibile operazione edilizia e urbanistica degna della più spregiudicata speculazione, si ammanta dell’obiettivo di “rigenerare la città”. Un danno enorme sia per gli abitanti che si sentono privati dei loro diritti, sia per l’amministrazione comunale che vede ridotti i suoi introiti. Naturalmente a trarne profitto (meglio sarebbe dire, a specularci) sono gli immobiliaristi, i faccendieri del mattone,finanzieri senza scrupoli, che oltre a realizzare nuove costruzioni (leggi: grattacieli), incassano anche parte degli oneri di urbanizzazione non pagati alle amministrazioni. Questo principio fa letteralmente piazza pulita di tutta la legislatura urbanistica (e addirittura dello statuto epistemologico della stessa disciplina), ovvero delle conquiste che negli anni Sessanta e Settanta del riformismo è stata prodotta in Italia, a suon di lotte di cittadini. Se poi la legge, appositamente prodotta per Milano, venisse applicata ad altre città, saremmo in presenza di una speculazione edilizia generalizzata dettata da una cultura ultraliberista, con tanto di cancellazione di quel principio di “consumo di suolo zero” che molte amministrazioni sbandierano al momento elettorale per poi rinnegarlo all’atto del loro insediamento.

Ricordiamo che, in soli sedici anni, il consumo di suolo, in Italia, ha raggiunto il primato di ben 121.650 ettari; come aver aggiunto circa 11,5 città della grandezza di Milano a un’Italia già piegata dalla super cementificazione e dove un’urbanistica sregolata appare impotente a fronteggiare gli squilibri ecologici, come ben insegnano le recenti alluvioni in Emilia Romagna, in Toscana, nelle Marche e in Liguria.

La legge è stata approvata perché a Milano da tempo si procedeva alla realizzazione di edifici e di interi isolati attraverso una procedura semplificata, la SCIA, che viene utilizzata per piccole trasformazioni di singoli appartamenti, ovvero in casi di piccole ristrutturazioni, godendo della riduzione degli oneri di urbanizzazione. Ne è nato un modello “rigenerazione fai da te” che prospetta un disegno di una città ultraliberista fatta per singoli edifici e isolati senza alcun piano di servizi e col totale disprezzo della vita pubblica della comunità. Inoltre ne consegue un innalzamento dei valori immobiliari mascherato da una facciata di modernismo che serve per incrementare la tanto propagandata “attrattività”, ovvero l’afflusso di nuovi capitali, l’aumento dell’over turismo e la conseguente espulsione di ceti a basso reddito verso le zone più periferiche. Tanto che è noto come a Milano (modello di “successo” per molte amministrazioni anche di sinistra) sia assai difficile trovare alloggi in affitto, se non a un prezzo elevato e non accessibile ai più, tantomeno studenti. E se Milano piange Roma non ride, poiché molte delle opere finanziate col PNRR o coi fondi del Giubileo, sono del tutto marginali per risollevare le sorti di una città da tempo in ristagno. Inoltre compensazioni edificatorie (in base ai cosiddetti diritti pregressi) e crediti edilizi (per ristrutturazioni) si traducono in nuove costruzioni, spesso sull’agro romano, moltiplicando il consumo di suolo e il sistema già al collasso dei trasporti pubblici.

Non sappiamo a tutt’oggi se la legge verrà definitivamente approvata (molti sono i dubbi sulla sua costituzionalità), quello che invece è certo che il “Modello Milano” continua ad essere, dopo la “Milano da bere” di triste memoria craxiana, un modello da imitare per altre città dove l’over turismo e la cacciata degli abitanti storici è considerato un fenomeno necessario di modernizzazione. Se ai tempi del film di Rosi (1962), Le mani sulla città, imprenditori senza scrupoli potevano, con la complicità di qualche amministratore corrotto, modificare la destinazione d’uso di un terreno, da verde ad edificabile, questo era comunque considerato un atto criminale, mentre oggi la realizzazione di un grattacielo al posto di una vecchia costruzione a due o tre piani, passa per rigenerazione urbana senza alcun rischio per le amministrazioni (anche se c’è da dire che i tecnici dell’ufficio comunale di Milano sono sotto stress per le licenze rilasciate).

Si è appena conclusa a Baku la ventinovesima, e inutile, COP (Conferenza delle Parti per il Clima) vista anche la partecipazione di una nutrita rappresentanza di lobbisti del fossile (quasi 2000); un rituale cui purtroppo siamo abituati: tante dichiarazioni per l’ambiente e nessun dato di fatto a suo favore. Tanto più servirebbe un esempio di tante città ad avviarsi verso una transizione ecologica (che meglio sarebbe chiamare conversione ecologica) perseguendo l’obiettivo di consumo di suolo zero e restituendo agli abitanti quel sano desiderio di vivere in città senza subire quel caldo che si sprigiona dall’eccessiva cementificazione.

La costruzione di grattacieli a Milano, sbandierata in nome (sic!) del consumo di suolo zero, va nel senso opposto: quello di realizzare un disegno di città ad uso e consumo degli abitanti a reddito alto contrabbandato come una sorta di felicità urbana del singolo, ovvero la rinuncia a quegli statuti che diedero vita ai comuni italiani di cui Carlo Cattaneo tesseva le lodi come fondatori e depositari delle virtù civiche. Uno dei vanti dell’Italia era la ricchezza dei propri comuni, ricchezza civile, di bellezze, sociale. Ogni comune vantava le proprie tradizioni, la propria cultura, la produzione originale di merci e, dice Carlo Cattaneo (in La città considerata come principio ideale delle storie italiane), anche quando entravano in guerra per conto di altri, si distinguevano per le proprie insegne e i propri capitani. Comuni tra loro diversissimi, come racconta, negli anni Cinquanta, Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia, ma ognuno orgoglioso delle proprie fiere, del proprio mercato, della propria storia e tradizione. Le città erano i luoghi dove si sviluppava la partecipazione politica e della vita civile, luoghi pubblici per eccellenza. Ora essi, dimentichi di questa gloriosa tradizione, sono tutti simili tra loro, omologati rispetto agli obiettivi di attrazione nei riguardi dei flussi finanziari, del turismo e dell’evento; ognuno di essi in competizione con l’altro avendo come meta finale quella di imitare altre città “di successo”, come Londra e perfino Dubai. A questo scopo concorrono anche i cosiddetti archistar con architetture sradicate dal contesto; opere senza relazioni alcune con la città, che appartengono a un circuito internazionale sostanzialmente indifferente ai luoghi e che si riproducono in forme sostanzialmente simili in ogni contesto.

All’interno di queste città scompaiono progressivamente quei presidi sociali o anche solo istituzionali che contribuirono alle relazioni tra luogo e abitanti: cinema, teatri, piccole botteghe artigianali, commissariati di polizia, parrocchie. Una lenta e progressiva ritirata delle amministrazioni che non hanno più alcun interesse a governare i luoghi quanto invece ad attrarre i flussi finanziari e a trasformare i centri in vetrine di lusso per i turisti. Perché oggi il fine della città è quello di crescere, crescere sempre e divorare spazio e suolo. Ma le persone, gli abitanti, non abitano i flussi che attraversano la città, ma i luoghi fisici dove sono ancora possibili relazioni umane, scambi, pause, raccontare storie, chiacchiericcio inutile che produce socialità. E spiace (benché sia diventata un’abitudine) vedere come la sinistra al governo di queste città sia conquistata da questo effimero modernismo secondo il quale il nuovo è sempre meglio del vecchio, con la rinuncia di quei valori e di quelle tradizioni che fecero dell’Italia il Bel Paese dei cento comuni.

Enzo Scandurra

11/12/2024 https://volerelaluna.it/

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